Mercoledì, 01 maggio 2024 - ore 14.49

L’ECO Bagliori di dinamismo innovativo e testimonianze di filantropia mirata

(pur nella permanenza dei cupi contesti immobilistici della Città) “Cremona avrà la sua università”. Così, nel luglio del 1991, aveva annunciato il ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli.

| Scritto da Redazione
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L’ECO  Bagliori di dinamismo innovativo e testimonianze di filantropia mirata

(pur nella permanenza dei cupi contesti immobilistici della Città)  “Cremona avrà la sua università”. Così, nel luglio del 1991, aveva annunciato il ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli.

E così lo stesso ministro socialista e vice-premier sarebbe, qualche mese appresso, ufficialmente confermato, nel corso di una conferenza-stampa  partecipata dalle massime autorità locali (tra cui il cavalier Arvedi) ed il ministro competente (per la ricerca scientifica e l’università) Prof Antonio Ruberti.

Cremona che, nella prima metà degli anni Cinquanta, aveva, più o meno consapevolmente (come si avrà motivo di analizzare nell’approfondimento che alleghiamo) anche se irresponsabilmente, perso l’autobus diretto ad un destino di studi superiori e tentato, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, un ripescaggio con la sede distaccata dell’ateneo parmense di Magistero, arrivava tardivamente e marginalmente ad un traguardo universitario, non esattamente agognato dalla sua classe dirigente dell’epoca.

Diremo il perché, non appena svolto un rimando più analitico dell’acquisizione, annunciata sul filo del rasoio di una legislatura in fase di smobilitazione. Che obiettivamente inverte una consolidata tendenza di isolamento (o di auto-isolamento)

Antonio Ruberti, professore universitario di vaglia, acquisito in ruoli governativi, aveva assecondato le aspettative di Martelli (capodelegazione socialista del VII Governo Andreotti), che nel lungo mandato parlamentare espresso dalla Circoscrizione Cremona-Mantova aveva ben compreso le ragioni dell’arretratezza del Sud-Lombardia; tentando di porvi rimedio.

Era, in quell’inizio dell’ultima decade del ventesimo secolo, alle viste un programma di decentramento degli studi universitari interfacciato agli indirizzi discendenti dalla riforma che avrebbe inopinatamente tradotto il diritto all’accesso, abbassandone il rigore ed il rating formativo.

Ma ciò sarebbe avvenuto poco dopo. Intanto il “convento” passava due corsi di laurea breve (ingegneria informatica ed agroalimentare) e la facoltà di Musicologia. Pochi e maledetti, verrebbe da dire, ma concreti, Soprattutto, col senno di poi, pietra angolare per i fecondi sviluppi che sono stati posti in dirittura d’arrivo dall’annuncio della settimana scorsa.

Quell’approdo, per quanto tardivo e circoscritto, coglieva l’auspicio e gli sforzi della comunità. Quando perdi certi convogli (come quello della Facoltà di Agraria, che nella sorella e coeva cittadina oltre il Po ha incardinato nel corso degli anni un qualificato Ateneo ed inciso significativamente nello sviluppo di un territorio dai destini segnati dal console Marco Emilio Lepido ma assecondati da una popolazione più intraprendente) il deleted del tabellone delle corse successive lascia a terra per lungo tempo. Come annota l’editoriale del quotidiano La Provincia uscita oggi, la patria della moderna zootecnia si mostrò tiepida. Quando, per nescenza o neghittosità, fai lo schizzinoso e butti il biglietto sorteggiato dalla lotteria, ti deve poi accontentare della Facoltà di Magistero. Che era una laurea breve ante litteram (anche se distribuiva molto ambiti pezzi di carta dal valore legale). Si può magari, mordendoti le dita per l’opportunità inopinatamente scartata, cominciare a sperare in un ripescaggio delle dea bendata. Magari confidando nella munificenza di cittadini benemeriti, come il cremonese di sangue svizzero  Walter Stauffer (si sarà notato che i grandi benefattori della Cremona contemporanea vengono da fuori?). Alla cui lungimiranza e determinazione si deve il merito di una sede di studi imperniati sul prevalente profilo cremonese, in quanto suscettibili di proiettare l’appealing della città del violino e della musica ben oltre i confini territoriali e nazionali.

