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Anniversario Giuseppe Di Vittorio il 3 novembre 1957 muore a Lecco

Lo ricordiamo con le parole di Gianni Toti, in quegli anni direttore del Lavoro. “Sarà la coscienza del vuoto profondo che lascia nelle file del movimento a trasformarsi in una spinta più forte”

| Scritto da Redazione
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Il 3 novembre 1957 muore a Lecco Giuseppe Di Vittorio. Lo ricordiamo attraverso le parole di Gianni Toti, direttore del Lavoro (in quegli anni giornale rotocalco della Cgil) dal 1952 al 1958*. “[…] Ora gli rendiamo omaggio così – scrive Toti –. Testimoniando per lui, riinterrogando la sua anima consegnata agli uomini, parlando con gli uomini, rileggendoLo, ricostruendoLo ancora nelle fotografie di tutta una vita riportate alla luce dalla polvere degli archivi, ripensandoLo negli scritti, negli articoli, nei Suoi libri, ripercorrendo le strade da Lui percorse, da Cerignola a New York a Lipsia, scorrendo i messaggi telegrafici che arrivano da tutto il mondo, e non solo dalle organizzazioni affiliate alla Fsm, dall’Africa nera alle isole dei Caraibi, all’arcipelago delle Antille (ché il bracciante di Cerignola era diventato ‘sindacalista del mondo’)”.

Continua Toti: “Rileggiamo Di Vittorio. Gli articoli di Avanguardia Pugliese (i Suoi orgogliosi corsivi, di risposta agli agrari, intitolati; “Sì, io sono un cafone di Puglia!”). I saggi su Stato Operaio, i fondi su La voce degli italiani, i libri pubblicati a Parigi sotto lo pseudonimo di Mario Nicoletti (“Le fascisme contre le paysan. L’esperience italienne”, del 1929, che ci è ritornato sotto gli occhi in questi giorni come una scoperta preziosa: gli altri introvabili forse, o da ricercare pazientemente)”. Il direttore del Lavoro si sofferma poi sul clima che accompagna a Milano la presenza della salma di Di Vittorio, nella camera ardente allestita nella sede della Cgil: “Davanti alla Camera del lavoro di Milano, fra i segni del dolore fraterno, dove il pugno chiuso e il segno della croce parlano lo stesso silenzioso linguaggio di unità, si ferma improvvisa una camionetta della Celere. I lavoratori non la degnano di sguardi, la ignorano. Dalla camionetta scende un gruppo di poliziotti, due o tre ufficiali. Recano una corona, mazzi di fiori. Rispondono: è a nome di un gruppo di militi e di ufficiali della Celere, non chiedeteci altro. Di Vittorio difendeva anche noi. Diceva che tra i lavoratori non ci sono nemici. Scusateci, nient’altro. Poi la camionetta riparte, veloce. I fiori della Celere si mescolano ai fiori dei lavoratori. Questo era Di Vittorio. Un seminatore che aveva seminato in tutti i campi”.

Da Milano a Roma: “A Corso d’Italia, nella chiesetta laica improvvisata nella sede della Cgil prosegue il racconto di Toti –, un vecchio operaio meridionale si getta sulla bara, singhiozzando. Grida, a coloro che lo trascinano via: ‘È finito lu cafone, è finito’. Ed è finito davvero, il cafone meridionale che mangiava ‘acqua e sale’ nella ‘cafoneria’ e si toglieva il cappello quando passava l’agrario, sublimato dalla crescita umana del cafone Peppino e del movimento, oggi adulto, che lo aveva ‘costruito a sua immagine e somiglianza’. Chè oggi i ragazzi di Cerignola che hanno l’età che Peppino aveva quando studiava al lume della candela nella ‘cafoneria’ tra i braccianti addormentati, sanno quanto alto e libero può salire il cafone del Sud assieme all’operaio del Nord, promosso cittadino di una Repubblica del lavoro, riscattato per sempre. Se ne è fatta, di strada, da allora...”. Ma non solo lavoratori. “Dirigenti d’azienda, tecnici, ingegneri hanno salito in questi giorni le scale delle organizzazioni sindacali. Hanno detto anche loro: e adesso, chi ci difende? Chi ci aiuta, ora? E che cosa accadrà? Gli operai sono sgomenti, hanno ripetuto, e penoso è guardarli negli occhi”.

Sgomento, è vero sbigottimento. “Di Vittorio è morto e nessuno forse potrà mai più sostituirlo nel cuore degli italiani, prendere quel posto che vi occupava, dove affondava radici col diritto del buon seme. Ma lo sgomento dei primi giorni sta già trasformandosi in una dolorosa eppure costruttrice presa di coscienza. Così totale, così unanime il dolore dei lavoratori che già appare come una forza nuova, un rinascere di Giuseppe Di Vittorio nella testimonianza unitaria del dolore”. “Tutti insieme, forse... – argomenta ancora Toti –. Abbiamo sentito ripetere spesso questa frase, durante i funerali. Tutti insieme certamente: si risponde già. E non è stato forse il movimento a costruirsi ‘a sua immagine e somiglianza’ il suo dirigente? E il dirigente sorto dal popolo non era forse popolo egli stesso, fatto di tutti noi? Certo, non sarà facile. Dovremo lavorare meglio, studiare di più, più lucidamente e più democraticamente discutere, raccogliere le forze e saggiamente disporne. Ma niente è più falso della ipocrita considerazione propagandistica svolta dai giornali dell’avversario, secondo la quale la morte di Di Vittorio provocherà una crisi catastrofica nel movimento sindacale unitario. Sarà proprio la coscienza del vuoto profondo che Di Vittorio lascia nelle file del movimento che potrà trasformarsi in una spinta più forte, che scaturisca dalle correnti sotterranee e creative dello spirito popolare”.

Conclude il giornalista del Lavoro: “Conosceranno presto i nostri avversari le notizie delle iniziative che i lavoratori hanno preso e prenderanno per onorare nel modo migliore, nel modo che Di Vittorio avrebbe voluto, la memoria del capo scomparso. Noi sappiamo già degli impegni presi per il tesseramento, delle riunioni già svolte, dei fatti già avvenuti. Non sembrino misure burocratiche, fredde iniziative di prammatica. C’è dietro il dolore per la perdita immensa e la coscienza del compito più grave e pesante che incombe a tutto il movimento. È il testamento morale, sindacale e politico di Di Vittorio che comincia ad essere letto sulle pagine degli ordini del giorno che la storia detta con parole quotidiane e semplici significati. Dobbiamo essere più forti di prima proprio perché Lui ci ha lasciato. La bandiera è caduta. Raccogliamo la bandiera. Proseguiamo”.

Ilaria Romeo, Responsabile Archivio storico Cgil nazionale

*Da “Il suo testamento”, in Lavoro, 17 novembre 1957.

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