Venerdì, 29 marzo 2024 - ore 08.05

Europa si Europa no, la sfida del Brexit dilania Londra

«La Gran Bretagna è parte dell’Europa ma non è in Europa». Il sofismo di Churchill è la frase ideale per illustrare la tensione culturale, economica e storica tra il Regno Unito e il resto del blocco continentale. Amore, odio, razionalità o passioni viscerali, voglia d’Europa o splendido isolamento.

| Scritto da Redazione
Europa si Europa no, la sfida del Brexit dilania Londra

«La Gran Bretagna è parte dell’Europa ma non è in Europa». Il sofismo di Churchill è la frase ideale per illustrare la tensione culturale, economica e storica tra il Regno Unito e il resto del blocco continentale. Amore, odio, razionalità o passioni viscerali, voglia d’Europa o splendido isolamento. Il 23 giugno sapremo quale parte della dicotomia vince. Il referendum voluto da Cameron per mettere pace nel partito conservatore sta dilaniando un Paese che di solito è abbastanza calmo.  

E il dibattito su «Brexit» sta mettendo molta paura a Bruxelles, Parigi e Berlino, che temono che altre nazioni vogliano mettere in discussione il progetto dell’Unione europea.  

I sentimenti forti generati dall’Europa non sono cosa nuova in una Gran Bretagna che è ancora nostalgica del suo passato imperiale (e imperialista) e che rimane incerta sulla sua appartenenza geografica e culturale all’Europa.  

Vi faccio degli esempi personali. Quando andai all’università a Londra, mi colpì molto il fatto che fossi considerato uno studente «overseas», «d’oltre mare» ovverosia i 35 chilometri della Manica. E mi ci volle del tempo per capire che «Il continente» di cui parlavano i miei amici inglesi fosse l’Europa.

Di solito, però, gli psicodrammi europei i britannici li vivono in privato, o quantomeno nel Parlamento di Westminster o nelle stanze dei bottoni del partito conservatore. La decisione-kamikaze di Cameron ha messo questo profondo disagio socio-culturale ai raggi X, facendolo diventare una questione internazionale su cui Obama, la signora Merkel e perfino Michael Caine devono dire la loro. (I primi due sono pro-Europa, il terzo è pro-Brexit).

La popolazione è presa nel mezzo, costretta a scegliere tra la partecipazione in un’Europa che non sente propria e l’abbandono di un’Unione europea che ha aiutato il continente ad evitare gli orrori del passato. 

Cameron lo ha detto proprio questa settimana, il giorno prima dell’anniversario del «Blitz» nazista che rase al suolo Londra nella Seconda guerra mondiale. «Siamo sicuri che la pace e la stabilità in Europa saranno sempre garantite?» 

Boris Johnson, l’ex sindaco di Londra che è il leader della campagna pro-Brexit e vuole rimpiazzare Cameron, ha detto l’opposto: è l’Europa che crea tensioni e incomprensioni tra i Paesi. 

Con dibattiti così è ovvio che il Paese sia in bilico. Lo dicono i sondaggi - l’ultimo agglomerato di tutti i rilevamenti, fatto dal «Financial Times», ha dato il 46 per cento al «Dentro», e il 43 per cento al «Fuori» con ancora molti indecisi. Lo dicono i divari generazionali - i giovani vogliono restare, gli anziani se ne vogliono andare - e quelli regionali - il Sud-Est di Londra e la Scozia sono anti-Brexit mentre il Nord d’Inghilterra e l’Ovest del Galles e Cornovaglia vogliono rompere con l’Europa. 

DILEMMA AMLETICO  

Ma il dilemma, amletico ovviamente, è palpabile quando si parla con la gente comune.  

Sono stato di recente a Tunbridge Wells, a un’oretta da Londra. Lì ho incontrato Olly Stevens, ragazzo prestante e gioviale che ha lasciato una carriera nella City per aprire un caffè dal tema ciclistico con un negozio di biciclette al piano di sopra.  

Per Olly, che importa bici dall’Italia, dalla Germania e dal Belgio, il mercato unico europeo è una mano santa e Brexit sarebbe un salto nel buio. «E’ come lasciare tua moglie per un’altra donna senza prima conoscere l’altra donna», mi ha detto. 