Avrebbe potuto essere così anche per le scienze agrarie; che in nessun’altra parte avrebbero potuto trovare sede più giustificata e promettente di Cremona. Venne costituita per pressante sollecitudine del fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, padre Agostino Gemelli. Si chiamò, ad inizio anni Cinquanta Facoltà di Agraria di Piacenza e Cremona. La Provincia di Cremona, come abbiamo considerato nel nostro lavoro intitolato “Il Socialismo di Patecchio”, elargì cospicui contributi (40.000.000 di lire corrispondenti all’incirca a poco meno di 1 milione di euro). Di cui avrebbe beneficiato solo indirettamente. Il gruppo socialista del Consiglio Provinciale accusò nel 1954 la Giunta Ghisalberti di non aver fatto nulla per ottenere che Cremona fosse sede della Facoltà; quanto meno in partnership con la dirimpettaia e concorrente padana. Come poté accadere che la classe dirigente si lasciasse sfuggire un’opportunità che avrebbe potuto saldare ad un’atavica vocazione le prospettive della ricerca scientifica e del collegato sviluppo economico?

Bella domanda! Tra parentesi la Provincia, in quel 1954, perse un’altra grossa opportunità, rappresentata dall’inclusione, smarrita in corso di progettazione definitiva, nel tracciato della Autostrada del Sole.

Come abbiamo considerato nelle premesse, la nostra realtà, pur avendone in teoria titoli equivalenti e superiori ad altre realtà territoriali, favorite dagli agganci con la politica e dalla propria maggiore intraprendenza, sarebbe stata ai margini delle successive politiche di territorializzazione degli atenei.

L’essere sede universitaria per un capoluogo, neanche lambito (com’è stato successivamente per Piacenza con la logistica) dalle strategie di periferizzazione degli insediamenti industriali e, più tardi, terziari, non è solo questione di prestigio. Come dimostrano le realtà, tanto per mantenere l’analisi a realtà a noi vicine, di Parma e Pavia, l’indotto degli atenei, che pur prospettano qualche limitata criticità, è stato e continua ad essere determinante per uno sviluppo sinergico.

Ovviamente non nella logica di un insediamento universitario purchessia. Cremona arriverebbe tardi a contendere corsi, diciamo così, tradizionali. Mentre ha tutto l’interesse a coltivare opzioni che si orientino verso uno share suscettibile di integrare  facoltà correlate alle sue vocazioni. Che indubbiamente possono trarre vantaggio dalle sinergie, quanto meno sul piano della ricerca e dalla disponibilità di figure professionali altamente formate, con l’assetto produttivo locale. E verso indirizzi di studio, che, per la loro eccellenza ed unicità collegate ai perni della tradizione artistica, musicale, liutaria, possano esercitare un appealing di reclutamento ben oltre il territorio.

Cosa sarebbe stato degli oltre cento negozi sbaraccati dalle originarie attività commerciali di vicinato se non ci fosse stato il subentro da parte delle botteghe, i cui operatori sono stati attratti dall’Istituto Professionale, prima, e dal prestigio mondiale del format liutario, poi?

Quale sarebbe stato il destino dei vastissimi comprensori edilizi del centro storico dismessi dalle originarie attività prevalentemente di interesse pubblico, se non si fosse posta la questione del reinsediamento , riqualificazione, valorizzazione?

Per essere stata per secoli destinazione delle strategie di difesa militare, Cremona ha sopportato (con qualche compensazione) le “servitù”. Il processo inverso ha provocato non solo l’inaridimento della fonte dell’indotto sulle attività terziarie, ma, soprattutto, le conseguenze sempre più insostenibili di volumi edilizi spropositati, rispetto all’ordito urbanistico, e, ciò che è peggio, suscettibili di produrre, unitamente al degrado fisico, un effetto domino di decadimento su tutta la città.

A complicare le cose hanno concorso almeno tre ordini di controindicazioni. La prima (la più colpevole per il ceto dirigente) è rappresentata dall’irrefrenabile impulso della politica a patrimonializzare ogni cespite edilizio in dismissione; senza averne precisa contezza della riconversione sostenibile e del carico degli (straordinari e gestionali). E’ il caso del complesso del Vecchio Ospedale, acquisito dal demanio comunale, difeso con le unghie contro la “speculazione” ed ineluttabilmente destinato alla rovina. L’idea di insediarvi segmenti burocratici e/o centri di attività culturale è clamorosamente contraddetta dalla spending review, dalla contrazione degli apparati pubblici e, diciamolo fino in fondo, dalla sproporzione tra disponibilità e domanda del mercato immobiliare.

