Domenica, 05 maggio 2024 - ore 16.35

A dieci anni dalla scomparsa, un ricordo di RENZO ANTONIAZZI

Se ne era andato troppo in fretta ed i dieci anni che ci separano da quella prematura scomparsa sono volati; senza, però, farci perdere il ricordo di una testimonianza civile di grande valore. Per la sinistra cremonese e per il mondo del lavoro. Che, in una militanza politica iniziata presto e cresciuta intensamente, egli ha rappresentato nel confronto sociale e nelle istituzioni.

| Scritto da Redazione
A dieci anni dalla scomparsa, un ricordo di RENZO ANTONIAZZI A dieci anni dalla scomparsa, un ricordo di RENZO ANTONIAZZI A dieci anni dalla scomparsa, un ricordo di RENZO ANTONIAZZI A dieci anni dalla scomparsa, un ricordo di RENZO ANTONIAZZI

Diciamo che, per un comune vissuto, ovviamente in ruoli di diversa responsabilità, è difficile sterilizzare il profilo pubblico dalle sensazioni personali. Questo breve ricordo ne risentirà.

Al di là della diversa militanza partitica, che a quei tempi pure comportava dialettiche serrate, non ho mai avuto motivo di modificare la percezione, maturata sin dal primo contatto, che fosse testimone di un convinto senso unitario, nel sindacato, nel mondo del lavoro, nella sinistra politica.

Ho lavorato con lui, brevemente, nella Camera del Lavoro, ricevendo ogni volta conferma di un solido ed indefettibile radicamento nelle virtù dell’equilibrio e del realismo; strumenti essenziali per il perseguimento degli obiettivi, spesso difficili, che rientravano nella strategia di emancipazione di quel mondo del lavoro che ha permeato l’intera sua opera.

Parliamo di scenari in cui la difesa del diritto del lavoro e la conquista di condizioni più accettabili di vita non erano esattamente una cena di gala.

Antoniazzi, infatti, aveva maturato il suo tirocinio nell’avamposto dell’intenso scontro sociale di quegli anni cinquanta ed inizio sessanta, che era rappresentato dal comparto agricolo.

Il sindacato di categoria, la Federbraccianti CGIL contava allora migliaia di associati e per almeno un ventennio costituì la stella polare di lotte sindacali e sociali, che non potevano non risentire della radicalizzazione spesso imposta da una controparte non esattamente avanzata.

Erano i tempi delle 13.000 disdette, un istituto arbitrario con cui gli agrari intendevano avere le mani libere nel rapporto di lavoro e sottomettere ogni diritto sindacale, dell’intransigenza nella sottoscrizione dei patti colonici che implicava estenuanti forme di lotta, della rottura dell’unità sindacale che indeboliva il potere di rappresentanza dei lavoratori.

Il sindacalismo di sinistra organizzava la grande maggioranza di una forza lavoro che, a quei tempi, in agricoltura rappresentava oltre il quaranta percento degli occupati. Ma si trovò spesso ad operare in posizione di isolamento, quando non di vessazione. La Federbraccianti, che costituiva in assoluto il settore più importante della Camera del Lavoro, diventava così lo strumento di formazione del quadro dirigente del Sindacato. Quelli destinati a crescenti responsabilità di vertice ed, in prospettiva, a carriere istituzionali, sarebbero transitati, senza distinzione di appartenenza partitica, da quell’impegnativa esperienza.

Fogliazza, approdato alla Camera dei Deputati nel 1953, Giano Chiappani, destinato (dopo Bardelli) alla segreteria responsabile della CdL e più tardi al primo Consiglio della Regione Lombardia, ed, appunto, Renzo Antoniazzi, che ne avrebbe ricevuto nel 1970 il testimone.

Il clima sociale ed economico cremonese stava subendo un profondo cambiamento. Le campagne, che erano state l’epicentro dello scontro sociale e sindacale, si stavano gradualmente svuotando per effetto della meccanizzazione. La mano d’opera rilasciata dai campi e dalle stalle, però, non sarebbe approdata nel circuito industriale locale, mai destinato a decollare come era stato per i territori contermini; bensì nell’area metropolitana. L’industria cremonese, anziché espandersi come fu sempre negli auspici della popolazione e delle amministrazioni locali che avevano operato in tal senso, era destinata, come vedremo, ad un tendenziale ridimensionamento. Che avrebbe comportato, in uno scenario generale di gravi tensioni sociali e politiche, un arresto definitivo delle aspettative di insediamenti manifatturieri e terziari e, con esso, l’entrata nella marginalizzazione e nel declino per un territorio marginalizzato rispetto allo sviluppo incardinato nelle aree metropolitane.

Le organizzazioni sindacali, frammentate alla fine degli anni quaranta dalle conseguenze della verticalizzazione dello scontro politico e della divisione del mondo in due blocchi contrapposti e messe a dura prova dal cosiddetto “autunno caldo” della seconda metà degli anni sessanta (detonatore dell’innesco di derive eversive e terroristiche), avrebbero costituito l’avamposto della tenuta dei diritti nei luoghi di lavoro e della democrazia. Si approssimava così uno snodo che, pur non archiviando totalmente e definitivamente le divisioni del passato, poneva come strategica la prospettiva dell’unità sindacale.

