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FIAT LUX Ai tempi delle giunte Zaffanella le farfalle volavano sulla città

Trent’anni dopo, almeno metaforicamente, han cominciato, per di più di notte, a volare sulla facciata delle basiliche. Nella fattispecie dell’immagine che sormonta l’articolo, sulla basilica per eccellenza, di S. Pietro.

| Scritto da Redazione
FIAT LUX  Ai tempi delle giunte Zaffanella le farfalle volavano sulla città

Hanno volato in proiezione notturna in occasione dello spettacolo “Fiat Lux”, con cui, ricorrendo ad una inedita (per il cerimoniale vaticano) modalità comunicativa, il nuovo Papa ha voluto marcare il significato del nuovo corso del suo Pontificato.

L’8 dicembre, apertura delle giubilari porte misericordiose, è stata, infatti, una giornata didattica a tutto tondo. Il Papa, gesuita di formazione ma francescano di impronta, ha impegnato anche un centrale apologo di metafora: con la proiezione delle farfalle su una facciata, da secoli conosciuta come teatro di severi ammaestramenti, Francesco ha mostrato di voler “secolarizzare” la Cathedra su tematiche meno mistiche, ma molto centrali nelle consapevolezze umane: la difesa del creato (quasi in simultanea, centinaia di statisti di tutto il mondo erano impegnati a Parigi) a cominciare dalla difesa delle specie (faunistiche) in estinzione.

L’apologo ha talmente funzionato in noi che l’abbiamo adottato come incipit per un monito applicato ad una fattispecie molto meno importante ma significativa.

Anche il nostro clero ha aperto porte misericordiose, a principiare da quella della chiesa simbolo della cristianità cremonese ma anche delle mirabilia monumentali di una comunità, che in esse vi si riconosce.

Da questo evento, destinato comunque a permeare le coscienze sia dei credenti sia degli agnostici sul terreno della misericordia, traiamo spunto per interpretare uno scampolo di secolarizzazione.

Nel momento in cui, infatti, la Cremona dei credenti apriva le porte per spingere il gregge a misurarsi con la virtù della compassione verso la miseria, morale o spirituale, altrui, la Cremona delle istituzioni civili si apprestava a chiuderne, di porte.

Ricorrendo a gesti di puro surrealismo. Quale è stato l’evento celebrativo di qualche giorno fa (alla vigilia della delibera con cui il massimo organo deliberativo comunale avrebbe di fatto cambiato, volendo essere molto comprensivi, pelle ad una delle istituzioni più accreditate nella coscienza civile comunitaria), dedicato alla ricorrenza dei primi (e ultimi) cento anni dell’azienda municipalizzata.

Chi scrive è sconcertato per questa performance di inesperienza, di ignoranza, di presunzione e di cinica supponenza; con cui uomini (pensano loro) venuti dal (e per il) futuro manomettono il passato.

Fatto che ha provocato in noi raccapriccio per una celebrazione, che, per la modalità con cui è stata proposta, indurrebbe a preferire ad essa un’amnesia.

La rievocazione ha praticamente fatto tabula sia della fondazione che dei primi settantacinque e si é impegnata solo a favore di una smaccata agiografia della (in tutti i sensi) fase terminale. E’ per questo che, ricorrendo ad un fotomontaggio, anche noi proiettiamo virtualmente sulla facciata del Duomo l’immagine di due appartenenti a specie politiche già estinte dall’arbitraria ricostruzione storica (Garibotti e Botti, padri della municipalizzazione cremonese).

E’ pur vero, lo si dice come attenuante ma non scusante, che, se si affida la memoria storica unicamente alla testimonianza dei sopravvissuti, si esclude dalla narrazione la testimonianza degli scomparsi. E’ la classica furbizia di chi vuole servirsi della storia per interpretare arbitrariamente l’attualità.

Di più, i 100 anni dell’Azienda Municipalizzata di Cremona, se si ritengono meritevoli di rivisitazione, non possono essere consegnati ad un book, fotograficamente ineccepibile, ma del tutto privo di filo logico, e ad una memorialistica/aneddotica snodata coll’improvvisazione tipica delle rimpatriate da coscrizione o da notti prima degli esami.