La città, che ci ha dormito sopra e fin qui è andata avanti tra titubanze e pregiudizi ideologici, farebbe bene a farsene una ragione. Per fermare l’ulteriore degrado fisico e l’indotto di obsolescenza che si trasmette a tutto il comprensorio urbanistico circostante.

Diciamo che la visione generale che preside alla ipotizzata ricollocazione di servizi pubblici statali sbroglia virtuosamente una parte della matassa. Il fabbisogno logistico derivante dall’insediamento universitario, quale è stato sommariamente presentato, fronteggia un’altra parte fondamentale della riutilizzazione di “contenitori” fin qui inutilizzati. Soprattutto, in uno scacchiere della città cruciale per una visone d’insieme della vocazione di Cremona, come città di cultura e d’arte.

Le altre due controindicazioni riguardavano, l’una, l’appartenenza di quel patrimonio a superiori poteri (la cui flessibilità nei rapporti con la periferia da sempre si è rivelata quasi uguale a zero) e, l’altra, la pressoché totale insolvenza della spesa pubblica locale. Almeno sul versante di programmi strategici, ormai non più abbordabili, per istituzioni prive di qualsiasi range facoltativo.

Le belle favole non hanno quasi mai abitato a Cremona; che paga, in aggiunta alle conseguenze di una propensione immobilistica, la condizione del suo essere fuori dai crocevia del potere politico, nazionale e regionale (se mai c’è stata, come suggerirebbe il rimando dell’incipit, fu episodicamente).  L’annuncio dei giorni scorsi del recupero alla vita ed al decoro del “parco dei conventi” e dell’ottimizzazione della sede universitaria costituisce qualcosa di più di un happy end di aspirazioni coltivate da pochi consapevoli. Sarebbe assolutamente colpevole darne per scontata, date la complessità e l’onerosità, una realizzazione in scioltezza. Si tratta di un progetto impegnativo, posto dopo tante disillusioni e frustrazioni, in dirittura da un eccezionale lavoro di squadra. Che ha visto impegnate le istituzioni locali, le rappresentanze cremonesi in seno al Governo ed al Parlamento, qualche  (un!) benemerito cittadino.

Del cui afflato comunitario non ci sarebbe motivo di dubitare. Ha messo una mano al cuore e, soprattutto, un’altra al portafoglio. Ma non è ciò che è prevalente nelle considerazioni sul valore del gesto.

L’oblazione nel caso è cospicua; come rilevanti sono state quelle precedenti. Significative numerariamente  e, ciò che conta maggiormente, “mirate”. Vale a dire, finalizzate in senso strategico. Fu così per piazza Marconi, per il Museo del Violino, per il Centro sportivo di Via Postumia, per le Colonie Padane. Sono state, cioè, tolte castagne dal fuoco dell’insolvibilità delle pubbliche istituzioni a petto di questioni ferme al palo da decenni. Anche se la loro soluzione è sempre rientrata in una visione di crescita generale della Città, in senso innovativo.

Sarà certamente così anche per l’insediamento dell’università negli ex monasteri. In una parte degli ex monasteri. Ne restano altri da recuperare. Ma, anche sulla scia se non proprio dell’entusiasmo certamente dell’attenuazione del pessimismo, si può legittimamente sperare in un effetto trascinamento dell’operazione appena delineata.

A beneficio dei portatori di scetticismo e dei cultori dell’aspettativa di un pasto caldo assicurato tutti i giorni, bisognerebbe sottolineare quanto segue. Anche se l’operazione richiederà i suoi tempi, è prevedibile che il trickle down (in termini di indotti economici) si farà sentire e si spalmerà in termini avvertibili da tutto comparto economico, che attualmente si sostiene di stipendi pubblici e poco altro (oltre ai 2000 staccati dal gruppo dislocato tra la Cava e Spinadesco).

