Sabato, 20 aprile 2024 - ore 14.30

L’EcoPolitica Elezioni Presidente della Provincia HANDLY WITH CARE !

Come Alessandro Milan che, ogni mattina all’ouverture del #Barlamento di 24 Mattina, registra “la centottantesima settimana decisiva per l’abolizione delle Province”, anche noi, specie alla vigilia dell’elezione degli organi provinciali “riformati”, avvertiamo un senso di improvvisazione e di vuoto.

| Scritto da Redazione
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Che non possono e non potranno non ripercuotersi nell’azione amministrativa e nelle percezioni dell’opinione pubblica.

Quello del giornalista/entertainer costituisce un utile rimando, nel caso l’avessimo smarrito, alla matrice legislativa (Legge Delrio n.56 del 7 aprile 2014 recante “Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”) con cui, in anticipo ed in preparazione della Legge di riforma Renzi-Boschi, venivano ridisegnati confini e competenze dell'amministrazione locale.

Vale, altresì, la pena ricordare, a riprova del suo valore propedeutico e strategico, che il premier Renzi l’aveva collocato nel discorso programmatico del 24 febbraio 2014, auspicandone l'approvazione in tempi (sic!) brevi.

In attesa della riforma del titolo V della Costituzione, le Province, fin lì livello intermedio dell’amministrazione periferica, sarebbero state sacrificate in omaggio ad un più vasto progetto di semplificazione dell’ordinamento istituzionale, assumendo denominazione e funzione di "enti territoriali di area vasta". A dimostrazione dell’indirizzo di convogliarne il format di raccordo territoriale, non più nell’alveo del tradizionale ente autarchico locale, bensì in una visione consortile rispetto all’istituzione di base (il Comune), la Legge Del Rio, di fatto produceva, in attesa della definitiva abolizione, decretata dall’esito del referendum confermativo della riforma Renzi-Boschi, il commissariamento dell’organo elettivo. Il Presidente ed il Consiglio della Provincia, in gestione stralcio, sarebbero stato eletti dai Sindaci e dai Consiglieri dei Comuni del territorio competente. Così avvenne nell’ottobre del 2014; così avverrà il 6 novembre, election day che impegnerà il corpo elettorale di secondo livello (1.316 tra Sindaci e Consiglieri). Gli eletti proseguiranno il lavoro intrapreso dalla Presidenza Vezzini e, negli ultimi mesi, Viola; in attesa che, come si diceva, il quadro ordinamentale e normativo trovi una definitiva schiarita con, come auspichiamo, l’omologa della più vasta riforma della seconda parte della Costituzione.

Nel corso dei due anni che ci separano dall’approvazione della Legge Del Rio abbiamo, pur sostenendo lo spirito e la lettera della più vasta riforma costituzionale, manifestato nei confronti della sua mission una serie di controindicazioni che decisamente non ci iscriveranno nella costituency di questa “semplificazione” affetta da strabismo.

Sono facilmente comprensibili (ma non condivisibili) le ragioni, dettate da mera valutazione dei rapporti di forza, per cui si è preferito battere la sella (la Provincia) della semplificazione dell’amministrazione periferica e del contenimento della spesa pubblica anziché (come si sarebbe dovuto) il cavallo (la Regione, il segmento distorsivo per eccellenza).

In uno sforzo di analisi comparata dei sistemi nazionali europei avevamo già segnalato che in casi rari la scure della riforma ha tagliato l’ente intermedio. Ed ora paventiamo che, a meno di una correzione di rotta in sede di emanazione dei decreti attuativi, scaturenti dalla definitiva omologa della Legge Renzi-Boschi, non si prospetteranno scenari edificanti per l’amministrazione periferica del territorio.

Per le ragioni che facilmente avevamo esposto due anni fa, per la prova offerta da quella sorta di gestione commissariale applicata all’Ente di secondo livello ed, infine, per il guazzabuglio che si prospetta. A principiare dalla definizione delle funzioni e degli ambiti della cosiddetta “area vasta”.

Andrebbe aggiunto che le performances dell’istituzione transeunte non hanno prodotto risultati particolarmente decisivi per l’economia complessiva dell’operazione.