Ben si comprendono, in filigrana, le ragioni per cui, nell’epoca contrassegnata prevalentemente dell’attenzione a  ciò che appare, si sia scelta la narrazione per immagini. Di cui non si può dire che siano del tutto raffazzonate; perché, va dato atto, l’impostazione settoriale per comparti aziendali ha una sua logica.

Ma cosa resterà, nel tempo, di questa brochure fotografica, assolutamente priva di un segnavia scritto suscettibile di fissare nella memoria e nella coscienza civile le intuizioni che hanno preceduto l’impresa, i suoi albori, la progressione della sua parabola (che, almeno nei profili in cui si è manifestata fin qui, sta giungendo al capolinea).

Dal punto di vista dell’opzione iconografica sia consentita anche una riserva di ordine contenutistico. Possiamo capire la buona volontà, ma fino ad un certo punto. Perché un’azienda, che, disponendo di apparati dirigenziali ipertrofici e del ricorso sistematico ed esagerato alle consulenze esterne, avrebbe potuto avvalersi di mani esperte. Ovviamente se fosse stata sinceramente intenzionata a rivisitare e a celebrare convenientemente la propria storia secolare!

Una siffatta sottovalutazione ha avuto come risultato una scansione storica mutila temporalmente dell’intero ciclo della vita istituzionale ed aziendale e soprattutto privata di  una trama utile a comprenderne almeno la funzione comunitaria ed i passaggi salienti in cui si è andata snodando la testimonianza civile delle decine di amministratori e dirigenti e, presumibilmente, delle migliaia di lavoratori a servizio della città.

Peraltro, andrebbe esternata la sorpresa suscitata dalla circostanza della soverchiante incidenza, nell’economia generale dell’impaginazione della brochure, dell’iconografia sacro/monumentale rispetto a tutto il resto. Non che ci urti la centralità, nel patrimonio storico/artistico cittadino, della monumentalità religiosa. Tutt’altro; ne siamo consapevolmente orgogliosi. Ma l’impressione che se ne ricava è che la gran parte della mission aziendale si sia spesa ad illuminare chiese. Al punto di eleggere a frontespizio di una storia laica l’immagine di un edificio che per molti secoli ha conteso il primato simbolico del potere laico.

Archiviata, con un certo senso di sollievo, la critica (che molti benpensanti percepiranno come un po’ grossier) sull’impostazione e sui contenuti dell’unica modalità rievocativa destinata a lasciar tracce nel tempo, non possiamo sottacere i rilievi nei confronti della rivisitazione affidata alla parola.

Nessuno intende fare esercizio di accanimento. Vogliamo solo esercitare il diritto/dovere di totale disapprovazione all’indirizzo di un format rievocativo non ispirato da verità storica, (che sarebbe stata garantita solo dalla completezza dell’excursus), né da sforzo di attualizzazione delle intuizioni, degli impulsi civili, delle passioni politiche e sociali capaci che hanno ispirato e sostenuto quella lunga parabola. Ovviamente, se si fosse ritenuto che ne valesse la pena. Il simposio celebrativo è stato affidato, invece, ai comforts dell’accettazione acritica e conformistica dello spartito tracciato da chi ha guidato l’ultimo ciclo.

La regia di questo misfatto di rivisitazione storica ha dimostrato di volersi crogiolare nelle sue (interessate?) smemoratezze quanto nelle sue inettitudini ad informarsi.

Chiaramente, se nella ricostruzione storica recidi le radici, dimostri che sei  unicamente interessato a trasmettere una interessata narrazione della fine di questa storia.

Il cui tratto distintivo è coerente con il profilo della celebrazione, ispirata da una specie di coazione a non discostarsi dalla versione dispensata.

Così riassumibile: è stata una lunga e bella storia; gli ultimi venticinque anni sono stati, in termini di spinta innovativa, a dir poco favolosi; continueremo nel cambiamento attraverso passi vitali e strategici (dice il Sindaco, forse convinto che la morte sia un lato dialettico della vita).

