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Serventi.In questa terra amata

| Scritto da Redazione
Serventi.In questa terra amata

Fino a non molti anni fa, nel riquadro bianco all’estremo lato sinistro di quel fabbricato per sole abitazioni che costeggia la strada prima della cascina, si leggeva ancora. “In questa terra amata…..”  probabile frammento iniziale di un pensiero che il tempo aveva cancellato dal muro ma che forse resisteva in  coloro che ancora insistevano, per eredità od acquisto, su quella terra. Sarebbe stato bello, con ricerca e con passione, poterlo riportare completo quel pensiero o , almeno, salvarne  il frammento.  Il passante, leggendolo, avrebbe pensato ed immaginato.  Ma non è più il tempo del passato e forse del pensiero. Così il frammento è scomparso sotto una mano di calce viva e nel riquadro è comparsa, essenziale e moderna, la scritta “azienda agricola terra amata”. 
Non so  dire come vi giunsi la prima volta, ma la seconda vi arrivai seduto sul manubrio di una bicicletta da donna spinta vigorosamente dall’ Angiolina. La schiena rivolta verso il senso di marcia, per tenermi in equilibrio, stringevo forte le mani sulle spalle della ragazza e sui vestiti che le coprivano. Lei mi parlava dicendomi cose che non ricordo mentre spostava la testa, ora a destra ora a sinistra, forse per permettere allo sguardo di superare l’ostacolo costituito dal mio corpo mai fermo.  MI era impossibile non muovermi, il ferro del manubrio andava lasciando dei segni grossi sulla parti delle cosce non coperte dai calzoni corti che, a quel tempo, i bambini rigorosamente portavano,  mentre la ricerca di un momento di sollievo mi costringeva a spostare il peso del corpo  da una parte all’altra dell’appoggio. Forse le parole dell’Angiolina, quelle che non ricordo, erano un invito a stare fermo, a trovare una posizione che a lei permettesse di guardare avanti, ed erano parole gentili mai di rimprovero. Con noi al nostro fianco pedalava anche Severa. Si chiamava proprio così: Severa come la santa martire, questo lo scoprii molti anni dopo;  ma tutti la chiamavano Severina e la vezzosità di quel diminutivo addolciva e nascondeva la durezza di quell’ inappropriato ed immeritato nome.  Quando  in anni più tardi si sposò venne ad abitare in città in un posto chiamato “la ceramica” per via della fabbrica di piastrelle, proprio davanti al “Circolo Carlo Signorini”, che nel nome ricordava un partigiano caduto e si fregiava dell’orgoglioso aggettivo “proletario”.La fabbrica di piastrelle era, con ogni probabilità, la più antica fra quelle presenti in quello estremo tratto della cintura industriale della città, oggi totalmente scomparsa, ed il suo nome divenne il toponimo di quella zona. All’ingresso, sul muro più alto della fabbrica, una grande scritta fatta con diversamente colorate piastrelle di mosaico,orgogliosamente ricordava ai passanti che: “Primo in Italia, questo stabilimento diede inizio  alla fabbricazione di piastrelle di grees smaltate a gran fuoco….” Poi la scritta elencava altre produzioni prestigiose che non ricordo. Anche da sposata, SEverina continuò assidua a frequentare regolarmente la chiesa, cosa che faceva anche in quegli anni passati, unica in quella numerosa famiglia di sicure origini cattoliche  popolari.  Rimase quella con la quale furono più frequenti i contatti e la ricordo gentile,  modesta ma non umile, con gli occhiali e un cappellino.  Quella sera, Severina pedalava e portava un sacchetto: era una federa per cuscino nella quale erano state messe le cose che mi sarebbero servite in quel soggiorno campagnolo dalla durata incerta. In mattinata, in un incontro casuale, le figlie della bàlia avevano saputo della chiusura del collegio.  “Ennio ha paura dei bombardamenti”  era stato detto  loro e  vennero subito a prendermi per portarmi in campagna da tutti ritenuta più sicura della città. Così, quella sera di luglio del 1944,  arrivai  per la seconda volta a Terra Amata ed erano passati nove anni da quando vi arrivai la prima volta. L’abitazione della bàlia era la prima, a destra del cancello d’ingresso all’aia.  Loro il cancello lo chiamavano “rastréel” e la parola chissà da dove veniva , non era del nostro dialetto. Venne a vedermi una vicina di casa, una donnina bassa di statura e completamente vestita di nero, disse che si ricordava di quando vi giunsi in fasce e di come  mi prendesse in braccio, mi fece una carezza.
Quella notte, come tutte le notti di quei mesi, dormii e divisi il letto con Giuseppe, che chiamavamo Pino.  Aveva solo qualche mese più di me, non era quello  con il quale avrei dovuto condividere, in un tempo che solo altri ricordavano,  il latte di sua madre. Quello, quel mio fratello di latte  morì qualche settimana dopo la nascita ed io, in una certa misura, ne presi il posto e parte degli affetti a lui destinati, affetti che  continuarono e ancora continuano nonostante il passare del tempo.  Della bàlia non ho mai saputo ne il nome ne il cognome mentre di suo marito, che io chiamavo “bàlio”, sapevo il cognome: Camisani.  I figli viventi erano sette: Gianni, Angiola, Gino, Severa, Giuseppe, Gina, Ivana.  MI volevano bene e per tutti ero uno  di loro.