E’ vero, sono stati eliminati gli emolumenti degli eletti, le cui funzioni sono esercitate da amministratori a titolo gratuito, per di più costretti a far quadrare i conti, stretti nella morsa tra il quasi completo mantenimento delle funzioni e dotazioni finanziarie decisamente insufficienti a garantire i servizi.

Non siamo tra i nostalgici della vecchia Provincia, caratterizzata dalla tendenza ad una sovrapposizione delle funzioni e diventata anche per questo un centro di spesa pubblica, non raramente poco virtuosa ed improduttiva.

Ma, se la questione nodale fosse stata il risparmio di 200 o 300 milioni di euro, allora sarebbe bastato rendere gratuito l’esercizio della carica elettiva, ridurre attribuzioni ed organici, limitare la dotazione finanziaria.

Evidentemente nei progetti dell’allora Sottosegretario alla Presidenza del CdM c’era solo l’opzione abrogativa. Affidata, in prospettiva, alla più vasta riforma istituzionale e, nelle more, al lavoro chirurgico di quella sorta di collegio di liquidazione che sono diventati gli eletti di secondo livello.

La patata bollente dell’individuazione di un nuovo format di organizzazione dei servizi sub regionali e di ottimizzazione della relativa spesa (reso proibitivo dall’abrogazione del livello intermedio) è stata paradossalmente affidata dal legislatore a coloro che ne avrebbero avuto maggior nocumento .

 

D’altro lato, ciò si è notato nei due anni tribolatissimi delle gestioni Vezzini e Viola, alla cui dedizione e professionalità si deve, pur all’interno di un quadro finanziario proibitivo, il miracolo di aver sostanzialmente mantenuto i servizi, alleggerito l’apparato organico senza provocare troppe ferite, affrontato l’azzonamento scolastico con realistica aderenza alle nuove ineludibili normative ed al territorio.

Le definitive funzioni, minimalmente abbozzate dalla Legge del Rio ed affidate all’istruttoria legislativa delle Regioni, rimangono, infatti, ancora in grembo a Giove. Su un approdo fecondo di tale istruttoria pesa indubbiamente l’incertezza dell’esito referendario. Nella malaugurata ipotesi di bocciatura da parte del corpo elettorale sarebbe ragionevole intendere che contestualmente dovrebbe ritenersi cassata l’inconsiderata abolizione della vecchia Provincia. In tal caso si rimetterebbe il dentifricio nel tubetto? Si lascerebbero le cose in un limbo, dannoso, oltre quanto sia stata la situazione degli ultimi due trascorsi anni, per la credibilità istituzionale e, soprattutto, per la risposta alle aspettative dei territori e per la continuità dei servizi?

Ma intanto, come nella migliore tradizione italiana, questa indeterminatezza sulle prospettive dell’ “area vasta” ha prodotto, anziché virtuosi impulsi progettuali, negative divaricazioni.

Già se ne aveva avuto sentore quando tre anni addietro si era ipotizzata l’aggregazione, anziché la soppressione, dell’ente provinciale.

Prima, nessuno voleva essere aggregato (specie i territori diventati assurdamente Provincia in tempi recenti) ed, ora, nessuno vuole entrare nell’area vasta con altri territori prevalenti.

Si comprende che il problema non è rappresentato solo dal declassamento di rating operato dalla perdita del capoluogo (e del relativo indotto).

Anche non volendo immaginare cosa saranno le attribuzioni in capo all’ “area vasta” non è difficile ritenere che si occuperanno di riorganizzazione della rete di servizi sovraccomunali e sub regionali e di definizione delle politiche infrastrutturali e di riequilibrio socio-economico.

Vale a dire di tutto quanto è fortemente correlato alla rappresentanza dei territori e del potere politico espresso dai medesimi.

Rimettere le carte, affinché vengano date anche nei nuovi scenari istituzionali, nelle mani dei depositari degli equilibri che fino ad ora hanno presieduto alle politiche di destinazione delle risorse ed agli indirizzi di sviluppo significa, specie nella prospettiva di sfilacciamento delle aree destinate all’assorbimento, accentuare i meccanismi distorsivi impressi dalla posizione di vantaggio delle aree prevalenti.

Tre anni fa si alzò di molto la voce attorno al fatto che il capoluogo delle due aggregande Province del Sud Lombardia dovesse essere a Mantova o a Cremona. Più tardi si sarebbe fatto a sportellate, non solo sulla individuazione del capoluogo dell’ “area vasta del Po”, ma anche e soprattutto delle aree che vi dovrebbero confluire.

