Giovedì, 25 aprile 2024 - ore 20.00

Cremona Inaugurata dal PAF la mostra ‘Vite al lavoro’ di Ezio Quiresi Un contributo di Mauro Ferrari

E' stata inaugurata sabato 23 giugno la mostra 'Vite al lavoro. La poetica di Ezio Quiresi, tra fatica e ricostruzione, nella Cremona del dopoguerra' presso la sala degli Alabardieri del Comune. I visitatori potranno ammirare le fotografie originali del noto fotografo cremonese.

| Scritto da Redazione
Cremona Inaugurata dal PAF la mostra ‘Vite al lavoro’ di Ezio Quiresi Un contributo di Mauro Ferrari

Cremona Inaugurata dal PAF la mostra ‘Vite al lavoro’ di Ezio Quiresi Un contributo di Mauro Ferrari

E' stata inaugurata sabato 23 giugno la mostra 'Vite al lavoro. La poetica di Ezio Quiresi, tra fatica e ricostruzione, nella Cremona del dopoguerra' presso la sala degli Alabardieri del Comune. I visitatori potranno ammirare le fotografie originali del noto fotografo cremonese.

Di seguito un contributo di Mauro Ferrari

liquidi o superflui(di)

Punto uno. Quiresi e noi.

Sappiamo che la società contemporanea è caratterizzata da forti ambivalenze. La globalizzazione (del mercato, del lavoro, delle comunicazioni), avviatasi su scala planetaria sin dalla conquista delle Americhe e portata a compimento nei nostri giorni, apre a opportunità sconosciute alle generazioni che ci hanno preceduto, i cui destini personali, affettivi, professionali si risolvevano perlopiù dentro o nei pressi delle comunità di nascita, come ben testimoniano le fotografie di Quiresi.

Oggi studiare, lavorare o anche solo confrontarsi con altre esperienze, in posti diversi del pianeta, apre a scenari prima impensabili; dall’altro lato, quello meno luminoso, fanno la loro comparsa da un lato la consapevolezza che la globalizzazione avviene in maniera diseguale (esistono luoghi, paesi e soggetti dominanti e altri dominati), e dall’altro con sempre maggiore frequenza si affacciano nella vita quotidiana la flessibilità, o precarizzazione delle biografie e delle condizioni di lavoro. Come stanno, chi sono, oggi, i perdenti della globalizzazione? Come si posizionano, come reagiscono di fronte a questo fenomeno incombente?

Infine, un terzo aspetto si manifesta, come esito ineludibile, strutturale di questi processi: masse di persone diseredate, mai così numerose, fuggono da comunità native invivibili e premono sulle frontiere (e sulle comunità locali) dei paesi cosiddetti sviluppati. Per rimanere a tempi recenti, è accaduto negli anni ’90 del secolo scorso con la crisi albanese, accade oggi via mare e via terra dal’Africa sub sahariana e dalle altre aree di crisi medio orientale e asiatica.

Le foto di Quiresi ben rappresentano una condizione solida, statica, di comunità entro cui i ruoli sociali tendono a riprodursi; di vicini di casa che si riconoscono, persone che sono in grado di ricostruire genealogie familiari; di mestieri che fanno di ogni comunità locale un luogo autarchico (siamo nel cremonese, e chi vorrà riscoprire le sofisticate elaborazioni di Luigi Ghisleri troverà nelle sue ricostruzioni della corte chiusa la massima espressione dell’autarchia, dei rapporti gerarchici  al suo interno, delle forme, già allora, del lavoro precario bracciantile e del ruolo della donna, il cui lavoro oscuro e prezioso ha portato Nuto Revelli a riconoscere come il vero “anello forte” della tenuta del sistema).

Raccontano anche di soggetti-in-azione entro contesti certi; di identità robuste, individuali e comunitarie. Dell’esistenza di quelle che definiremmo come “liturgie”, profane o sacre che siano, poiché tendenti alla ripetizione, e perciò stesso rassicuranti. L’alternarsi di momenti di lavoro, faticoso e dignitoso, riconosciuto, alternato a momenti di festa, entro i confini dello stesso mondo, con i medesimi attori. Un mondo rassicurante. In cui, oltretutto, sembra prevalere la dimensione analogica del silenzio, degli spazi dilatati, rarefatti. Potenza del bianco e nero, ma soprattutto potente rappresentazione di un’epoca. Contrassegnata da fatica, privazioni, rassegnazione, e da straordinari movimenti di emancipazione, in cui grande ruolo hanno assunto anche i “militanti politici di base” studiati da Montaldi.

(Una nota autobiografica: la mamma di chi scrive ha passato infanzia e giovinezza con la famiglia in un casello della ferrovia, senza acqua corrente né luce; e mio padre ha trovato un impiego pubblico che è durato per tutta la sua esperienza lavorativa, segno di un’epoca che si stava aprendo a prospettive di sviluppo, di solidità in forme nuove ma ancora fortemente intrise di legàmi consuetudinari).

