Ennio Serventi."In questa terra amata" Seconda parte (continua)
IL bàlio era un omino piccolo e curvo, forse per l’artrite e per il lavoro. Aveva baffi grigi e l’aspetto severo, parlava a bassa voce in un dialetto che non era il nostro. Faceva “ el daquaròol”, categoria maestra di quei lavori di terra ed acqua oggi quasi Conosceva l’andare dei fossi e la pendenza dei terreni sui quali l’acqua, per irrigare, doveva scorrere dolce senza impaludare, senza lasciare zone asciutte e senza trascinare l’humus fertile di superficie. L’acqua arrivava tutta insieme da lontano. Dove si divideva nascevano la Livrasca, la Boschetta, la Baldocca, la Trecca, il Fregalino, la Marsalenga, la Schizza-Castella, la Melia Bassa e forse qualche altra, rogge che ben protette da arbusti e piante per impedire che il sole ne evaporasse l’acqua, scorrevano e si allargavano a raggiera da quella parte alta di pianura. Dal costolone del Naviglio la pianura si divideva e le divaricanti pendenze,anche se non visivamente percepite, portavano l’acqua delle rogge di sponda destra al Morbasco e quelle di riva sinistra al cavo Robecco. Poi, le une e le altre confluivano e finivano nel PO, nello stesso luogo.
Di tutte quelle rogge il Fregalino è quella alla quale più a lungo sono stato legato. Più a valle,lontano dalla chiusa che lo separava dall’altra acqua e dove già lambiva la periferia della città, prima che venisse intercettato e deviato per fare spazio alla costruzione di una strada di circonvallazione, muoveva ancora le pale del mulino di S.Zeno. IL mulino era antico, venne costruito dalle Madri del monastero di San Giovanni Nuovo al quale la Magnifica Comunità Cremonese concesse di aprire un bocchetto per l’uso invernale di parte dell’acqua del Naviglio Civico, ed era l’anno 1588. Poi, nei secoli, le dispense per l’uso dell’acqua si estesero. Noi, attenti ai cicli del mugnaio, quasi quattrocento anni dopo vi andavamo a pescare in quella roggia che, come lasciava intendere il suo nome, era servita anche alla “smaiolatura” (sfibratura) del lino. L’acqua, in quell’estate del 1947 era poca nella roggia. Il mugnaio fermava la macina e chiudeva una paratia ad intervalli regolari di circa trenta minuti. Interrotto il suo scorrere, l’acqua si accumulava a monte, svuotando a valle l’asta del cavo.Ed in quei trenta minuti noi, nei piccoli anfratti della rive rimasti all’asciutto, nelle basse pozze residue e nel fango del letto, raccoglievamo i piccoli pesci che ormai non avevano vie di scampo. Poi, improvviso il mugnaio riapriva la chiusa, con forza accresciuta l’acqua scorreva di nuovo e il suo peso, riversato sulla ruota, rimetteva in movimento la macchina.Le rogge ricordavano nei nomi paesi attraversati, vecchi dismessi mestieri o antiche famiglie feudatarie delle quali quell’onciato d’acqua era usurpato patrimonio per diritto di conquista, ereditario o portato di dote.
IL Naviglio Civico, dove vi andavo con i ragazzi di Terra Amata che vi si recavano per fare il bagno, era un po’ il padre di tutte quelle rogge. LO conobbi per intero tanti, tantissimi anni dopo ed il merito và ad un ragazzo di allora che ancora vedo. Propose a me ed ad altri di percorre, a piedi, tutto il sentiero che gli stava a fianco, ed erano quaranta, forse cinquanta chilometri. Una mattina,al ponte dei “due occhi” imboccando la strada alzaia che lo costeggia, partimmo per una prima tappa. Passammo quel che restava del mulino delle”Passere”, le bocche ancora misteriose degli scaricatori che abbracciano il pianalto di Cremona, la fabbrica dei salami e la tangenziale che si poteva, con rischio calcolato, attraversare. Al di là , in riva destra, la benassina in legno che passava sopra alla roggia “CAVO” prima che s’immettesse nel Naviglio dalla quale altri ragazzi si tuffavano. E lì, si diceva, l’acqua era buona perché proveniva dalle naturali risorgive di Paderno e di Ossolaro. Adesso qui, tra il Naviglio Civico e la via per Bergamo tutto è sconvolto, irriconoscibile, sovrastato e coperto dal cemento di un centro commerciale. Scomparso il bel tratto terminale della roggia “Cavo” e la corta strada d’erba calpestata che portava il suo nome. Scomparsi i cilindrici paracarri che la delimitavano e con loro il lavoro di antichi scalpellini. Le strade sono larghe d’asfalto, i toponimi non sono più quelli della terra e dell’acqua ma della Piazza d’Armi e del quartiere militare, avulsi da quel luogo dove, fra le diverse acque di superficie, dolcemente, con il diradarsi delle case e l’ampliarsi degli orti, la città diventava campagna. Scomparso è anche il ponte sulla roggia Cavo ed il bocchetto della “Lupa” attraverso il quale si alimentava la fossa “Corada” che, nel suo andare in “Baraccona”, muoveva il molino di S.Ambrogio. Continuando il cammino lungo la strada alzaia del Naviglio Civico ritrovai lo “stramazzo” e vidi lo sbarramento di Marzalengo, l’isola con la cascina del “Mincin”, i “tredici ponti”, la “tomba morta”e la “presa” bergamasca di Calcio mentre la Elda cercava e catalogava, erbe, foglie, insetti d’acqua e di terra.
