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“Rubinèet”| E.Serventi

| Scritto da Redazione
“Rubinèet”| E.Serventi

La musica stava cambiando.   Come se a diffonderla fosse un vecchio grammofono a manovella in deficit di carica, il suo suono calava vertiginosamente, scomponendo quella armonia unitaria che fa si che suoni diversi diventino una melodia.
I grandi motori, ormai senza energia, si spegnevano, dando fondo alla residua forza che, come oculati risparmiatori preoccupati  delle incognite del futuro, avevano accumulato nei tempi delle vacche grasse, occultandola  nella inacessibilità dei loro pesanti corpi e che nel momento del bisogno, con inutile generosità, restituivano.
Le valvole di “non ritorno” si chiusero con il loro pesante botto e fu il silenzio.
“Rubinèet”, così lo chiamavano gli amici del bar Rivetti per via del suo lavoro,  corse al pannello dove erano sistemati gli strumenti  per la  misura ed il comando e fu preda dello sconforto. Tutti gli indici erano desolatamente a zero. Niente tensione, niente corrente.  SOLo il grande manometro circolare, con  le sue lancette nere e rosse, indicava ancora una qualche vitalità, segno che il serbatoio della torre restituiva, per semplice caduta, quanto in precedenza le grandi macchine vi avevano accumulato.
Dalla veranda che chiudeva un intero lato della enorme sala, “ Rubinèet” intravide lo zampillo della fontana del cortile che, normalmente gagliardo e teso si spingeva in altezza bel oltre il muro di cinta per poi ricadere nella sottostante vasca con festoso gorgoglio. Ora, floscio, arrivava a malapena ad occhieggiare al di sopra della siepe martello.
“Rubinèet” si diresse verso la fontana con le braccia tese in avanti, come per voler trasfondere parte del suo vigore che, nonostante fosse nato nell’altro secolo, ancora sentiva in corpo. Mai, nei tanti anni che ormai lo separavano dalla prima volta che era entrato in quel cortile, aveva avuto un così desolante visione.
Ebbe un intimo , triste sentimento di identificazione e lo spegnersi di quello zampillo gli parve riassumere il suo percorso in quel luogo di lavoro che, tra breve, si sarebbe concluso.
In ginocchio, dal bordo della vasca, tese una mano verso l’ugello che, asciutto, emetteva un non sconosciuto suono. Questo lo fece retrocedere di almeno cinquant’anni e si vide adolescente intento a sciogliere, nella poca acqua contenuta in un bicchiere, scaglie di sapone. Si aiutava con una cannuccia ricavata da un bastoncino di sambuco al quale, destreggiandosi con un fil di ferro, aveva preventivamente tolta tutta la polpa. Agitava con energia la viscida miscela e la faceva ribollire  immettendovi, attraverso il tubicino che aveva ricavato dallo svuotamento del sambuco, abbondanti insufflazioni, ottenendo, nel bicchiere, una multicolore e straripante schiuma. In questa effervescenza immergeva l’orifizio inferiore della cannuccia avendo cura di non immergerla nel sottostante liquido. Con leggera aspirazione cercava di farla risalire, senza farsela arrivare in bocca, e l’aria imprigionata nelle bolle, risucchiata nel condotto, emetteva lo stesso suono della fontanella in agonia.
Già, l’aria.
Ritornò rapidamente alla realtà, con un cruccio in più. Pose una mano sulla bocca dell’ugello e sentì che il palmo ne veniva attratto da un qualcosa che si nascondeva alla vista. Ormai era chiaro: le grandi ed estese condotte dell’impianto risucchiavano aria dall’esterno. Ricordò di avere letto da qualche parte della pericolosità potenziale di tale presenza in un circuito idraulico.
Percorse mentalmente tutta l’estensione della rete nel tentativo di darsi una spiegazione di quanto stava avvenendo.
Non ebbe dubbi: centinaia di rubinetti assetati venivano aperti facilitando lo scorrere  verso il basso dell’acqua residua ancora presente nel grande serbatoio della torre. SE dalle parti basse della città fosse continuata la richiesta ben presto in tutti i trentacinque chilometri di tubi, sotterrati sotto tutte le strade della città, l’aria si sarebbe sostituita all’acqua.
Pensò alla fontana, in bella mostra sulla piazza che ricordava il generale di Caporetto e che nella forma richiamava vagamente una palla da rugby, cento volte più grossa  della fontanella del cortile. Pensò alla grande bocca spalancata del tubo adduttore del serbatoio della torre civica.
Immaginò un defluire scomposto dai tubi posati ad altimetrie diverse, ai mille rivoli imprigionanti, alternativamente, aria ed acqua, alla diversa densità dei fluidi in questione.
Come avrebbero reagito i diversamente comprimibili fluidi quando, Dio volendo,le lampade verdi sul grande pannello si sarebbero riaccese, i grandi motori a riempire il silenzio con il loro rumore e, percorrendo canali ormai sgombri l’acqua della centrale, a grande velocità, sarebbe giunta all’appuntamento ed allo scontro  con quella in arrivo dai fontanili del forese ?. L’aeriforme si sarebbe compresso sotto l’effetto delle spinte convergenti per poi dissipare lentamente l’energia accumulata o questa avrebbe fatto da detonatore  facendo deflagrare il sistema?.