Alla classe dirigente(con una valenza diretta a tuta la comunità) va ribadito che, se l’alleanza tra istituzioni e soggetti comunitari, nella fattispecie, ha funzionato egregiamente propiziando l’eccezionale risultato, il gioco di squadra, imperniato su dinamismo innovativo, investimenti strategici delle risorse pubbliche e coinvolgimento di filantropi illuminati, costituisce condizione essenziale per trarre il territorio dalle secche di un immobilismo, esiziale soprattutto per le nuove generazioni.

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Estratto da :     

   

 6.1 – Le autonomie locali, base della democrazia repubblicana.

 Nello stesso periodo, infatti, i socialisti, in appoggio alle istanze del mondo del lavoro, seppero, rispetto alle tematiche della modernizzazione, confrontarsi, pur nel ruolo di oppositore, ad armi pari con chi era investito di ruoli di governo.

Anche sollevando, polemicamente, incongruenze e disattenzioni attorno a questioni nodali.

Che resteranno irrisolte per il tempo a venire.

Due di queste risultarono particolarmente significative e riguardarono la Facoltà (meglio sarebbe dire, la mancata facoltà) di Agraria e l’inserimento (meglio sarebbe dire, il mancato inserimento ) del territorio cremonese nel tracciato della Autostrada A1, il vero volano del boom economico degli anni cinquanta-sessanta.

Della prima s’occupò il “Corsivo corpo 7” del n° 2/54:

“A maggior gloria dell’Università Cattolica, della ‘Vita’ pure cattolica e de ‘L’Italia’ di carta il presente corsivo non può essere stampato che in ‘corpo 7’.

O non hanno i tre summentovati, se non laudati enti o giornali intrapreso una campagna contro i nostri ‘sette studenti’ della Facoltà agraria di Piacenza, per la quale la nostra Amministrazione Provinciale versa, in quattro anni, la unifica cifra 40 milioni?

Tralasciamo anzitutto le ingiurie e gli insulti che uno almeno dei tre compari ‘L’Italia’ di carta ha lanciato contro di noi.

L’appellativo più temperato é ‘falsario’ indirizzato al responsabile di questo giornale.

Ma noi, che in Consiglio Comunale, ci occupiamo anche della tassa sulle immondizie non ci curiamo di queste onorifiche parole.

Proporremo però, sempre in Consiglio Comunale, un emendamento al disposto della tassa si da includere in essa e la prosa e le persone dei degnissimi redattori.

Detto ciò ai quattro beccaccioni de ‘L’Italia’ entriamo nel merito.

Siamo stati accusati di falso perché gli studenti iscritti al nobile ateneo delle ‘patate e carote cattoliche’ (vulgo facoltà agraria) non sarebbero sette come i peccati mortali, bensì quarantuno o settantasette (le cifre sono discordi).

Potremmo dire che i dati in parola ci sono stati suggeriti da un professore all’Ateneo di Parma; ma tutto ciò non ha valore probante.

Desidereremmo, però, sapere quanti fra i quarantuno o settantasette della Facoltà Agraria sono cremonesi, vale a dire quanti sono i figli dei contribuenti della provincia di Cremona che usufruiscono dei 40 milioni stanziati.

Non saranno sette ma poco ci manca.

E se per sette, o poco più studenti di agraria la Provincia di Cremona sborsa 40 milioni, per totale di 41 o 77 unità studentesche, quanto avranno versato in totale le amministrazioni provinciali della Lombardia ( tutte democristiane ).

Non andiamo errati se la cifra dei milioni supera i 200.

E allora, egregi riprensori delle falsità altrui?

Val la pena, con un giochetto di cifre, di guardare il bruscolino nell’occhio del vicino per non rimirare la trave che occupa il proprio occhio?

Allacciatevi le mutande, o difensori della morale e del giusto!

Il nostro numero 7 poteva anche avere un significato simbolico, se non addirittura riferibile agli studenti cremonesi.

E vi par giusto,rimettendo il discorso nei suoi termini esatti, che un’amministrazione pubblica adoperi il pubblico denaro per imprese che riguardano enti che collo Stato nulla hanno a che fare?

Noi, come dice ‘L’Italia’, faremmo del ‘laicismo’ perché ci rifiutiamo a che il pubblico denaro vada ad enti a fine e a sfondo clericale.

Che razza di discorsi e quale serietà d’impostazione.

