Giovedì, 25 aprile 2024 - ore 23.42

L’EcoPolitica Crema Elezioni 11 giugno: la pesca a strascico del PD

Non ci piace rimanere in superficie. Siamo sempre portati, per indole e per stile comunicativo, ad essere diretti e puntare al centro delle cose, su cui siamo chiamati ad esprimerci. Ragione per la quale non gireremo attorno e, soprattutto, non saremo reticenti.

| Scritto da Redazione
L’EcoPolitica  Crema Elezioni 11 giugno: la pesca a strascico del PD

L’EcoPolitica  Crema Elezioni 11 giugno: la pesca a strascico del PD

Non ci piace rimanere in superficie. Siamo sempre portati, per indole e per stile comunicativo, ad essere diretti e puntare al centro delle cose, su cui siamo chiamati ad esprimerci. Ragione per la quale non gireremo attorno e, soprattutto, non saremo reticenti.

Dopo l’antifona, veniamo al punto. Nei giorni scorsi la sempre apprezzata pagina cremasca del quotidiano provinciale, certamente non nell’intento di produrre uno scoop, annuncia che “il pd svela le carte”.

Prima di entrare nel merito di ciò che più o meno direttamente potrebbe riguardare la comunità socialista, ci si consenta una domanda retorica.

Svelare? Ma cosa ancora c’è da svelare di una campagna elettorale che è partita il stesso giorno in cui è iniziato il mandato amministrativo e che, in coincidenza con la dirittura d’arrivo, assomiglia molto al timbro della classica sovraesposizione berlusconiana?

Se, come di cuore auguriamo per il bene di Crema, il Sindaco uscente non sarà rientrante, non potrà non mettere sotto la lente, oltre che il peso del giudizio critico dell’elettorale, anche la vistosa concausa rappresentata da, come si diceva un tempo (quando ancora vigeva un naturale impulso alla sobrietà), una “campagna all’americana”. Poco rispettosa dell’intelligenza dei cittadini elettori e, soprattutto, rivelatrice di una scarsa propensione ad occuparsi più di programmi e di proposte che dell’ossessiva ricerca di quei consensi suscettibili di mantenere in sella , per altri cinque anni, una delle peggiori giunte che la storia cremasca ricordi.

E, siccome la sala di regia della nomenklatura insediata in Municipio, stima che per avere il necessario consenso non sia preferibile e doveroso esprimere buone prestazioni ma mandare a pieni giri la macchina dei voti, allora non resta che ottimizzare i meccanismi di raccolta.

Nella prima Repubblica, in cui ovviamente non si partecipava alle elezioni per mero impulso decoubertiniano, bastava far mente locale per riordinare le idee sulle performances prodotte, proiettarle nella dimensione del nuovo mandato, mettere a punto un buon programma confrontato con gli iscritti e col coté di riferimento, presentare una buona lista dei migliori candidati possibili. Che per Crema erano quaranta, come massimo.

Certo quell’aggregato espressione di una volontà di servizio civile era anche uno strumento di selezione popolare e ad un tempo una macchina di raccolta di consensi.

Nei nuovi scenari della seconda Repubblica, in cui il pensiero diventava liquido ed i partiti leggeri ed in cui la partecipazione popolare cedeva al leaderismo, si sarebbero inventate regole finalizzate prevalentemente a vincere.

Siccome si hanno poche idee da proporre, allora si mettono in campo centinaia di candidati che diventano una macchina di raccolta.

Ora, non vorremmo essere fraintesi. Siamo assolutamente certi delle buone intenzioni di chi ( per essere chiari, tutti coloro che si candidano in qualsivoglia lista) si mette in gioco e si propone di servire la comunità.

Ma non può sfuggire la vistosa circostanza rappresentata dall’ingaggio, da parte del candidato sindaco, di duecento candidati distribuiti, si dice, in sette liste “di scopo”. Vale a dire, pensate per specializzare la leva di raccolta.

Insomma la macchina da guerra del candidato sindaco e del movimento detentore della golden share di controllo del potere politico-istituzionale è ispirata ad un moto centripeto teso a veicolare verso il vertice della coalizione l’azione dei duecento sherpa.

Che, oltre all’appealing del proprio profilo rispondono anche al requisito della rappresentanza del richiamo delle liste di scopo. Vale a dire, la sollecitazione dell’identificazione dei più svariati interessi, sensibilità, istanze.

Ovviamente, resta l’esigenza di fornire, oltre che un’offerta merceologica molto articolata, anche l’immagine di una vasta capacità aggregativa sul fronte squisitamente partitico.

Si dice dell’atomizzazione dell’organizzazione politica. Ma ciò vale quasi esclusivamente in riferimento alla moltiplicazione dei soggetti per gli alti rami della rappresentanza. Quando si scende in periferia la frammentazione è poco più che simbolica.