“Rubinèet” si ricordò di quel maledetto tubo di ghisa, nascosto sotto la strada della scuola, della fenditura che lo percorreva per tutto il tratto fra giunto e giunto, sempre uguale ad ogni rottura. Rivide la strada transennata inibita ai passanti e l’acqua ed il fango correnti per la discesa. Mai che fosse riuscito a darsi una spiegazione convincente del ripetersi della cosa ed ogni volta l’imputato lo identificava in quell’evento, pressoché misterioso,  che nel nome ricordava più una posizione del Kamasutra che un fenomeno idraulico. E se si fosse verificato nuovamente?. Magari moltiplicato per dieci o per cento?. No! Proprio no!!. Questo non doveva capitare adesso che stava per concludere una più che dignitosa vita lavorativa ed era in procinto di ricevere una gratificazione ufficiale.
Qualche parola l’aveva spesa a tale proposito ed il rappresentante delle associazioni delle imprese gli aveva assicurato che il suo nome sarebbe stato fatto nella capitale. Lui, speranzoso, aveva commissionato ad un sarto meridionale (barbieri, sarti e calzolai meridionali erano impareggiabili nella loro arte) un abito scuro. L’avrebbe indossato il giorno nel quale, nella sala dei Corazzieri, gli sarebbe stato conferito l’ambito titolo e la facoltà di fare precedere, sui biglietti da visita e sul campanello di casa, il suo nome da un prestigioso “cav”.
Questo l’avrebbe anche aiutato a superare il dramma del pensionamento. Non gli sarebbe stato certamente facile passare, da un giorno all’altro, dalla posizione di detentore di un piccolo potere e di una quota di comando a quella di un qualsiasi anonimo “ex”.
Stava andando a grandi passi sempre più fuori di testa. Se la prese con le compagnie che non erano in grado garantire la presenza costante dell’energia elettrica, causa principale di tale disastro.
Rimpianse i bei giorni di “Atomino”, il simpatico personaggio del “Pioniere”, che con la sola sua presenza risolveva, in un baleno ed a buon mercato, tutti i problemi di energia ed emancipava l’umanità sofferente dall’oscurità e da qualsiasi altra necessità proiettandola verso un futuro di felicità. . Poi gli dissero che, forse, tutto questo non era vero, che l’energia di “Atomino” non era così buona e che le sue generosità del momento si sarebbero pagate per un lungo futuri di centinaia di anni.
Anche lui come tanti altri invitati dal segretario del partito era andato, in un giorno di primavera, in un paese dell’oltre PO piacentino e tutti insieme a gridare che “Arturo” non doveva essere riacceso. Ed oggi  era chiamato a fronteggiare la peggiore crisi energetica della storia.
Ormai la sua mente correva ruota libera e l’affiorante dubbio che, forse, qualche imprevidenza gli si potrebbe imputare, lo ricacciava  con un turbinio di argomentati pensieri. NO, lui non aveva nessuna colpa, si ripeteva di continuo. Anzi, era una vittima!. Si una vittima degli sceicchi petrolieri che, per banali questioni di quattrini,  avevano chiuso i rubinetti del petrolio. SE la prendeva  con tutti quelli che, dopo averlo sostenuto, avevano abbandonato Ippolito. Inveiva contro quelli che oggi si opponevano allo smantellamento del monopolio elettrico e rifiutavano di affidare il tutto alla grande panacea del libero mercato.
Si girò e rigirò nel tentativo di trovare aiuto. Cercò un'altra posizione per la testa, essendo il suo appoggio ormai bagnato, ed  il raffreddarsi del sudore gli procurava un brivido che dal collo, diffondendosi in orizzontale, gli gelava la schiena.
Poi, improvvisamente, gli parve di sentire una voce: è arrivata! E’ tornata la tensione!!.
Quel grido lo strappò dall’incubo e si trovò esattamente seduto dove la sera prima si era coricato, dopo essere rientrato dalla rimpatriata conviviale  fatta  con amici all’ antica osteria-trattoria dei “Tre RE”.
SI passò il palmo della mano sulla fronte e sulle guance mentre, ancora incredulo, con gli occhi spalancati a dismisura inquadrava l’apertura della finestra, oltre la quale lo zampillo della fontana del cortile distribuiva la sua perenne festosità. Tese l’orecchio ed il ritmare dei motori proveniente dalla sottostante “sala macchine” ebbe l’effetto di una tisana rilassante..
Tranquillizzato e sereno si diresse allo scaffale e cercò il libro  scritto da quel viennese che sapeva tutto dei sogni.  Trovatolo lo  sfogliò, ma l’interesse per l’analisi svanì rapidamente.
Tornò al tavolino da notte , dove insieme alle pastiglie per pressione, teneva la “Cabala”. Fece girare velocemente le pagine cercando, confrontando, rileggendo interpretazioni.
e numerazioni. Annotò qualcosa su di un foglio che ripose in una tasca della giacca. Uscì e andò a giocare al lotto.

Ennio Serventi
26 aprile 2013

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