 

Punto due. Da fluidi a superflui(di)

Ma oggi, appunto. Siamo immersi in una inquietudine, una instabilità che attraversa le esistenze delle persone, facendo vacillare quelli che sembravano costituire punti di riferimento stabili, che arriva a far comparire sulla scena dei contesti locali e globali masse di esseri umani considerati “di scarto”, più che fluidi “superfluidi”, o superflui, non-utili al nuovo scenario imperniato su ipermobilità e iperconnessione. È insomma l’incertezza dell’agire a denotare la società contemporanea e a spingere i soggetti a continue rielaborazioni, a porsi in uno stato di perenne disponibilità, o inquietudine, rispetto al cambiamento, al rischio (Beck, 2000). Uno stato liquido (Bauman, 2002), in cui gli attori sociali vengono sospinti alla ricerca di soluzioni individualizzate (Giddens, 1994). Questa condizione esaspera la frammentazione sociale, accentua la distanza tra chi è incluso – nel lavoro, nelle reti – e chi rimane fuori. Anzi, i confini tra le due opzioni si sfumano, così che da una condizione relativamente sicura è sempre più possibile (per un licenziamento, una migrazione, un evento personale o familiare) scivolare nell’incertezza, al punto che non è forse più corretto parlare della coppia inclusione/esclusione quanto piuttosto il considerare la categoria della “vulnerabilità”(Castel, 1997; Negri, 2006). Anche i contesti lavorativi, cioè le organizzazioni presso le quali molti fra noi svolgono la propria attività, si sono profondamente modificati: il privato, cioè i soggetti profit, ha incontrato sulla strada della globalizzazione l’apertura a nuovi mercati, processi di delocalizzazione, finanziarizzazione dell’economia, forme di flessibilità spesso molto spinta dei contratti di lavoro, in alcuni casi oltre i limiti dello sfruttamento (Omizzolo, 2018).

Punto tre. Lavoro, giovani

Sembra dissolversi quella che Weber (1965) definiva come l’“etica tradizionale del lavoro”, fondata sulla gratificazione differita, cioè su una sorta di investimento reciproco, da parte dei lavoratori e delle aziende, basato sul tempo e sull’esperienza acquisita, a vantaggio invece della disponibilità a muoversi velocemente entro scenari turbolenti (Sennett, 2005). In questo contesto sociale, economico, culturale, la fluidità che caratterizza i sistemi relazionali in cui gli individui si formano (i sociologi li definirebbero processi di socializzazione) alimenta una instabilità che attraversa i singoli, i cosiddetti istituti familiari, i gruppi di riferimento, i luoghi di residenza, il lavoro e il il tempo libero. È qui, in questo tempo e in questi luoghi, in questo clima sociale che crescono le nuove generazioni, spesso contemporaneamente iperconnesse e iperisolate, che in una fase cruciale della loro esperienza esistenziale incontrano molti stimoli e altrettante fragilità, che sovente tendono ad allontanarsi da forme tradizionali di socializzazione (partiti, sindacati) non più gratificanti o motivanti e a trovare rifugio in dimensioni diverse. Con l’effetto, fra gli altri, di non riconoscere nelle autorità il principio di autorevolezza, dato che non è ammesso un futuro per i perdenti (così che assistiamo a reazioni violente, e purtroppo spesso sostenute da genitori collusivi, da parte di chi prende un brutto voto a scuola, o non vince nelle competizioni sportive).

 

Punto quattro. Erbacce.

