Venerdì, 26 aprile 2024 - ore 12.09

L’EcoPolitica Dal Congresso Nazionale del PSI un'esortazione a tutta la sinistra italiana

Dal Congresso Nazionale del PSI un'esortazione a tutta la sinistra italiana perché abbia un’anima che la rimetta in piedi. Premessa: la prendiamo (come sempre, sostengono molti dei nostri pochi lettori) un po’ larga. Anche se forte sarebbe l’istinto a colmare, a tentare almeno, il deficit di informazione con cui il sistema mediatico ha registrato l’evento congressuale socialista.

| Scritto da Redazione
L’EcoPolitica  Dal Congresso Nazionale del PSI un'esortazione a tutta la sinistra italiana

L’EcoPolitica  Dal Congresso Nazionale del PSI un'esortazione a tutta la sinistra italiana

Dal Congresso Nazionale del PSI un'esortazione a tutta la sinistra italiana perché abbia un’anima che la rimetta in piedi. Premessa: la prendiamo (come sempre, sostengono molti dei nostri pochi lettori) un po’ larga. Anche se forte sarebbe l’istinto a colmare, a tentare almeno, il deficit di informazione con cui il sistema mediatico ha registrato l’evento congressuale socialista.

Siamo noi i primi a non farne una tragedia. A distanza di un quarto di secolo, quando fu avviato il genocidio di una dottrina politica, del suo gruppo dirigente, del suo bacino di militanti e di elettori, i socialisti pagano ancora oggi le sanzioni accessorie. D’altro lato, se nell’attuale schieramento politico rappresenti un’entità numericamente marginale, ciò che ti spetta in termini di comunicazione è quel niente di menzione telegrafica elargito dal sistema.

Ma così, con pochi mezzi, pochi eletti, quasi nulla tribuna nei mezzi di comunicazione, diviene praticamente impossibile risalire. Non solo e non tanto in termini di espansione elettorale, quanto soprattutto di chances di far quantomeno conoscere il progetto politico del PSI.

Per quanto consapevoli di tutto ciò (che non scoraggia ma che comporta piena aderenza al realismo e ad un tempo a maggiori dosi di idealismo), continuiamo a pensare e ad agire più che per quantità per qualità.

Ed il Congresso Straordinario, svoltosi a Roma nel terzo week end di marzo, ha fornito, a dispetto della ridotta in cui è stato relegato dai media, una performance di idealità e di dedizione. Il cui valore, più che contato, andrebbe pesato dall’opinione pubblica.

Con un entusiastico, beneaugurante “Viva il socialismo umanitario delle libertà" il rieletto segretario Nencini ha fissato il cardine in cui, in una temperie contraddistinta in modo generalizzato da vuoto pneumatico di idee, si situano tanti i rimandi dottrinari quanto la testimonianza ideale e progettuale del posto che, nella politica nazionale ed europea, i socialisti intendono occupare.

Nencini ha proseguito: “Va creata un'alleanza dai popolari democratici al campo progressista; per fare del centro-sinistra un soggetto a vocazione maggioritaria. Dobbiamo tenere assieme gli europeisti della tradizione laica, ambientalista, progressista e radicale.”

Indubbiamente, incide, in tale posizionamento scandito dalle conseguenze del disastro del 4 dicembre, anche la maggiore consapevolezza attorno alla progressione del processo di disgregazione degli assi portanti della tradizione politica.

Si dice che l’Angelo dell’oblio, nella mitologia ebraica, cancella la memoria dei nascituri per indurli poi a riannodarne i fili nel corso della vita.

Quell’angelo dovrebbe agire più che sui socialisti soprattutto ed in modo generalizzato sulla coscienza civile e sulle consapevolezze dei nascituri del campo della sinistra. Di cui i socialisti si sentono a pieno titolo appartenenti e, a dispetto della marginale rappresentanza elettorale, lucidi testimoni. La vitalità della sinistra, di matrice e ispirazione socialista, si misura dalla sua capacità di progettare il futuro, partendo dai bisogni del presente piuttosto che dall’incapacità di regolare i conti del passato. Nella fase storica apertasi dopo il 1989, sono da ricercare le ragioni di una ricomposizione unitaria delle correnti politiche che a quella matrice fanno riferimento, lasciando alle nostre spalle e agli approfondimenti dell’indagine storiografica le divisioni, anche drammatiche, prodottesi nel corso del ‘900.