DA TERRA AMATA, il Naviglio Civico lo si raggiungeva percorrendo una stradina di polvere. Costeggiava il frutteto padronale protetto dall’alta recinzione, superata, scavalcata dalla cima del noce inclinato che pareva volesse cadere, e l’ombra ed i frutti finivano al di qua, nell’acqua del fosso e nei detriti del viottolo. Nel frutteto andavamo per scorrerie; i ragazzi per cogliere la frutta caduta dagli alberi ed io per stare con loro Alla fine della strada di polvere si girava a destra per un sentiero che, costeggiata una fila di gelsi, s’ inoltrava in un aggrovigliato bosco spontaneo rivierasco superato il quale c’era il naviglio. IN quel tratto l‘acqua costretta, quasi incanalata entro due spallette di mattoni rossi, scorreva veloce su di un lastrico anch’esso di mattoni messi a coltello, per poi stramazzare, libera, nel più basso successivo slargo delle rive. Noi il naviglio lo attraversavamo lì in quel punto, camminando sicuri dell’appoggio dei piedi sul lastrico. Nei campi dell’altra riva si intravedevano i muri della cascina “Lazzaretto” e l’incerto tracciato di una strada che andava anche verso un posto chiamato “Ossalengo”. NOmi di antichi dismessi luoghi di quarantene e sepolture ed evocavano pestilenze e morte. IO il bagno non lo facevo, non sapevo nuotare ed avevo paura. Aspettavo che gli altri si stufassero di tuffarsi e rituffarsi per poi tornare insieme e di quei ragazzi non mi è rimasto che qualche anonimo ricordo. Non fu così per lei che mi riconobbe un mezzogiorno al fischio di uscita dalla fabbrica di piastrelle. Dieci anni non erano bastati per cancellare quel mio passaggio da Terra Amata. “Tu sei Ennio” disse affiancandomi. Prevenne la mia domanda: “sono la Lina…la Lina di Terra Amata! ed il sorriso gli si fece ampio. Venne più vicina, mi parve volesse fare con me almeno quel tratto che la separava dal refettorio, ed era come se quel camminare nuovo fosse per lei la continuazione ininterrotta di un andare più antico. Esitai, occupato nella ricerca di ricordi non le parlai e non ci fu più il tempo per camminare insieme.
Venimmo sospinti, separati e dispersi dalle tante che si affrettavano a raggiungere la mensa, incuneate in quella strettoia fra i reparti della macinatura, delle presse e delle “chitarre” da una parte e quello nuovo dello “smalto” dall’altra. Io non la trattenni, non la rincorsi non la cercai e nemmeno la chiamai come sicuramente, con nostalgia e piacere, farei oggi e colpevolmente quell’incontro divenne subito ricordo. Fra le tante cose perdute o forse solo occultate, riemerse un brandello che perduto non era. Riapparve quella scomposta fila di bambini al rientro serale. Noi, di quella fila, ci trovammo ad essere gli ultimi, forse rallentammo il passo e la distanza dagli altri divenne più grande. CI salutammo per la cena sapendo entrambi che ci saremmo rivisti dopo, come era d’abitudine, ma già sentivo crescere l’inibente puerile pudore. IN collegio ed a scuola i generi erano rigidamente separati e la promiscuità di quei ragazzi di campagna mi aveva colpito, senza coinvolgermi, fin dal mio arrivo a Terra Amata. Così quella sera, dopo avere mangiato la polenta, timoroso di essere coinvolto in una di quelle cose che si raccontavano e che non capivo fino in fondo,rimasi in casa. Rientrò Gina; “ la Lina ti aspetta “a pastruciàa la tò morùsa”, disse. Ed io rimasi lì, seduto sulla pietra del camino.
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https://www.welfarenetwork.it/serventiin-questa-terra-amata-20110314/