Abbiamo sostenuto le facoltà governative di agraria di Milano e di Bologna appunto perché sono governative vale a dire di tutti.

Abbiamo controbattuto in Consiglio e nella stampa lo stanziamento dei 40 milioni perché essi vanno a rendere più fitta la ragnatela clericale che, ogni dì di più, avvolge il paese nostro.

E tornassero questi 40 milioni di utile almeno alla cittadinanza!

Ma ben si vede (e lo dicono tutti i professori e gli insegnanti in buona fede) come le scuole private confessionali siano il ricettacolo dei ripetenti e dei bocciati siano il covo degli intrighi per sabotare le scuole governative.

Levatevi allora la maschera o campioni della scuola privata clericale, truffaldina e settaria!

Dal canto nostro siamo precisi: i denari del pubblico vanno all’iniziative pubbliche, tutelate dallo Stato e non ad imprese che, alla lunga, mirano a svilire le scuole governative.

E ore gettatemi pure contro tutti i meloni e i cocomeri prodotti nella vostra facoltà agraria.

Dubito, però, signori de ‘L’Italia’, che in mancanza di questi dovrete gettare le vostre zucche vuote o ripiene di vento.

Gherardo Patecchio”.

L’affezionato corsivista si mostrava travolto da una incontenibile fremito laicistico, ma non consapevole, almeno del tutto, dell’importanza che quei “meloni e cocomeri” avrebbero avuto nello sviluppo della sorella città padana e della sua provincia.

Avrebbe, semmai, dovuto chiedere al governo locale la ragione per cui una così importante opportunità fosse lasciata volare sulla testa della comunità cremonese.

Sfuggirebbe la ragione di una scelta incongruente, se non venisse approfondita la circostanza.

Da una parte, infatti, la Provincia, presieduta dall’Avv. Ghisalberti, dopo ripetuti incontri, in sede cremonese e milanese, con Padre Agostino Gemelli, dominus della Cattolica, metteva sul tavolo l’impegno di spesa non irrilevante di 40 milioni (attualizzabili in 500.000 Euro), dall’altra, accettava (anzi, qualche autorevole testimone ricorda che pose come condizione che non avesse sede a Cremona) che la Facoltà sorgesse a Piacenza come “Facoltà di Agraria di Piacenza e Cremona”.

La spiegazione di una siffatta incongruenza potrebbe essere fatta risalire alle titubanze del Presidente Ghisalberti, amministratore integerrimo ma “sparagnino” fino a farsi obnubilare di fronte a grandi progetti, titubanze determinate dalla preoccupazione di assumersi un rilevante carico finanziario.

Un tratto caratteriale, questo, probabilmente accentuato, quando si trattava di progetti fortemente innovativi – nel campo del sapere o nella infrastrutturazione non importa -, dal fiato caldo alitato sul collo delle istituzioni locali da un establishment, atavicamente ostile a qualsiasi modernizzazione che potesse mettere in discussione un assetto bucolico.

Ostilità che priveranno Cremona (habitat naturale, più di Piacenza, per un tale prestigioso insediamento in grado di sviluppare sinergie, almeno agli occhi dei contemporanei) di una formidabile opportunità.

Al punto tale che col tempo la Facoltà non si fregerà, neppure nella denominazione, della partnership cremonese, che (beffa nel danno!) resterà, però, nella compartecipazione finanziaria, tanto contrastata da Gherardo Patecchio.

Bisognerebbe, per un dovere di obiettività, anche dire che i socialisti, scottati da quella sgradevole congiuntura, manterranno, più tardi negli anni settanta (quando deterranno responsabilità di governo) sospettose riserve nei confronti del progetto della Facoltà di Magistero.

Gli stessi interrogativi verranno sollevati da L’Eco del Popolo, solo qualche mese appresso, nell’edizione n° 7/54, relativamente ad un’altra questione nodale,  con un significativo titolo “ Uno scacco per le autorità democristiane - L’autostrada Milano-Bologna-Ancona e le necessità della nostra provincia”  :

“Lunedì scorso si é discusso a lungo in Consiglio Provinciale sul problema dell’adesione o meno della Provincia all’iniziativa promossa da un consorzio, dell’autostrada Milano-Pescara.