Altri piccoli imprenditori, come Wilson Boardman, non vedono l’ora di commettere l’adulterio politico. Boardman, che è proprietario di Micromix Plant Health, un’azienda di fertilizzanti a tre ore di macchina a Nord di Londra, odia l’Ue, le sue regole e l’idea che la Gran Bretagna debba chiedere il permesso a Bruxelles per tante, troppe, cose. 

«L’Ue è una burocrazia obesa, dalla corruzione terminale, basata su una moneta unica che dovremmo buttare nel gabinetto», mi ha detto nel suo corposo accento del Nord tra una sigaretta e l’altra. «Non siamo abbastanza “europei” per farci dettare legge da Parigi o Berlino». 

Boardman ha messo in luce uno dei problemi-chiave: a più di mezzo secolo dalle parole sibilline di Churchill, la Gran Bretagna ancora non ha deciso se è «in» Europa.  

IL GRANDE IMPERO  

Per molti altri Paesi europei, la storia moderna prima dell’Ue è una successione di dittature, bagni di sangue, avventure coloniali e due guerre mondiali durissime. Ma la Gran Bretagna ha una «storia» alternativa, almeno in teoria: un grande impero che rimane nella memoria collettiva attraverso le istituzioni del Commonwealth.

«Per secoli siamo vissuti in uno “splendido isolamento”, protetti dalla nostra marina e dall’Impero», ha scritto lo storico Vernon Bogdanor. «Ora l’isolamento non c’è più ma qualcosa è rimasto nella psiche dei britannici che non vogliono legami troppo stretti con l’Europa». 

Ho riflettuto su queste parole ieri mattina mentre ero in giro per Londra, prima a Waterloo Station, nome reso famoso dalla famosa vittoria su Napoleone, poi a Trafalgar Square, che ricorda a inglesi e turisti il trionfo dell’ammiraglio Nelson sulle forze francesi e spagnole. La Gran Bretagna è antagonista dell’Europa anche nella topografia. Sono effetti inconsci e subliminali che supportano l’idea portante, ripetuta spesso dai leader pro-Brexit che «l’Europa ha più bisogno di noi che noi dell’Europa».  

Dal punto di vista economico, ciò non è vero. Il Regno Unito vende il 44 per cento delle sue esportazioni ai Paesi Ue e solo il 17 per cento agli Stati Uniti. E un’uscita dall’Ue porterebbe a uno choc economico considerevole.  

STERLINA A RISCHIO  

La Banca d’Inghilterra, per esempio, è molto preoccupata dal possibile crollo della sterlina nel caso di Brexit e ha già fatto capire che alzerebbe i tassi immediatamente il 24 giugno per arrestare il crollo della divisa. E la City di banchieri e investitori spera, prega e paga per evitare una rottura con l’Ue che metterebbe a repentaglio il ruolo di Londra come capitale mondiale della finanza. 

Il mio amico Roland Rudd, uno degli spin-doctor più blasonati della City che è tesoriere della campagna del «Dentro», parla di una strategia con «tre pilastri»: «L’economia, la sicurezza e il ruolo del Regno Unito come leader nella geopolitica globale. Il referendum è un momento storico e votare per Brexit sarebbe un disastro». 

Gli euroscettici ridicolizzano queste idee come «Project Fear», il «Progetto Paura» per convincere la gente a rimanere nella camicia di forza dell’Ue.  

Ma anche gli uomini di Boris Johnson usano l’arma della paura. Nel loro caso è la paura dell’immigrazione. I tabloid di massa, dal «Daily Star» al «Daily Mail» al «Daily Express», continuano a parlare di «ondate di immigrati» che si riverseranno sulle bianche scogliere di Dover se il Regno Unito rimanesse in Europa. Il piano è chiaro: creare un clima di timore dello «straniero» per far pensare al pubblico che è meglio se ognuno se ne sta a casa propria. Anche qui, la realtà diverge dalla retorica, visto che la Gran Bretagna non è parte dell’accordo di Schengen e quindi mantiene controlli a tutte le frontiere.  

Ma a questo punto, a 43 giorni dal voto, i fatti non la fanno da padroni. I britannici, noti per la loro resistenza alle emozioni proprie di noi «mediterranei», sembrano voler decidere con il cuore e non con la testa. Non per la prima o l’ultima volta, «il continente» guarda alla Gran Bretagna con il fiato sospeso. 

 

 

Fonte Buongiorno SLOVACCHIA®

1300 visite

Articoli correlati

Petizioni online
Sondaggi online