A Bruxelles l'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e la Commissione europea discutono con le parti sociali, in una specifica conferenza (23 e 24 febbraio), il tema delle diseguaglianze nel mondo del lavoro e di come il dialogo sociale e le relazioni industriali possono correggere gli squilibri esistenti, mitigarne le conseguenze, definire nuove regole per politiche e soluzioni contrattuali più eque e più favorevoli a una giusta distribuzione della ricchezza e delle opportunità.
Dopo molti anni in cui il tema delle disuguaglianze è stato trascurato o considerato non importante, nel tempo recente numerose istituzioni internazionali e i più rilevanti centri di ricerca e analisi a livello globale – la stessa Oil, l'Ocse, perfino il Fondo monetario internazionale – hanno cominciato a considerare le disuguaglianze e il loro crescente livello di diffusione, enormemente accentuatosi come conseguenza della globalizzazione, come uno dei rischi più grandi per la tenuta della coesione sociale, per la composizione non conflittuale della dialettica fra interessi diversi nelle società, per la capacità di organizzare risposte alla lunghissima crisi economica. Un tema che per l'Europa pone un’ulteriore minaccia, quella della sostenibilità del suo modello di politica sociale e della struttura del suo welfare.
Dal lavoro preparatorio della conferenza emergono almeno tre elementi particolarmente interessanti per predisporre risposte e strategie adeguate da parte del movimento sindacale. Il primo elemento riguarda la contrattazione collettiva, la cui erosione – aggiunta alla difficoltà ad assicurare l'ampia copertura del passato – coincide largamente con l'aumento dei segmenti di lavoro con bassi salari e con riforme del mercato del lavoro adottate senza il coinvolgimento delle parti sociali e, molto spesso, con l'opposizione delle organizzazioni sindacali.
Le ricerche rilevano che laddove la contrattazione collettiva è stata indebolita o osteggiata – attraverso politiche governative ostili e quadri legislativi che hanno aperto alle deroghe e alle deviazioni rispetto alle condizioni contrattuali definite dagli accordi collettivi – è stata più elevata la diffusione di lavoro precario e indifeso, con orari ridotti o ridottissimi e salari inferiori mediamente di un terzo rispetto a quanto definito per legge o contratto. Per converso, i Paesi europei che presentano sistemi di contrattazione collettiva centralizzata e coordinata e che hanno livelli multipli di contrattazione – nazionale, di settore, territoriale, di impresa – sono quelli in cui la diffusione di lavoro professionalmente dequalificato e poco pagato è stata minore, così come più bassa è stata la crescita delle disuguaglianze.
Il secondo elemento chiama in causa il salario minimo, nei Paesi laddove esso è presente. Gli studi più recenti dimostrano che può limitare le disuguaglianze salariali, ma solo se esso è combinato con la contrattazione collettiva. Nel Regno Unito o nei Paesi Baltici, il salario minimo ha avuto l'effetto di far crescere le paghe più basse, ma non ha avuto successo nel determinare risultati apprezzabili nella più generale distribuzione del reddito, proprio per l'assenza o la bassissima diffusione di meccanismi di contrattazione collettiva. Mentre gli esempi del Belgio, dell'Irlanda o della Germania dimostrano che il salario minimo può contribuire a ridurre le disuguaglianze, a limitare la frammentazione dei rapporti di lavoro e a contrastare i bassi salari, a condizione che esso si combini con forti sistemi di contrattazione collettiva di settore, con una cornice di efficace ed effettivo dialogo sociale, con un incoraggiamento alla stipula di accordi nazionali e aziendali con carattere migliorativo, non derogatorio in peius.
Il terzo elemento concerne le nuove categorie di lavoratori, che più risentono degli effetti negativi delle disuguaglianze, quindi soprattutto i giovani, le donne, i precari, gli immigrati. La contrattazione collettiva può avere per queste figure un chiaro effetto inclusivo, se si pone l'obiettivo di realizzare l'inclusione estendendo gli standard esistenti e non definendo regimi speciali nella contrattazione generale. Una scelta che, laddove praticata, produce la diminuzione nel gender pay gap, la riduzione delle differenze di trattamento economico e normativo per i giovani, il contrasto alle discriminazioni per i lavoratori stranieri. È sostanzialmente attraverso la contrattazione collettiva inclusiva che si può meglio definire un quadro più pro-labour per quanto riguarda l'orario di lavoro, il lavoro straordinario, le condizioni di lavoro.
Come si vede, c'è materia sufficiente per chiedere alla Commissione europea, come il sindacato fa da anni, di cambiare le sue politiche economiche e sociali, di passare dalla fallimentare stagione dell'austerità a un nuovo corso dello sviluppo europeo attraverso un piano straordinario di investimenti per l'occupazione di qualità, ritornando a puntare con decisione sullo straordinario valore aggiunto che possono avere corrette relazioni industriali. E c'è, a maggior ragione, motivo per insistere sulla linea della Cgil di promuovere nuovi strumenti di tutela generale e individuale, così come previsti nella proposta di legge di iniziativa popolare per una Carta dei diritti universali del lavoro.
Ma non solo. Nella conferenza insisteremo anche su un punto che abbiamo già sollevato al congresso della Confederazione europea dei sindacati e su cui sta piano piano crescendo il consenso anche di sindacati di altri Paesi europei. Se vogliamo concretamente avviare un percorso di riduzione delle disuguaglianze nel lavoro, di contrasto vero al dumping e alla concorrenza sleale a cui sono sottoposti oggi i lavoratori, occorre rapidamente definire uno strumento salariale minimo di dimensione europea, in grado di avviare un processo – certamente graduale e ponderato, ma sempre più necessario – di convergenza dei salari in Europa, nel quadro di una più generale campagna per il loro aumento. Si tratta di una scelta impegnativa e difficile, ma per noi ineludibile.
La strada verso la ripresa di fiducia nel progetto europeo passa da qui, dai diritti sociali e del lavoro, dagli standard condivisi e comuni, da uno spazio europeo della contrattazione come principale antidoto alla frammentazione, alla contrapposizione degli interessi e dei lavoratori di Paesi diversi, al ripiegamento sulle sole dimensioni nazionali, che non possono costituire certo la risposta alle sfide che ci pone la complessità dello scenario globale.
Fausto Durante è responsabile delle Politiche europee e internazionali della Cgil
Fonte rassegna sindacale