La crisi, dagli inquietanti aspetti irreversibili, della politica ha prodotto i suoi mostri; tra cui partiti che si limitano ad essere comitati elettorali, privi di  radici nella società e nel territorio e, conseguentemente incapaci di aggregare secondo progetti di società e di fornire, attraverso coerenti filiere selettive, rappresentanza politica ed istituzionale.

La sinistra ha da troppo dimenticato la sua mission: avere idee, compiere delle scelte (puntando alla coesione sociale, ma tutelando prioritariamente i più deboli), organizzare il consenso sui progetti, indicare i processi di crescita comunitaria e di sviluppo, donde scaturiscano indirizzi di giustizia sociale.

Intendiamo essere parte di una sinistra non solo europea ma internazionale dichiaratamente socialista, espressione del mondo del lavoro, capace di interpretare, in termini di trasformazione sociale e di liberazione del lavoro umano, le sfide della globalizzazione, rifiutando ogni riferimento ad un generico e velleitario radicalismo antagonista. Nel confronto che intendiamo aprire non c’è spazio per nostalgie. Occorre adesso capire che il problema della sinistra non sono Renzi ed il suo profilo caratteriale più o meno apprezzabile.

Ecco, la ricostruzione di una nuova politica della sinistra o riparte dalla capacità di riaggregare attorno ad un progetto di trasformazione della società i bacini civili di riferimento e di re-insediamento nei territori e nell’articolazione sociale o sarà velleitaria e destinata a soccombere come avvenne, tragicamente, nel crepuscolo del secolo scorso.

La caduta di Renzi a seguito del referendum del 4 dicembre rappresenta il fallimento dell’ultimo tentativo possibile di dare una soluzione centralista, guidata da un leader forte e determinato alla crisi italiana.

C’é bisogno di aggiungere che il profilo di Renzi costituisce la prima scelta di riferimento e di leadership della nostra lunga marcia di re-impianto di una sinistra sostenibile?

Certo che no! Potevano essere gli eredi della Bolognina. Semmai avesse loro sfiorato la mente l’idea di mettersi alle spalle i rottami del comunismo e di riposizionarsi non già lungo le linee-guida di una socialdemocrazia già di suo in difficoltà a rapportarsi alle conseguenze di cambiamenti suscettibili di revocare le rendite politiche di posizione, la strada più congruente sarebbe stata rappresentata da uno sforzo interpretativo della realtà.

Evidentemente ciò che resta del post-comunismo, rappresentato dai cascami disorientati e disarticolati di una fallita transizione, ha dimostrato tutta la sua incapacità (o determinazione?) a riannodare le fila del pensiero e dell’organizzazione della sinistra sociale e politica attorno ai perni del socialismo liberale.

Per generosità escludiamo qualsiasi dettagliata descrizione dei disastri compiuti in un quarto di secolo da questi eredi che partirono, appunto, dagli snodi, decretati dai poteri forti ed occulti nazionali ed internazionali, della cosiddetta seconda repubblica. Più simili, per l’enorme vantaggio derivato dalla soppressione dei competitors , ad una partita truccata.

Gran parte della sinistra politica negli ultimi 20anni si è dedicata prevalentemente alla bonifica del proprio passato nell’ansia di accreditare la Bolognina come transizione ad un irreversibile ruolo di governo; la sinistra sociale, invece, ha continuato a crogiolarsi nella continuità dell’armamentario teorico-pratico ereditato dai precedenti scenari di sinergia con la sinistra politica quando questa operava in un ruolo di opposizione consociativa.

Riuscirono per un lungo tratto a dilapidare tale vantaggio e, ad un tempo, a vanificare le ragioni di una sinistra moderna e riformista.

Il cardine di quel modo di essere “di sinistra” (che oggi riemerge nelle suggestioni conseguenti all’affannosa ricerca di ancoraggi a seguito del disastro referendario) fu ed è il “tassa e spendi”. Che è ormai diffusamente nelle corde di tutto lo schieramento politico, a prescindere dell’apparente incompatibilità.

C’è bisogno di aggiungere che le maggiori responsabilità ricadono su un sistema socio-economico che ha finanziarizzato l’economia industriale, quasi completamente archiviato l’etica ed il valore del lavoro, allargato la forbice della destinazione delle risorse (il 90% è prerogativa del 10% della popolazione privilegiata)?

