Venerdì, 17 maggio 2024 - ore 06.16

Capitolo 4 Ricordando PIANOSA e l'ASINARA:

…avevo fame. Ogni giorno lo stomaco occupava i miei pensieri, perché il cibo era poco, scarso e immangiabile, come l’acqua, di cui ce ne davano una bottiglia al giorno, quella del rubinetto non era potabile, era gialla e puzzolente.

| Scritto da Redazione
Capitolo 4  Ricordando PIANOSA e l'ASINARA:

Tutto il contesto era opprimente, persino i colori della cella erano dipinti su ordine del generale dei carabinieri, Dalla Chiesa, negli anni ’70, che dopo essersi consultato con uno specialista dei colori aveva scelto i più deprimenti per fiaccare la resistenza delle Brigate Rosse, che comunque si ribellarono e distrussero la famigerata sezione Fornelli dell’Asinara, all’inizio degli anni ‘80.

Nel luglio del 1992 all’Asinara avevano instaurato, nella sezione Fornelli, il regime di tortura del 41 bis e il trattamento era disumano, soffrivamo la fame, la sete e il freddo, non essendoci riscaldamenti. Non avevamo niente, la sopravvivenza occupava tutta la mia quotidianità.

In certi momenti ci guardavamo e ci dicevamo:

“Un giorno, quando lo racconteremo, non ci crederanno.”

Ricordo di avere letto un libro che gli ebrei nei campi di concentramento avevano gli stessi nostri timori di non essere creduti.

Anni dopo, gli stessi detenuti non ci credevano quando lo raccontavamo.

In America su simili aberrazioni avrebbero fatto tanti  film, come è stato per Alcatraz; in Italia nessun film, perché l’omertà istituzionale è più granitica di quella della criminalità. L’unico film degno di nota che è stato fatto sulle carceri è Detenuti in attesa di giudizio di Alberto Sordi, nel 1970, il resto sono stati filmetti che non rispettavano assolutamente la realtà.

L’occasione per emanare questa mostruosità furono le stragi del 1992-1993, direi le solite stragi di Stato, o per meglio dire, il solito metodo, quello della strategia della tensione. Quella volta avevano solo scelto interlocutori diversi.

Nei primi giorni era così tanto il mal di pancia dopo aver mangiato, che iniziai a nutrirmi di pane e frutta, ma poi dovetti soccombere e vincere la nausea. In seguito apprendemmo che nel nostro cibo ci mettevano ogni tipo di schifezza: detersivi, cibi scaduti, urina e altro.

Un giorno guardando nel piatto di pasta e fagioli vidi numerosi vermi bianchi, non mi decidevo a mangiare, ma la voce del mio coimputato mi arrivò dritta al cervello:

“Mangia che sono proteine, dobbiamo sopravvivere!”

La sua voce, come una sferzata, fece il suo effetto, mangiai tutto il piatto e così continuai tutti i giorni in cui rimasi in quell’inferno, cibandomi di tutto ciò che mi portavano, senza buttare neanche le briciole di pane.

La repressione indiscriminata distrugge ogni cosa e sortisce l’effetto contrario, alimentando un odio contro le istituzioni che passerà alle prossime generazioni. Quando si istituzionalizza la tortura, chi la subisce entra in un meccanismo di mostrificazione, utile a giustificare agli occhi della popolazione il crimine che si sta perpetrando.

Ciò innesca una spirale perversa di rabbia, rancore e odio che coinvolge tutta la cerchia familiare, per cui lo Stato viene identificato come nemico.

I politici, per paura di essere a loro volta inquisiti, facevano a gara a chi era più aguzzino nel proporre norme restrittive. I magistrati giudicanti, ostaggi delle procure, erano diventati dei plotoni d’esecuzione, condannavano alla cieca, tipo liste di proscrizione. La Corte di Cassazione era diventata un ufficio notarile, metteva solo il sigillo alle condanne. Il Paese era in mano alle procure e ai politici che le appoggiavano. Avevano instaurato un clima di paura e insicurezza, legittimando ogni tipo di repressione con la sospensione della democrazia e dei diritti civili nelle carceri, nelle caserme, nei tribunali.