Un conto è, come fecero i vincitori della prima guerra mondiale, disegnare i confini di realtà statuali semplicemente con un tratto sulla carta geografica; altro conto è, come purtroppo temiamo stia avvenendo, prefigurare inconsiderati accorpamenti territoriali a prescindere dalle vocazioni e dalle realtà di fatto.

Temi non nuovi per un contesto come il nostro, in cui storicamente la configurazione degli assetti territoriali è stata approssimativa.

Certo ci giocano anche questioni non esattamente virtuose, che sbrigativamente vengono fatte passare per campanilismo.

Vero è che nell’ipotesi della conferma in sede referendaria dell’indirizzo Del Rio e del conseguente decollo dell’ente di area vasta si riproporrà concretamente la questione dell’azzonamento territoriale. Prima, come si osservava, oggetto di sportellate e, poi come spesso succede quando la politica non ce ne esce, di dissolvenze.

Indubbiamente l’ex provincia cremonese (intendendosi il territorio che parte da Spino d’Adda ed arriva a Casalmaggiore) già presentava, per il suo sviluppo in senso longitudinale e per il basso tasso di uniformità, elementi di  debolezza. Che diventerebbero di vulnerabilità nella prospettiva che si transitasse da uno scenario di sottovalutazione endemica ad uno scenario di disgregazione politico-territoriale.

Ipotizzare l’area vasta padana ha senso, ha assolutamente senso, se vengono parallelamente stabilite le garanzie per tutto l’attuale territorio (cremasco, cremonese e casalasco) di un ruolo, già in partenza, paritario.

Inquadrarvi il cremonese ed il casalasco, secondo il motto “ognuno per sé e dio per tutti”, è sconsiderato perché affida al destino la sorte di un quadrante, il cremasco (realisticamente privo di alternative praticabili), senza del quale il resto del territorio è monco e debolissimo.  

La provincia cremonese, per le sue caratteristiche geostrategiche, si è allontanata da decenni, per non dire da secoli, dalle direttrici su cui si è costruito lo sviluppo, conosciuto fin qui, ed ancor più si allontanerà se si costruiranno le linee che stanno indirizzando l’adeguamento suggerito dai cambiamenti in corso.

Cremona, capoluogo è priva di un retroterra in grado di sostanziare la funzione gravitazionale del classico baricentro rispetto al territorio provinciale.

Si estende in senso longitudinale per un centinaio di kilometri ed in senso latitudinale per quaranta.

Per di più, come aggregato amministrativo, non ha una tradizione né particolarmente consolidata nel tempo né coerente.

I comprensori, collocati ad ovest e ad est, per quanto inseriti più o meno continuativamente nel contesto amministrativo territoriale, gravitano, non sempre in un rapporto paritario, sulle aree contermini.

Il cremasco sul lodigiano, con cui da sempre ha aspirato a tornare ad essere comune provincia, e sul milanese, rispetto a cui svolge una funzione socie-economica complementare e sussidiaria in molti campi; il casalasco-piadenese sul mantovano, del cui sviluppo economico ha da un trentennio intercettato qualche ricaduta, e sul parmense.

In aggiunta a ciò si consideri l’eccessiva frammentazione amministrativa, non invidiabile retaggio storico e palla al piede nei contesti attuali.

I Comuni della Provincia di Cremona erano 244 al momento dell’unificazione del Regno d’Italia; sarebbero diventati 133 al momento del loro inquadramento nella nuova legislazione ordinamentale del 1865. Nel 1928 sarebbero diventati 113. Per tornare agli attuali 115 (con la creazione di Ripalta Guerrina e Palvareto/Solarolo Rainerio) nell’immediato secondo dopoguerra.

Tale capitolo, se vogliamo non mentire a noi stessi, costituisce un handicap notevole, non solo per qualsiasi ambizione di inversione della tendenza, ma anche semplicemente per la sostenibilità dell’esistente.

Nel tempo si è andato pronunciando sempre più il rapporto sinergico tra il declino socio-economico dell’habitat rurale e la rarefazione insediativa dell’agglomerato.