Prima di tutto, se si vuole dare una risposta pertinente alla ragione per cui le acuzie sociali hanno trovato audience nel populismo, bisognerebbe rileggersi queste autorevoli riflessioni (del filosofo Jürgen Habermas): “«La globalizzazione economica, messa in moto negli anni Settanta da Washington con la sua agenda politica neoliberista, ha avuto come conseguenza un declino relativo dell'Occidente su scala globale… Le nostre società devono elaborare la percezione di questo declino globale e insieme a ciò la complessità sempre più esplosiva nella nostra vita quotidiana, connessa agli sviluppi tecnologici… Prima di reagire in modo puramente tattico bisogna sciogliere un enigma: come è stato possibile giungere a una situazione nella quale il populismo di destra sottrae alla sinistra i suoi stessi temi? Ci si deve chiedere perché i partiti di sinistra non vogliono porsi alla guida di una lotta decisa contro la disuguaglianza sociale… Si dovrebbero quindi rendere riconoscibili le opposizioni politiche, non¬ché la contrapposizione tra il cosmopolitismo di sinistra – "libe¬ra¬le" in senso culturale – e il tanfo etno-nazionalistico della critica di destra alla globalizzazione.» 

Fin tanto che la sinistra o quel che di essa resta continuerà a pretendere di fornire ricette derivandole dalla lettura di categorie irrimediabilmente archiviate dagli scenari reali, essa non riuscirà mai ad uscire dalla palude.

Gli orizzonti declinano, senza ombra di dubbio e con molta severità, una certezza incontrovertibile: i cardini dell’analisi laburista sono obsoleti e vanno, pena la caduta nella marginalità, aggiornati.

Ed, a meno che ci si voglia rifare alle suggestioni luddiste e/o sovietiche, l’unica risorsa per una sinistra che volesse mantenere la centralità del lavoro e della giustizia sociale resta la capacità di rapportarsi ai cambiamenti in corso.

Che sono, in primis, la forte accelerazione tecnologica con il portato degli automazioni e della robotica e la conseguente riduzione della forza lavoro.  La nuova frontiera dell’economia è prevalentemente impegnata nella produzione di servizi e di beni immateriali. Ciò esclude o riduce enormemente il bisogno di mano d’opera; che come si sa è stata localizzata dove costa meno.

A pelle, siamo portati ad escludere che l’attuale leadership del PD sia perfettamente e completamente  consapevole delle abbozzate problematiche e, soprattutto, del conveniente modo per sormontarle.

Per quanto, nei mille giorni della perfomance di leadership e di premiership, siano avvertibili tracce che conducono all’imperativo di indirizzarsi nella direzione riformista.

Sicurissimamente il flebile apparato teorico del renzismo è pieno di falle, oltre che essere insostenibilmente leggero.

Ma fino qui tutti coloro (della sinistra radicale classica come dei cascami post-comunisti) che hanno contrastato il riformismo del PD dell’epoca renziana ab origine o che appartengono alla recente regressione avviata dalla crisi del renzismo, sono indotti al copia/incolla di quella sorta di populismo di sinistra (come Tsipras, Corbyn, Podemos), che affida la remuntada all’interventismo pubblico, sulla base della leva della redistribuzione della ricchezza originata dall’inasprimento del prelievo sui redditi e sui patrimoni dei più ricchi.

Accompagnata all’altra sciagurata scorciatoia della pensata del cosiddetto “reddito di cittadinanza”, che, oltre che impraticabile, re-precipiterebbe tutto nella teoria sovietica dell’egualitarismo (poco lavoro e paga bassa).

Colpevolmente “la sinistra” italiana scandisce il proprio brand identificativo nel requisito preliminare della protezione sociale. Che ovviamente, se inteso come standard del concetto e del valore della giustizia sociale, è in cima alla gerarchia degli obiettivi programmatici di qualsiasi minimale dottrina socialista.

La protezione sociale, però, è stata fin qui prevalentemente declinata in modo avulso da un principio cui non può non essere correlata: il merito. Le più moderne elaborazioni della cultura socialista, infatti, tendono ad inquadrare le modalità di perseguimento della giustizia sociale all’interno del binomio: merito e bisogno.

Dove tale binomio, per demagogia, per aporia, per negligenza, è stato scisso facendo emergere esclusivamente il mero dovere di protezione (“qualunque lavoratore, anche i pigri, gli incapaci e addirittura i disonesti, andava difesa”), ciò è avvenuto, come hanno recentemente osservato in un editoriale del Corriere i proff. Alesina e Giavazzi, “a scapito della meritocrazia”. Ed, aggiunge chi scrive, della protezione universale del lavoro, di una ripartizione più equa delle risorse prodotte, dell’ascensione sociale dei ceti sfavoriti.