Gino lavorava in campagna,dopo la guerra smise di condurre carri agricoli per gli autocarri  e morì travolto da un camion sulla strada per Quinzano.  Con lui, ricordo bene, feci il primo giro della campagna e devo a lui la scoperta che la terra non era di tutti ma solo di qualcuno. Gli chiesi di chi fosse il campo oltre il fosso. “Di Quaini” rispose . Andammo avanti e chiesi   la stessa cosa per il campo di cipperi che più tardi imparai a mangiare; “di Quaini” rispose. DI Quaini era anche l’altro campo e l’altro ancora. “Ma il tuo di campo dov’è’?  “Io non ho nessun campo, tutti i campi che sono qui intorno sono di Quaini.” Più avanti negli anni sentii   una canzone: “ pur natura tutti uguali / diè diritti sulla terra / e classi ingorde e ladre / rubarn quel ch’ è di tutti” diceva  una quartina  e pensai a Gino ed quelli come noi che erano rimasti senza niente e cominciai a capire come erano andate le cose fin da tempi antichi. In uno di quei primi giorni Gino mi regalò tre noci . Erano ancora verdi e racchiuse nel mallo, che bisognava rompere con una pietra per fare emergere il guscio che avrebbe contenuto il frutto ancora  non completamente maturo.  IO ero di città e quelle operazioni di sgusciamento non le conoscevo. Regalai le noci ad un ragazzo e Gino si risentì; “potevi  ridarle a me … le avrei mangiate io” mi disse. Percepii, in quelle parole di rimprovero, il significato nascosto di quel gesto di generosa rinuncia  che non seppi cogliere ed ancora mi dispiace  di averlo offeso. L’ultimo ricordo che ho di Gino risale alla fine di maggio od ai primi giorni di giugno del 1948. Ne sono assolutamente certo. Ho dei riferimenti precisi:  il 18 aprile si erano tenute le elezioni politiche, il Fronte Popolare e noi perdemmo, ed entro il venti di giugno si sarebbe conclusa la campagna di allevamento dei bachi da seta con la consegna dei bozzoli all’essicatoio per la stufatura. Fra l’uno e l’altro evento  andai a fare visita alla bàlia e trovai la cucina interamente occupata dai castelli di legno e cannicci sui quali i bachi compivano la loro metamorfosi. Il fuoco nel caminetto era acceso; i bachi avevano bisogno di caldo. Per quaranta giorni lo spazio della cucina sarebbe stato condiviso con migliaia di bruchi e a Gino espressi  il mio disappunto.  Sempre bonario mi rimproverò, ma questa volta senza ragione,: “vedi che lavoro dobbiamo fare e poi voi cittadini votate per la Democrazia Cristiana!”  Severina e Pino non so  se e dove lavorassero e  come passassero le giornate. Pino lo ritrovai anni dopo operaio alla scomparsa  “Cavalli e Poli”, la prestigiosa fabbrica di  aste dorate per cornici, oltre il cavalcavia, fra il borgo Loreto ed il quartiere operaio di S. Bernardo dove le  elezioni venivano sempre vinte dal partito Comunista e dal partito Socialista. Pino, che  l’avevo sempre sentito parlare solo in dialetto, adesso parlava anche in italiano.Ed in lingua mi disse che s’interessava di politica, accompagnava e seguiva Guido Miglioli nel suo andare per incontri e riunioni.  Angiola, la più grande delle femmine era sposata e abitava nel castello confinante la cascina Terra Amata. IL castello era l’antica nobiliare residenza di campagna delle famiglie dei Soresina-Vidoni  che da queste parti avevano avuto terreni ed avevano un mulino che macinava ancora. La ruota del  mulino era mossa dall’acqua di una roggia che continua a portare il loro nome ed a scorrere verso Cremona, a lato della via per Bergamo,  per  ritornare nel Morbasco, dal quale era stata tolta più a monte in un posto chiamato Cura Affaitati.  Gina ed Ivana erano più piccole di me. Misterioso era Gianni, il maggiore dei fratelli, che in quei quasi tre mesi non vidi mai. Raramente si parlava di lui e si  diceva che fosse  a Luino, sul lago Maggiore. Per me, che non l’ho mai visto durante quel mio soggiorno, è rimasto indissolubilmente legato alle sigarette che si andavano accumulando nel cassetto  di uno dei  lati stretti del tavolo della cucina, quello rivolto verso la finestra. Nessuno dei maschi di casa fumava e le spettanti razioni settimanale di tabacco, regolarmente ritirate dietro consegna dei bollini della tessera, finivano in quel cassetto. “Sono per Gianni” mi  venne risposto una volta che chiesi. Per Gianni erano anche le foglie di tabacco che Pino e Gino andavano, di notte, a trafugare da una vicina piantagione. La coltivazione, essendo il tabacco genere di monopolio dello Stato, era sorvegliata da una vigilanza armata. Ma loro vi erano nati su quei campi e non vi era rialzo del terreno o tombinatura di fossi che non gli fossero familiari e nessuna vigilanza, armata o disarmata che fosse, sarebbe stata in grado di sorprenderli. LE foglie del tabacco erano verdi,spesse e grandi con una robusta nervatura in mezzo che di diramava verso i lati, dovevano essere fatte appassire. Sembra che il luogo migliore fosse la cappa del camino così, non so come, furono tirate in altro.  Una notte le sigarette sparirono, non so le foglie del tabacco, ma al mattino le sigarette non c’erano più. Immaginai che Gianni fosse venuto a prenderle. Ma il lago Maggiore era lontano così mi convinsi che non era a Luino ma, per ragioni che solo adesso posso ipotizzare e che sempre rimarranno tali, nascosto da queste parti. 

Ennio Serventi

Cr marzo 2011

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