Il regime di tortura del 41 bis azzera i contatti umani, si viene torturati fino a quando si accusano altre persone o si diventa uno zombi, un morto vivente. Per questo motivo in questi reparti si verificano suicidi cinque volte di più rispetto a quanti se se contano per gli altri regimi carcerari. È una tortura democratica elevata a sistema. Forse credono che, essendo democratica, sia meno disumana.

Non avevo mai provato prima una sofferenza così profonda, tanto forte che spesso diventava dolore fisico. Solo di notte, nelle 3 o 4 ore che riuscivo a dormire, trovavo un po’ di sollievo. Spesso pensavo alla morte come fuga dalla sofferenza. Molte volte mi sono ripetuto che non avrei augurato quel mio stato neanche al peggiore nemico. Sono stato molte volte sul punto di lasciarmi andare, di addormentarmi e di non svegliarmi più per potere ritrovare la pace. Morire per non soffrire più.

Non avrei mai creduto che leggere una piccola frase potesse bastare a dare una spinta motivazionale capace di farti superare qualunque ostacolo.

Un giorno un amico mi diede da leggere un libro di Friedrich Nietzsche, Così parlò Zaratustra. Mentre lo leggevo svogliatamente senza riuscire a concentrarmi per la disperazione dei miei pensieri, lessi la frase: I morti hanno sempre torto, e più avanti Il dolore che non ti uccide, ti rende forte, così scattò in me qualcosa, che innescò una reazione profonda che scosse tutti i miei sensi.

Iniziai a fare ginnastica e a leggere. La mente sembrava una locomotiva che andava a tutto vapore e iniziai a vedere di nuovo il mondo a colori. Ci davano un libro ogni 15 giorni ed io presentavo la richiesta anche per altri miei tre compagni di cella, così avevo da leggere quattro libri ogni due settimane. Tutta questa nuova energia mi portò a lottare per i diritti che venivano calpestati e mi scontrai con la Direzione dell’Asinara. Riuscii ad ottenere, attraverso un intervento ministeriale, alcune cose che la repressione ci limitava, come due docce a settimana, comprare una busta di caramella e un chilo di frutta e verdura a settimana, piccole cose ma che in quel momento per noi erano molto.

Me la fecero pagare.

Trascorsi un intero inverno con un paio di scarpe di tela. Non avevo mai sofferto così tanto il freddo ai piedi, ma quando sei determinato in quello che fai, tutte le repressioni le sopporti con stoica pazienza. Tutte queste prove mi rafforzarono il carattere e mi diedero una forza d’animo tale da poter sopportare qualsiasi dolore.

Il potere, oggi come nel passato, cerca di far scivolare nell’oblio le infamie che sono state commesse all’Asinara, a Pianosa, a Poggioreale, a Secondigliano ed in molte altre carceri. Non dobbiamo permettere che questo avvenga, perché, come la storia insegna, ciò che non si corregge si ripete, e storie analoghe in Italia purtroppo si sono spesso ripetute, durante quei periodi di repressione ciclica che si sono abbattuti principalmente sul meridione.

Oggi, anche se sono trascorsi 22 anni, l’infamia della tortura del 41 bis continua, dalle bastonate quotidiane si è passati a metodi più scientifici. Per avere una idea basta rammentare i centri di detenzione psichiatrici sovietici, dove venivano rinchiusi i dissidenti con lo scopo di annullare la loro personalità e annichilire il loro pensiero; questo oggi è il 41 bis.

Quando sento i Savonarola che urlano di riaprire Pianosa e l’Asinara, penso a quanto siano malvagi, anche se ho la consapevolezza che non sanno di cosa parlano. I loro strali servono a mantenere la loro rendita di potere ed i privilegi acquisiti attraverso il loro lavoro di dispensatori di odio, non pensano minimamente che il loro benessere deriva da tanta sofferenza.

A volte penso che se fossi ricco finanzierei un film sul regime di tortura del 41 bis e principalmente sulle due Cayenne italiane, le isole dell’Asinara e Pianosa. Credo che solo così la gente potrebbe in parte vedere l’orrore perpetrato dallo Stato in quei luoghi.

Mai più simili barbarie. Ce lo impongono la nostra civiltà, la nostra appartenenza alla Comunità Europea e i trattati internazionali.

È tempo di colmare questo vuoto di umanità.

Pasquale De Feo, Penitenziario di Catanzaro, settembre 2014  

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