Se è ancora attuale la lezione fordista (C’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti), spetta alla sinistra riformista attuale, erede (ovviamente per le aliquote che si sentono tali) di presentare al tavolo dell’armistizio della finanziarizzazione/globalizzazione un sostenibile progetto. Che tenga insieme le ragioni dell’efficienza del sistema, negli scenari della rivoluzione tecnologica, e quelle della giustizia sociale e del mantenimento dell’etica civile e sociale imperniata sul lavoro.

Non ci si scappa: è la versione del rinnovato socialismo liberale ed umanitario, evocato nell’intervento congressuale di Nencini, che ha come metodo-base il riformismo. Ingrediente assolutamente indispensabile per un’operazione non già di make up (come stanno facendo quelle socialdemocrazie europee che, in vista di appuntamenti elettorali, si affidano a profili poco sfruttati), bensì di radicale riposizionamento progettuale, è la volontà di ispirarsi al metodo riformista.

Può essere che quello di Renzi, per limiti di cultura politica, di ascendenze, di sbruffoneria, sia poca cosa.

Ma, parafrasando Truman, “He may be a son of a bitch, but he's our son of a bitch”.

 La “ripartenza”, dopo i rovesci del voto referendario e dell’elaborazione del lutto e dello stordimento, può avvenire sul terreno non tanto dell’esortazione al solito “calma e gesso” (che, pure, sarebbe già molto tardivo ed inutile), quanto su una consapevolezza ineludibile. La sinistra cosiddetta di governo (anche nella versione non così malconcia del ciclo renziano) ha fornito una performance insoddisfacente della capacità di incidere nel cambiamento, da un lato. Dall’altro, ha quasi completamente fallito nello sforzo di far percepire al Paese la natura e la portata della sua offerta di riformismo.

In ogni caso, al netto delle consistenti claudicanze del florentin de noantri, egli ha portato il PD nella famiglia del socialismo europeo, ha incardinato un percorso (sia pure momentaneamente arrestato dalla sconfitta del 4 dicembre) diretto all’innovazione del sistema istituzionale, ha abbozzato una politica del lavoro all’insegna di una flessibilità assistita da tutele.

Sicuramente: tutto perfettibile! Ma se il socialismo italiano (nelle sue espressioni coerenti con le linee-guida del riformismo degli anni 70-80 del XX secolo) vuole essere parte dello sforzo di una sinistra, animata da volontà di resilienza e da senso di appartenenza plurale, non può che affrontare, come ha fatto il Congresso, la questione sinergica.

Può guardare a quella compagnia di giro che sono i competitors congressuali di Renzi, a quelli che hanno sbattuto la porta e si sono dispersi in tanti rivoli, privi di nobiltà politica ma ricchi di impulsi a mantenere il seggio, o, volendo esagerare, alla nuova sinistra radicale?

Condividiamo quasi per intero la linea del congresso; soprattutto dove ha stabilito di fissare come primo appuntamento per giugno una conferenza programmatica, per dare sostanza al cambio di passo in senso riformista. E per evitare che il Congresso si esaurisca in un fugace discorso destinato ad essere presto avvolto dalla spirale dell’oblio che vent’anni fa archiviò una comunità travolta da un insolito destino politico, mediatico e giudiziario.

Da analisti e simpatizzanti, avanziamo due suggerimenti.

Il primo riguarda l’opportunità difficilmente eludibile di stabilire (anche in relazione alla circostanza dell’essere PSI e PD entrambi membri del PSE) di un organico patto federativo. Che potrebbe, azzardiamo, preludere (per le libere opzioni) alla facoltà di doppia tessera.

Il secondo è di mera opportunità. In rapporto sinergico fin che si vuole col PD, il PSI ha la necessità di dispiegare a piena voce e con sforzo di caratterizzazione la propria testimonianza. Dieci anni fa avevamo recisamente scartato alla Costituente Socialista di Bertinoro l’idea di una confluenza nel PD. Il ruolo subordinato di partner satellitare sfibra il socialismo italiano ed indebolisce il proposito di stimolare il partner maggiore. Ci facciamo qui portatori di un auspicio (più simile ad una richiesta perentoria), oltre che di un’evidenza imposta dal buon senso.

Essere presenti nelle sedi legislative e governative è cosa utile alla causa. Ma se ci devi arrivare col piattino in bocca, capisci che sei una testimonianza a sovranità limitata e, quindi, indistinguibile.

Nencini ha dimostrato di essere un segretario adeguato e rispettato dagli iscritti.

Torni, nella consapevolezza di essere il capo di un movimento piccolo ma significativo (e non più un’accozzaglia di displaced persons ) ad occuparsi a tempo pieno del PSI.

E.V. 

In allegato fotogalley congresso psi cremona e nazionale

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