Renzo Antoniazzi giungeva alla guida della Camera del Lavoro provinciale in questo nuovo contesto. In cui la non sempre facile convergenza tra centrali, in passato fortemente contrapposte, diveniva la condizione per reggere un problematico equilibrio tra le spinte alla razionalizzazione del sistema produttivo (che spesso significava semplicemente la chiusura od il forte ridimensionamento di importanti aziende) e l’imperativo alla difesa del posto di lavoro e di decenti condizioni socio-economiche.

In tale ruolo l’allora giovane segretario confermò le doti, già testate nella precedente esperienza alla guida del maggior sindacato dei braccianti e salariati agricoli, che erano state e sarebbero sempre più divenute di grande equilibrio, di realismo, di senso del gradualismo. In poche parole, i requisiti essenziali del sindacalismo di stampo riformista, delineato da Giuseppe Di Vittorio; che sarebbe stato la cifra del lungo ciclo della leadership di Luciano Lama, con cui il futuro senatore restò sempre in forte sintonia.

La “corrente comunista” della CGIL, la grande confederazione non raramente infiltrata dalle suggestioni del massimalismo del PCI, interpretò sul campo concreto dello scontro un tratto che, per quanto diverso dal sindacalismo laburista del centro-nord Europa, non si può non definire una originale variante della cultura gradualista, ripudiata dalla scissione del 1921 dai massimalisti. Un profilo che, per quanto compresso dalle logiche del cosiddetto “centralismo democratico”, avrebbe mantenuto in essere i pur limitati ambiti di contaminazione del partito togliattiano, prima, e berlingueriano, poi, con la cultura del riformismo sociale e politico.

Quello che era stato tracciato dal “Piano del lavoro” di Di Vittorio. Che era passato non totalmente indenne dallo scontro sulla questione dell’Ungheria. Che negli ultimi anni della leadership di Luciano Lama avrebbe portato la maggiore Confederazione a non considerare più le dinamiche contrattuali come variabili indipendenti, ma a farsi carico, come avrebbe sostenuto sorprendentemente il segretario della CGIL, in piena sintonia con Benvenuto della UIL e Carniti della CISL, di una linea contrattuale consona, attraverso l’efficientamento e la crescita della competitività, al rafforzamento dell’apparato produttivo.

Antoniazzi giungeva alla massima responsabilità del maggior sindacato in una fase dell’economia produttiva locale, contraddistinta, da un lato, dalla scia dello svuotamento delle campagne e quindi di una perdita biblica dell’occupazione agricola e, dall’altro, dalle conseguenze di un processo di forte riorganizzazione dell’apparato manifatturiero provinciale. Il cui saldo numerico sarebbe coinciso con una consistente decurtazione dei livelli occupazionali e con il ridimensionamento o addirittura la scomparsa di interi settori (come quello delle costruzioni e delle confezioni).

Tale processo avrebbe condotto, in un breve volgere di tempo, alla chiusura di significativi comparti, che erano stati l’habitat della cosiddetta aristocrazia operaia (una locuzione che definiva condizioni sia occupazionali in contesti tecnologicamente avanzati sia contrattuali e sindacali molto emacipate).

Sparivano così a Cremona aziende delle confezioni come la SIC, che dava lavoro prevalentemente femminile a 500 occupati, e a Crema praticamente tutto il siderurgico-metalmeccanico, che era stato, già a cavallo del XIX e XX secoli, punta di diamante di un diffuso benessere economico e sociale per tutto il comprensorio.

Tale inopinato indirizzo economico comportò, in una prima fase, una forte resistenza per la difesa dei posti di lavoro e dei diritti maturati e, successivamente, di fronte all’ineluttabilità dei nefasti approdi, all’impegno per l’attivazione delle tutele. Che, a quei tempi, erano inferiori agli standards raggiunti successivamente.

All’interno di tali tendenze sociali ed economiche regressive, un profilo decisamente paradigmatico assume, anche ai fini della rievocazione del contributo di Antoniazzi alla vita pubblica ed alla storia della sinistra politica e sindacale, la vicenda della vertenza dell’ATA Pirelli di Pizzighettone dell’inverno 1970-71. Era iniziata come una normale dinamica di rinnovo contrattuale su basi salariali, normative e soprattutto sulla tutela della salute in fabbrica; ma ben presto, sulla spinta di una radicalizzazione della piattaforma, le posizioni di testa nella guida della vertenza, tradizionalmente tenute dalla CGIL a trazione socialista, furono scandite da  un’imprevista ed imprevedibile operazione di rottamazione ante litteram. Fu così che la regía della vertenza passò nelle mani di un’inedita convergenza tra la CISL (che fino a poco prima veniva percepita in fabbrica come una sorta di sindacato giallo, prevalentemente insediato nel segmento impiegatizio e dai trascorsi ossequienti al management), le ACLI, una minoranza di giovani turchi socialisti e cani sciolti dell’antagonismo (la cui effettiva collocazione verrà scoperta nel collateralismo eversivo).