Capiamo l’imbarazzo a celebrare insieme festa e funerale. Ma un po’ più di misura avrebbe alleggerito quel senso di autoreferenzialità. Che fa assomigliare parecchio l’improntitudine dei vertici comunali ed aziendali alla prosopopea di uno dei tanti motti degli Windsor “non ci lagniamo e non ci giustifichiamo”.

Non presaghi della “festa”, come il Sindaco ha definito la ricorrenza, qualche giorno fa avevamo affidato alle pagine digitali de L’Eco del Popolo un profilo della testimonianza civile del padre di questa istituzione. Istituzione cui, bontà sua, il Sindaco riconosce il merito di “aver accompagnato per un secolo lo sviluppo, la crescita e il cambiamento della nostra comunità”. Quel Giuseppe Garibotti, negletto dai nuovi padroni della politica, ne aveva, già nel 1909, fissato le basi teoriche ed ideali: “Certi servizi di necessità pubblica non possono essere lasciati in balia dei privati, debbono essere informati e disciplinati ad un interesse più largo della speculazione individuale, quello della collettività”.

Con l’occasione avevamo anche ipotizzato un comune impegno, proprio nell’anno del Centenario dell’AEM, per una rievocazione, di sicure basi storiche, della figura di Garibotti, nella circostanza del 150° della nascita e dell’85° della scomparsa.

Rebus sic stantibus, assumeremo in prima persona l’approfondimento storico, che, per molti aspetti avrebbe potuto avere segmenti di sovrapposizione con i cento anni dell’AEM.

Ovviamente non nei termini da story telling autoagiografico degli attuali vertici aziendali e di alcuni del passato prossimo.

Forniamo qui una cronaca contro-informativa, come si diceva un tempo, di un evento che avrebbe potuto essere edificante per la memoria storica di Cremona.

In tal senso si sono mosse le testimonianze dei past presidents del ciclo della prima repubblica (Di Odoardo, Grandi, Saradini). Hanno ricordato che, al di là della dialettica politica, prevaleva sempre l’impulso a privilegiare l’interesse superiore dell’Azienda e della città. Ad esempio, la presidenza Di Odoardo in quota DC, il partito che si era opposto, a costo di un commissariamento, alla municipalizzazione del gas, si snodò lungo tutta la procedura di attuazione del progetto.

Poi, le cose cambiarono. Fino al punto da far perdere la capacità di percezione della corrispondenza tra i cambiamenti ed il senso della realtà.

Da tale punto di vista va dato merito all’ex presidente Giuseppe Tiranti (tre mandati) di aver fornito una chiave interpretativa del substrato un po’ schizofrenico ed incoerente che guidò la strategia aziendale di quegli anni.

Si dice che stava maturando il cambiamento epocale delle liberalizzazioni, mentre l’Azienda, attraverso processi di spacchettamento e poi di riaggregazione, cresceva bulimicamente fino a contendere al privato ambiti marginali privi di valore strategico.

Ma su queste contraddizioni Tiranti ha steso un velo pietoso. Limitandosi, nella usurpata veste di conduttore della rivisitazione, a rendere pubblico l’aneddoto del suo respingimento alla reception di un convegno regionale delle municipalizzate.

L’incaricato degli accreditamenti lo stimò come potenziale imbucato. “Non mi credette e fui costretto a telefonare in sede per una conferma” ha confidato dal palco Tiranti.

Se è per questo anche gran parte dell’ambiente politico cittadino fu per lungo tempo incredulo circa la possibilità che il PCI, che pure in passato aveva fornito amministratori di valore e di equilibrio come Franco Dolci, avesse, in omaggio ad un rinsaldamento della coesione messa alla prova dalla novità delle male giunte DC/PCI, potuto anteporre le convenienze interne al superiore interesse di un’azienda così importante.

I risultati si sarebbero visti in un prosieguo, che ha condotto, nell’ultimo quarto di secolo, le “partecipate” comunali ad un inesorabile destino di Kombinat, dai tratti non troppo dissimili da quelli vagheggiati dai testimoni dei dogmatismi sovietici.

E.V.

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