Specialmente a sinistra, dove la rilevanza dei “cespugli” è praticamente affidata ad un fatto simbolico o tutt’al più all’esigenza, da parte del PD, di raschiare il fondo del barile.

Movimenti minoritari, anche, se per effetto di un diritto di tribuna che non si nega mai a nessuno, rappresentati pro quota nei consessi, ma non di meno vocati a ruoli marginalissimi, vengono tolti dalla naftalina.

E proposti, anche a costo di manomettere la verità fattuale, nel selfie di famiglia; a dimostrazione che il candidato sindaco è rappresentativo di una vasta pluralità di apporti.

Insomma, come si direbbe per le attività piscatorie, una tecnica a strascico.

Si sarà ben capito che non risultiamo tra i cantori delle opere e degli splendori della temperie successiva alla fine della vituperata prima repubblica.

E men che meno ci appassioni la piega che stanno prendendo le vicende elettorali del centro-sinistra di Cremona.

Che, per essere franchi, erano già enucleabili nelle premesse.

I socialisti (ovviamente non quelli che legittimamente al cambio di passo tra la prima e la seconda repubblica gli parve di cogliere maggiori sintonia e coerenza nell’offerta berlusconiana) sono collocati, non senza disagi e perplessità, nel campo della sinistra riformista.

Al punto tale che qualcuno di noi, nell’analizzare analogie e convergenze con gli sviluppi riformisti della leadership renziana, arriva ad azzardare come realistico un eventuale snodo che veda PSI e PD collegati in un rapporto associativo.

Capace di rafforzare la dorsale riformista del recalcitrante campo di centro-sinistra.

Rebus sic stanti bus, sarebbe parso naturale sbocco, di questo rimando politico generale e della circostanza rappresentata da una sia pur infeconda partnership durata cinque anni, l’ipotesi, almeno teorica, del seguente percorso.

Si attiva, da un lato, il proverbiale tavolo progettuale e, dall’altro, si indicono le primarie di coalizione.

Di solito si fa così. Come così si è fatto tre anni fa a Cremona e dove si dovrebbe fare nelle situazioni in cui, come Crema, la valutazione sull’operato della Giunta e, soprattutto, del Sindaco non è esattamente univoca.

Ci si poteva prendere qualche tempo per una risposta, qualunque potesse essere.

Non c’è stata. Probabilmente, perché i grandi timonieri dell’operazione- conferma stimavano che l’adesione dei socialisti fosse automaticamente acquisita.

Si dà il caso che, nelle more dei preamboli dell’incipiente campagna elettorale, si sia verificata una circostanza, che, magari, non cambierà quella somma che farà il totale (come suggerirebbe il compagno De Curtis) elettorale, ma che incide significativamente nell’offerta politica.

A Crema, a sinistra, qualcuno si è stufato sia dell’infima qualità delle prestazioni politico-amministrative sia dell’inaccettabile arroganza che presiede ai meccanismi decisionali.

Contestualmente all’enucleazione di una nuova modalità di testimonianza politica espressa dalla Comunità Socialista cremasca e provinciale, che amplia di molti gli orizzonti del piccolo PSI, si sono andate affermando ipotesi alternative alla prosecuzione in automatico dei percorsi sin qui seguiti.

Al convincimento che "cambiare si può" (al limite, si deve) la Comunità Socialista è giunta sia come conclusione del proprio percorso (che comunque escludeva ab origine un approdo robotizzato alle insegne del sindaco uscente)  sia come accertamento dell’esistenza delle condizioni per una collaborazione con altre testimonianze.

Coagulate dall’ansia del cambiamento (di prospettive progettuali e di modalità gestionali) e dalla precisa volontà di dare corpo a tale indirizzo all’interno di un contenitore che privilegiasse i contenuti programmatici rispetto ai format tradizionali.

Nasce così la candidatura Ajello, orientata dai profili appena richiamati e da un evidente rimando al campo della sinistra, ma svincolata da alcuni combinati disposti. Tipo: se sei di sinistra, allora devi stare con…

Da socialisti riformisti (ma talmente snob da indurci a fare nostro l’aforisma di Cacciari circa la condizione di essere già abbienti di nostro), sempre fiduciosi nella prospettiva di una sinistra italiana fortemente permeata dal riformismo e dal pluralismo, negli ultimi anni, pur sostenendo sempre il PSI, abbiamo partecipato alle parlamentarie (votando Pizzetti), alle primarie del 2012, del 2013 e del 2017 (votando nell’ordine Bersani, Cuperlo, Renzi), alle primarie di coalizione del 2014 a Cremona (votando Carletti).