Come abbiamo scritto di recente (Ferrari, 2015b), riprendendo Mintzberg (1996) e Gruppo Abele (1999), le trasformazioni che ci attraversano sono metaforicamente simili alle “erbacce” (Mabey, 2011), poiché i cambiamenti nascono e crescono come erbacce nel giardino, non come “pomodori in serra”; possono attecchire dove non ce l’aspettiamo; infine, sappiamo che per gestirli non è necessario prevederli. È così per le cosiddette nuove questioni sociali, quali le diverse forme di vulnerabilità, o per l’immigrazione, che non rappresentano esiti diretti di programmazioni razionali, ma piuttosto esiti indiretti di scelte locali, nazionali o sempre più spesso sovranazionali, che riportano, “scaricano” sulla scena locale tensioni e fragilità, che in questo modo si rendono visibili nelle relazioni personali, familiari, di vicinato, di quartiere. È come se i contesti locali diventassero dei fenomenali parafulmini di tempeste elettriche che originano altrove. Ma chi li abita non ha scelto di svolgere questo ruolo di collettore di tensioni, e quindi agisce, reagisce, si manifesta. Il mondo, il nostro mondo, è pieno di “alieni” che hanno saputo o dovuto inventarsi un modo di vivere nuovo in un posto totalmente diverso dal loro (Di Domenico, 2010). Così accade a molte categorie di soggetti, quali ad esempio le cosiddette badanti (che si ritrovano davanti, o intorno, ai giardini pubblici nelle prime ore del pomeriggio, per confrontarsi, scambiarsi istruzioni per l’uso delle città, del lavoro, del mantenimento di legami spezzati, distanti), le persone senza dimora oppure ancora i complici di sostanze (sia nella versione degli spacciatori che dei consumatori) o persino bambini, o giovani, che scorrazzano, fanno rumore. Questi alieni talvolta si manifestano presenziando fisicamente negli spazi pubblici (i giardini, le famigerate panchine, le piazze), occupando, fastidiosamente, spazi altrimenti liberi. Talaltra neppure si manifestano, come accade nel caso dei fatidici “lavoratori in nero”, sparsi nelle case o nelle campagne, o dei cosiddetti “sdraiati”, esiti umani delle diverse crisi che ci attraversano. E spesso la realtà manifesta insicurezza, cioè alimenta, riproduce quelle stesse tensioni da cui è pervasa. È dunque lì, nei quartieri, nei parchi, per le strade che è possibile monitorare, registrare i cambiamenti, le tensioni, i disagi e perfino le opportunità. Nei confronti delle erbacce, o degli invasori, reali o presunti che siano, gli abitanti dei luoghi, i lungoresidenti, nutrono spesso sentimenti conflittuali, che si combinano con una disaffezione nei confronti dei luoghi (“Questo quartiere non è più vivibile”, “Le strade non sono sicure”). Quella che prima, in un mitologico prima, era una comunità coesa, ora viene rappresentata come un insieme liquefatto di individui. Smarriti nel loro stesso habitat, gli ex comunitari agognano un eden scomparso, irriproducibile. E nel frattempo lamentano, e alimentano, una disaffezione che talvolta assume i contorni del rifiuto o di una ricerca identitaria difensivo-offensiva, distinguendo pervicacemente fra un “noi” e un, o molti, “loro”.

Punto cinque. Voglia di comunità.

Cosa rimane di noi, della nostra storia, che distanza intercorre fra la nostra esperienza quotidiana e le foto di Quiresi?

Proviamo a ritesse i fili della riflessione. Se a ciò che è disordinato, invadente, fastidioso viene assegnata un’etichetta negativa, e ciò che si considera in questi termini viene se possibile evitato o allontanato, questo non rappresenta che un tentativo di rifuggire da una complessità avvertita come instabile, inquietante. È un modo paradossale per ritrovarsi, per tessere legami, che per quanto possano essere intrisi di contrapposizione tentano di dare un senso, oggi, a brandelli di comunità. È il secondo polo del processo di individualizzazione liquida, che Bauman (2011) ha ben descritto nel suo “voglia di comunità”. Un processo di costruzione identitario che può produrre mostri, rigetti, e comunità chiuse, rancorose. Un indicatore molto semplice: se dovessimo ricostruire la serie storica delle feste locali scopriremmo che a fronte del progressivo dissolversi delle feste di partito corrisponde un aumento esponenziale di altri tipi di feste, o sagre, con altri protagonisti e interpreti (chi scrive in questo momento è a Piadena, dove nell’estate 2018 per la prima volta non si svolgerà la tradizionale festa di partito “per mancanza di militanti”). Non si intende con questo celebrare come qualitativamente importanti sagre che spesso sono banali, ma segnalare come si stiano manifestando nuove forme di aggregazione, veri e propri anticorpi al dissolvimento dei legàmi sociali.

Preme infine sottolineare come esista in questa nuova ricerca di comunità un altro lato, stavolta luminoso, che dà vita a modalità di interazione aperte, che si traducono ad esempio in buone pratiche di accoglienza diffusa, o in esperienze quali gli orti sociali, o in quelle varie forme che chiamiamo “welfare di comunità”, o di prossimità; e nell’esplosione delle molte esperienze di aggregazione, di sostegno, locali, il cui fine non è che l’esito di processi intrisi di relazioni non più fra vicini lungo residenti ma fra coloro che di fatto abitano nei quartieri, nei paesi; e di come si tratti di un’evidenza empiricamente rilevante, di un “oggetto di lavoro” composito e sostenuto da soggetti in carne e ossa; che lì, in quel contesto, abitano e danno vita a forme insolite di comunità. Magari più instabili, provvisorie, meno coese, fluide. Ma aperte, intrise di futuro, poiché capaci di evitare il rancoroso e impossibile ritorno ad un passato irripetibile. E, soprattutto, capaci di sconfiggere l’isolamento, e, per usare un termine antico, di sconfiggere la paura.

Capaci di socchiudere le porte di casa.

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