Se la popolazione si riduce per effetto, non più della tendenza all’inurbamento iniziato a metà degli anni 50, ma semplicemente della denatalità, dell’invecchiamento e del blocco del turnover biologico, vengono ad assottigliarsi gli elementi costitutivi delle piccole comunità.

Di ciò si ha palpabile e, per noi, desolante sensazione nel contatto diretto con il paesaggio agreste; un tempo connotato da un continuum di insediamenti agricoli, più o meno fiorenti, ma pur sempre segnalatori del presidio antropico ed ambientale del territorio.

Proviamo a simulare, anche solo immaginariamente, come si presenterà, tra qualche anno, l’ambiente padano, se non interverranno, auspicabili ma improbabili, politiche attive di arresto e di inversione di tali tendenze e, soprattutto, se si sfalderanno i capisaldi civili di tali insediamenti.

Già oggi è fortemente in crisi il profilo insediativo, rappresentato dalla cascina, di questo modello socio-economico; che, tra luci ed ombre (di ingiustizia sociale), rappresentò per secoli, in forza dei suoi presupposti aggregativi, il perno di un modello civile.

C’è qualcuno che è in grado di immaginare lo scenario dai tratti apocalittici, già perscrutabili nel presente, prodotto dalla perniciosa tendenza?

Nella situazione data, il mantenimento degli standards di servizi e della qualità della vita, che un tempo erano consentiti da un più favorevole rapporto popolazione/spesa pubblica, attualmente non appare più sostenibile; per effetto delle criticità del welfare e, salvo rarissimi casi, per l’inarrestabile spopolamento.

Porvi rimedio è doveroso e conveniente. Perché l’aggregato sociale concorre al presidio del territorio dal punto di vista della difesa ambientale e del mantenimento della sicurezza.

Si è giustamente applicata alla tipologia morfologica dell’ambiente montano una politica di deroga da tutti gli standards (anche se in tale eccezionale condizione frequentemente hanno allignato comportamenti non virtuosi).

E’ scandaloso pensare che ciò possa costituire attendibile rimando per la sostenibilità, nei contesti futuri, del territorio com’è attualmente configurato e come sarà nell’ipotesi non penalizzante (per gli interessi originari) dell’area vasta del Po? Per tutto ciò peroriamo un convinto ammonimento: handly with care! Nel mettere mano all’intelaiatura amministrativa.

Il dibattito mette in evidenza una contraddizione di fondo: siamo decisi a parole ad invertire la tendenza al declino, ma poi indecisi sulle ricette, a cominciare, ovviamente, dall’analisi.

Che dovrebbe iniziare dall’elaborazione realistica del significato e delle conseguenze della frammentazione amministrativa del territorio e delle visuali anguste afferenti al consolidato storico delle gestioni dei piccoli Comuni.

Il combinato della crisi epocale e la riduzione delle risorse ha imposto ed ancor di più imporrà indirizzi, più che virtuosi, rigorosi. E, se non si vorranno penalizzare i servizi e mettere a repentaglio la stessa istituzione comunale, giocoforza si dovrà procedere all’aggregazione di entità comunali sostenibili.

Negli ultimi tempi si sono ravvisati segnali di consapevolezza.

Sulla preparazione e sulla dedizione di gran parte del parterre degli protagonisti della vita amministrativa comunale pare proprio che ci possano essere pochi dubbi. C’è stato un profondo ringiovanimento del “personale” impegnato nella guida amministrativa; ringiovanimento e qualificazione. Moltissimi Sindaci, Assessori, Consiglieri presentano alti livelli di preparazione scolastica. Larghissima parte di loro, specie dei piccoli Comuni, svolgono attività professionali impegnative. Non hanno “mestierizzato” la funzione elettiva e l’autodecurtazione, quando non la rinuncia al “gettone” o il suo accredito a scopi di beneficenza connotano il consolidarsi dell’interpretazione del ruolo amministrativo come testimonianza civile a servizio della comunità. Di cui, specie nelle realtà territoriali più decentrate, divengono, su versanti non esattamente identificabili nelle attribuzioni istituzionali in capo ai Comuni, riferimento ed avamposto di guida comunitaria. Specie, quando i superiori e competenti livelli latitano o si rivelano troppo lontani da quelle realtà decentrate (o emarginate).