Si é discusso a lungo, dicevamo, forse per compensare, nella carenza e a suo tempo dell’autorità democristiana la mancanza assoluta di popolarizzazione del problema fra le vaste masse popolari numerosi che avrebbero appoggiato, con una solida compattezza, l’azione dagli enti provinciali che avessero perentoriamente richiesto una soluzione più favorevole alla necessità di Cremona.

E nonostante tutte le chiacchiere e le imbarazzate reticenze dei dirigenti democristiani (non abbiamo dubbi in proposito) la situazione é ormai goffamente e clamorosamente orientata contro gli interessi cremonesi.

Si ripete ora per l’autostrada, come ricorda il compagno Ricca, quello che avvenne dopo il Risorgimento a proposito della ferrovia Milano-Roma il cui tracciato doveva passare per la provincia di Cremona, mentre per l’ostilità di ottusi ceti agrari e per insipienza di amministratori, la stessa ferrovia venne fatta passare per Piacenza.

E addio allora, ai sogni di una provincia industrializzata e commercializzata!

Come anche ora addio ad una provincia più fiorente, più favorita, a mezzo l’autostrada di traffici e di vita.

Cremona e provincia resteranno quel cantuccio provinciale senza risorse e senza iniziative che per sempre resterà una specie di provincia agricola senza slanci e senza nemmeno una migliorata situazione nella stessa agricoltura.

Ma questo é già un altro discorso.

Dicevamo dunque che il nostro parere, circa gli interessi cremonesi nell’autostrada più che compromessa é addirittura una causa disperata come Cittadini cremonesi, come amanti del progresso tutto ciò ci addolora e ci sconforta.

L’abbiamo detto altra volta: sotto il governo spagnolo Cremona da città ricca e industriosa di 100 mila abitanti divenne un borgo selvaggio e isterico ove 10 mila abitanti si contendevano un tozzo di pane alle porte degli infiniti conventi.

Sotto il regime democristiano (se non sopravviene qualche mutamento) Cremona si avvia alla sua sterilizzazione e all’inedia più assoluta.

Questa nostra concezione é pienamente suffragata dai fatti.

L’immobilismo iniziativistico dei ceti detentori del capitale cremonese trova poi il suo péndant nell’immobilismo amministrativo delle autorità che dovrebbero avere a cuore gli interessi della provincia.

Non bastano, vivaddio, qualche lettera di sollecito e una riunione tra i comuni tenuta due anni fa!

Occorreva che la Provincia e il Comune di Cremona si battessero come leoni, popolarizzassero il problema, investissero della responsabilità parlamentari della provincia, specie quelli democristiani, che si dice, abbiano notevole influenza negli ambienti governativi, capitalistici di Roma.

Viceversa nulla di tutto ciò.

Secondo il proverbio ‘si é chiusa la stalla dopo la fuga dei buoi’.

E non valgono ora le accorate proteste, e non bastano le strida alla Ponzio Pilato dell’Avv. Crivelli di fronte alle serrate critiche di un nostro compagno!

Non vale che si accusi la sinistra in Consiglio Comunale e Provinciale di voler addossare delle responsabilità che non toccherebbero agli enti amministrativi.

Questa responsabilità permane in forma grave e assoluta giustifica in pieno gli appunti e le rimostranze che la minoranza conscia di rappresentare interessi vitali della maggioranza della popolazione, ha mosso in sede di discussione.

Un’autostrada che passasse attraverso la provincia nostra da Crema a Cremona sarebbe stata un vero e proprio mezzo di resurrezione della nostra economia provinciale.

La Provincia ne avrebbe risentito gli effetti e si sarebbe posta al livello delle province lombarde più progredite.

Un’autostrada che pur non passando per la nostra provincia, fosse però stata tracciata al limitare di essa avrebbe, se pure in forma minore, fortemente contribuito all’utilità generale di Cremona.

Quest’ultima progettazione fa passare l’autostrada a Mortizza vicino a Piacenza più lontano dalla nostra provincia che non nel penultimo progetto!

Occorrono due raccordi di cui l’uno: quello Pizzighettone-Maleo-Codogno costerebbe agli enti provinciali la bellezza di 300 milioni con una molto relativa utilità per la nostra provincia.

Tanto varrebbe, e sarebbe più utile, con la cifra stessa migliorare la Cremona-Crema e metterci in migliore comunicazione con Milano!