Le conclusioni su questo percorso ci fanno ritenere, dal punto di vista dell’ansia di testimoniare una coesione della cultura e delle risorse del riformismo di sinistra, di aver bevuto non uno, ma molti, troppi calici amari.

E, siccome, siamo snob almeno quanto Cacciari, siamo indotti a chiederci chi ce lo faccia fare.

A rafforzarci in tale convincimento concorre la vicenda della Comunità Socialista, che, partita all’inizio del 2017, ha riannodato i fili di una condivisione ideale e di una consuetudine di testimonianza politica che le drammatiche conclusioni di vent’anni fa avevano lacerato. Disperdendo l’aggregato socialista e consegnando all’irrilevanza tutto ciò che vi si richiamasse.

A meno che non ci si sottomettesse all’autocritica ed all’abiura.

Non l’abbiamo fatto, continuando a ritenere che alcuni nostri erronei comportamenti non implicassero approdi incongrui alla nostra coerenza ed all’obiettiva giustificazione della piena attualità dei nostri convincimenti.

Ne sono prova l’appassionata ed impegnativa discussione che, in quattro sedute, ha coinvolto non meno di una trentina di compagni e le conclusioni, ponderate ed assunte a larghissima maggioranza, della riflessione sull’appuntamento elettorale.

La Comunità Socialista, a dimostrazione del prevalente impulso ideale che l’ha aggregata, non si avvale di alcun ordinamento interno che preveda e regoli prerogative ed obblighi.

Volendo semplificare: valgono gli usi cavallereschi.

Se ti siedi (specie se al cosiddetto tavolo della presidenza) sotto il tetto di una medesima sala in cui sono raccolte altre persone accomunate dalla mission di decidere un percorso condiviso, non hai bisogno dei padrini.

Ci si dovrebbe comportare come farebbe una qualsiasi comunità; in cui la maggioranza ha il dovere di procedere secondo decisione democratica e la minoranza ha il dovere di controllare. Comunque rispettando le decisioni assunte, a cominciare dal dovere morale di non intraprendere iniziative che ne siano in contrasto.

Lo svelamento delle carte del PD rivelano che così non è stato.

Uno dei partecipanti alle quattro sessioni di dibattito all’ARCI di S. Bernardino ha scelto la libertà e si è candidato nella lista del PD.

Sarebbe stato nel suo pieno diritto se non ci fosse stato il precedente della sua piena partecipazione alla formazione della decisione socialista.

Diversamente si configurerebbe che il giocatore ha giocato, nello stesso campionato, in due squadre concorrenti.

Ma per questo i socialisti non lo deferiranno alla Commissione di Disciplina della Lega. Di sicuro non potrà concorrere, per quanto non verrà meno il rapporto di amicizia, al premio stile ed eleganza.

Altrettanto sicuramente non si vedrà riconoscere alcun titolo di rappresentanza delle idee e dell’organizzazione dei socialisti.

Le idee non sono soggette ad expertises e a copy right? Vero! D’altronde, fatte le debite proporzioni, anche Mussolini era stato socialista.

Togliatti, a petto della tessera comunista strappata, osservò: “Vittorini se n’è ghiuto e soli ci ha lasciati”.

Noi siamo tutto tranne che beffardi. Perché, apostoli del relativismo e del pensiero critico, siamo allergici alle scomuniche.

L’episodio non ci ha fatto piacere. Ma, col diretto interessato, evidentemente propenso a coltivare un piccolo, inutile orticello, la questione finisce qui.

La constatazione, però, induce ad una riflessione diretta alla constatazione che il lupo (post-comunista) perde il pelo ma non il vizio comunista.

Il PCI era uso infiltrare nelle comunità politiche contigue una sorta di operatori embeddeds. Partecipavano delle discussioni e delle decisioni. Riferivano ed, all’occorrenza, accettavano l’ingaggio del mandante.

E’ sulla base di queste dinamiche che sorgevano i movimenti satellite, come il proverbiale Partito contadino polacco, tributario del POUP.

Il comunismo è (fortunatamente) archiviato. Si sono cambiati nomi, simboli, colori di riferimento. Si sono adottate linee politiche molto discontinue rispetto alle testimonianze del passato.

Ma alcuni vizi sono duri a morire. E’ evidente che a Bonaldi (Bonaldi chi?) e a Piloni (Piloni chi?)  può far comodo esibire una griffe (taroccata) socialista nel loro schieramento.

Ce lo chiediamo. Mentre osserviamo che, se ciò fosse vero, il tandem nelle prime file della nomenklatura dem sarebbe alla canna del gas.

Non sfugge la circostanza che Piloni ricopre anche l’incarico di segretario provinciale del PD. Che non è un buon viatico per corretti e fecondi rapporti nel campo del centro-sinistra.

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