Non infrequentemente Sindaci, Assessori e Consiglieri, i cui falcidiati bilanci ed apparati non consentono neppure l’espletamento di adempimenti e servizi elementari, si trasformano in operatori supplenti.

Non è lecito scomodare la retorica dell’eroismo; ma indubbiamente tale profilo etico e civile riconcilia e rinsalda, almeno parzialmente, il rapporto tra comunità amministrata e pubblici poteri.

Si può dire che è sempre così man mano che si cresce nella scala dei livelli della politica istituzionale?

La Regione, un tempo milanocentrica, non ha perso l’abitudine d’essere centralista fissando il proprio epicentro nei territori e negli interessi prevalenti del proprio consenso. Cremona, dalla seconda repubblica in poi, non ha mai appartenuto al  cerchio magico del potere regionale. Ha avuto eletti nel Consiglio lombardo, che, nel caso della sinistra hanno svolto un costante ruolo d’opposizione. E, nel caso della destra, pur da eminenti ruoli gestionali non hanno mai rappresentato gli interessi del loro territorio; ma solo impulsi clientelari. Per il resto si sono bevuto tutto: assoluta discriminazione nella destinazione delle risorse a danno delle aree periferiche e disponibilità a fare di esse la pattumiera della Lombardia.

Il mantra dei governanti regionali: tagliare i servizi, privatizzare ( drenando risorse dalla sanità pubblica a quella privata ). Si è archiviato qualsiasi controllo territoriale sull’agire di un potere gestionale diventato sempre più monocratico e di assoluta obbedienza al potere regionale ( non esente da qualche rilievo di malaffare ).

Un potere centrale patrigno che trascura sistematicamente qualsiasi indirizzo di riequilibrio territoriale. Sia con la negazione di un corretto rapporto di destinazione delle risorse e degli investimenti strategici. Sia collocando, quasi fossero pattumiere, le strutture sgradite nelle province decentrate. Cremona ha nel suo arco solo le frecce dell’eccellenza agro-alimentare. Se diventa la pattumiera della Lombardia, cosa resta?

Ma non tutti i guai possono essere ascritti al destino cinico e baro ed alla perfidia milanocentrica.

Ci ha molto danneggiato anche il fuoco amico dei ritardi culturali della politica locale e la neghittosità con cui l’establishment provinciale si è fatto sfilare valide opportunità strategiche.

Per miopia strategica o, ma sarebbe peggio, per meschini calcoli di piccolo cabotaggio gestionale.

 

Parafrasando Corrado Stajano: Un territorio senza sogni, una città contraddistinta da indifferenza, razzismo, traffico, inquinamento: così perde l’anima.

Il degrado non riguarda solo i marciapiedi, il traffico, le discariche tossiche, l’inquinamento. Si è smarrito lo spirito solidale

L’immaginazione ci serve adesso. E non ci pare che l’appuntamento con le urne sia pure di secondo livello abbia costituito opportunità per continuare (magari in modo meno inadeguato per non dire sgangherato) le analisi, le riflessioni, i proponimenti attorno a queste nodali problematiche.

L’impressione è che, non potendo trovare soluzioni condivise dal basso, si attendono fatalisticamente (ma litigando) le decisioni confezionate dall’alto.

Già, la condivisione! Sarebbe stato preferibile che in una circostanza così densa di significati e sviluppi la politica si mettesse in gioco, almeno, come succedeva un tempo, con progetti capaci di far discutere e di aggregare.

La politica, invece, si è rivelata, da un lato, inadeguata nel proporre al territorio, non dico un destino, ma una seppur limitata vocazione coesiva; limitandosi a fare il compitino della presentazione delle liste dei candidati specchio dell’abitudine a confondere la rappresentanza con la testimonianza dell’impegno civile e del superiore interesse della comunità.

Il centro-destra si è addirittura spaccato. Ed il centro-sinistra non è stato in grado di caratterizzare il suo preteso valore aggiunto nella candidatura, che avrebbe assunto un significato simbolico, dei Sindaci più rappresentativi (di Cremona e di Crema). Si è reso disponibile quello di Crema, ben nota per il suo profilo da sfasciacarrozze; mentre Galimberti ha passato il testimone alla meno autorevole e poco elegante candidatura dell’ex segretario generale della Provincia.

Mah…

E.V.

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