Ma oggi le nostre autorità si ostinano a volere la adesione al Consorzio!

Hanno con ciò la coscienza della loro passata carenza di attività; hanno coscienza che i cremonesi, al momento delle elezioni, se ne ricorderanno.

Se ci avessero pensato prima forse la soluzione sarebbe stata diversa.

Ora la loro ostinazione, in gran parte oltre che determinata dalle citate ragioni di prestigio crollante, é dettata da una precisa presa di posizione che traspare da una lettera del Sig. Casati presidente del Consiglio di Milano, lettera che venne dimenticata nell’incartamento e che venne letta da un consigliere della minoranza.

Nella lettera, che é stata citata in Consiglio, il Casati richiedeva l’adesione della Provincia di Cremona ‘per regioni di equilibrio e di gruppi’.

Cosa si nasconde sotto questa perifrasi?

Nel consorzio, come é logico, sono rappresentate le Province e i Comuni emiliani retti nella stragrande maggioranza da ‘amministrazioni rosse’.

Casati cerca l’equilibrio.

Vale a dire che vuole costituire un gruppo democristiano di Province e Comuni da contrapporre ad un ipotetico gruppo social-comunista.

Dove vanno mai a ficcarsi le preoccupazioni e i segreti intendimenti!

Noi socialisti, veramente, non ci avevamo mai pensato, pensosi, come sempre siamo stati, unicamente degli interessi pubblici!

Ed é stato anche per questo motivo che abbiamo puntato i piedi di fronte alla richiesta improvvisa di adesione col consorzio dopo che erano quasi sfumate le speranze di una soluzione più utile agli interessi della provincia.

La nostra adesione deve essere condizionata:

1) – A un riesame, assicurando la revisione del tracciato che é assolutamente contrario agli interessi provinciali.

2) -  Che nello statuto del Consorzio siano poste clausole tali da impedire al capitale monopolistico, in un secondo tempo, di impadronirsi della gestione del consorzio stesso. Perché anche questo secondo punto deve essere tenuto strettamente presente.

Il collega Panzi, in sede di consiglio ha esaminato, punto per punto, il progetto di statuto.

Se le province emiliane, interessate a che l’autostrada si faccia a tutti i costi, hanno sorvolato su di esso che é di schietta intonazione capitalistica governativa, ciò non costituisce una buona ragione perché i socialisti cremonesi non debbano, apertis verbis, denunciare i pericoli.

La critica del compagno Panzi che, d’altronde, é la critica socialista, verteva oltre che sulla imprecisione dei termini e sulla voluta oscurità della dizione adottata a tutti gli usi e a tutti gli scambietti, sul carattere monopolistico del consorzio e nell’intenzione, a stento mimetizzata, di estendere l’attività ad altra impresa a carattere speculativo.

Tutto ciò, abbiamo detto, ha sollevato le ire dell’Avv. Crivelli difensore ‘cremasco’ di interessi che nulla hanno a che vedere con la provincia.

Comunque sia non sono le grida isteriche o le manovrette o i colpi di maggioranza a mutare la nostra posizione.

Siamo favorevoli a un’autostrada il cui tracciato tenga nel debito conto gli interessi cremonesi e non quelli di futuri ‘Capocottari’ governativi.

Siamo per la nostra provincia così sacrificata in passato, che deve essere valorizzata al suo giusto livello.

Gherardo Patecchio”

Come sia andata a finire ormai si sa.

Cremona fu tagliata fuori dal tracciato della A1, vera, si ripete, dorsale del boom economico.

La Provincia optò, malgré bongré, per la ‘paullese’ di collegamento ordinario tra Cremona e l’area metropolitana, lestamente ribattezza ‘la ghisalbertina’, in omaggio al ruolo svolto dal suo sponsor, il presidente dell’ente.

Concepita e realizzata nell’ottica teorica del detto collegamento, ma ben presto rivelatasi del tutto inadeguata allo scopo, per effetto dei limiti progettuali (imputabili alla parsimonia dell’Avv. Ghisalberti, che, pare, si opponesse tenacemente all’idea di un nastro a doppia carreggiata).

In allegato: mappa del polo universitario nel parco dei conventi  ed edizione dell'Eco del Popolo

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