In una realtà aziendale in cui, dalla mobilitazione per la difesa della fabbrica dal 1943 fino alla fine del conflitto e tutto lungo il successivo quarto di secolo, il sindacato aveva ben rappresentato i diritti e gli interessi di 1500 lavoratori anche con forme di lotta non certamente arrendevoli, si affacciarono nuove pulsioni. Fu così che nell’arco di un paio di mesi la lotta si incanalò verso modalità estreme, irresponsabili e manifestamente controproducenti; come lo sciopero oltranzista e l’occupazione della fabbrica. Dopo oltre un mese di lotta estrema, supportata da picchetti ed intimidazioni, il vertice sindacale riannodò il filo di una ragionevolezza imposta dal realismo e, soprattutto, dalla consapevolezza che una gestione estremistica e dissennata avrebbe condotto, dopo la serrata padronale,  a “conquistare il ritorno in fabbrica” ( il triste epilogo di un avventuroso e temerario azzardo massimalistico ). Un pugno di mosche subito, dal punto di vista, delle “conquiste” sindacali;  prodromo di un decomissioning, come si direbbe oggi, ante marciam, attivato dal disimpegno di un grande gruppo industriale, come la Pirelli, rispetto al modello fordista radicato sulle sponde dell’Adda subito dopo la prima guerra mondiale. Che a Pizzighettone era stato accompagnato da uno dei più avanzati welfare aziendali. Una prospettiva che dall’inedito gruppo catto-rivoluzionario della rottamazione del sindacato dal tratto riformista non era stata neppure percepita nei suoi pericoli. E che a testimoni delle collateralismo eversivo non poteva fregare di meno.

Ma che, invece, preoccupava, e molto, le percezioni e le analisi del sindacalismo riformista e gradualista, rappresentato dalla CGIL.. Il cui leader indiscusso, Renzo Antoniazzi era entrato con tutta la sua intelligente lettura politica degli avvenimenti, con il peso della sua dirittura morale, con una coerente e forte determinazione in una situazione compromessa dall’avventurismo ed, indirizzata, come si vedrà nel corso del successivo decennio, ad un approdo devastante.

Quel carismatico dirigente sindacale e politico spese in quella vertenza tutte le risorse possibili e non temette di esporsi in situazioni che definire “confronto” sarebbe eufemistico.

Un rapporto di collaborazione e di amicizia maturato nella consuetudine dell’impegno politico e sindacale imboccò, secondo chi scrive, una direzione senza ritorno. Avrei continuato a  collaborare con lui in ruoli cambiati per entrambi. Ogni qualvolta si sarebbe trattato di rappresentare l’attivazione delle tutele per i lavoratori delle aziende in difficoltà, potevi star certo che avresti trovato una sponda sicura nell’impegno del sindacalista eletto senatore per tre Legislature. Che, d’altro lato, Renzo Antoniazzi si sarebbe applicato, come molti dei parlamentari cremonesi, nel lavoro legislativo e nella difesa degli interessi cremonesi a Roma, lo davano tutti per scontato. E così fu. Di tale certezza, di cui era ben consapevole il territorio, ebbi ripetuta conferma ogni qualvolta, nell’esercizio delle mie responsabilità politiche, avevo contatti con l’ambiente parlamentare. In cui l’apprezzamento per la preparazione, per la serietà e per la dedizione del suo lavoro legislativo era diffuso e trasversale.

E per concludere questa rievocazione, che doveva essere sintetica e sterilizzata dai pericoli di una componente intimistica, aggiungo che mi faceva piacere incontrarlo in città negli anni successivi alla conclusione del mandato parlamentare. Immancabilmente, quasi tutte le mattine, lo incrociavo nei pressi di via Volturno, incamminato verso la sede della Federazione del PCI a fornire al partito ancora il suo contributo di esperienza e di saggezza.

Avrei attinto da quei brevi e non occasionali incontri (ripetuti la domenica, ma per ben altri motivi, allo stadio Zini) molti approfondimenti e spunti che mi furono indispensabili per delineare la ricostruzione storica degli eventi sociali e sindacali, parte fondamentale della ricerca de Il Socialismo di Patecchio. Avremmo dovuto discutere del libro uscito qualche mese prima nel corso di una conferenza a Crema, organizzata nonostante le sue declinanti condizioni di salute.

A quella conferenza ci sarei andato da solo; perché qualche giorno dopo Antoniazzi avrebbe concluso una vicenda umana, ancor oggi esemplare sotto molti profili. Non escluso un naturale stile di sobrietà e di semplicità, che ha condiviso con la moglie Lina, conosciuta nell’ambiente operaio, e che ha trasmesso al figlio Claudio ( l’unico dei figli dei parlamentari cremonesi a scegliere consapevolmente il lavoro operaio).

Farebbe bene alla sinistra politica ed al sindacato, in forte debito di riferimenti ideali ed etici, rivisitarne la testimonianza e la personalità contraddistinta da un profilo umano posato ma non cupo, per molti versi sereno e brillante.

E.V.

 

 

 

 

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