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Italiano: gli errori che forse ci hanno insegnato a scuola

Nel bene o nel male, tutti quanti noi abbiamo un ricordo degli studi di italiano a scuola. Temi, verbi, eccezioni e quel benedetto complemento …

| Scritto da Redazione
Italiano: gli errori che forse ci hanno insegnato a scuola

Nel bene o nel male, tutti quanti noi abbiamo un ricordo degli studi di italiano a scuola. Temi, verbi, eccezioni e quel benedetto complemento di termine che proprio non ci entrava in testa. Nozioni ed etichette che riecheggiano nelle nostre orecchie.

Molto bene. E se oggi vi dicessimo che alcune di quelle informazioni sono non solo estremamente datate, ma in alcuni casi addirittura inesatte? E nonostante trasmettano convinzioni sbagliate, almeno secondo la linguistica moderna, sopravvivono nelle nostre classi. Per fare un paragone esagerato è come se l’insegnante di scienze continuasse a dire che la Terra è piatta.

Non vogliamo assolutamente insinuare che l’insegnamento tradizionale dell’italiano e della sua grammatica sia da gettare alle ortiche; anzi, il suo contributo nel formare le nostre competenze linguistiche, soprattutto scritte, è prezioso e imprescindibile. Tuttavia alcune definizioni, alcuni punti di vista dovrebbero essere rinfrescati. E nel far ciò, quale migliore alleato della linguistica moderna, cioè lo studio scientifico del linguaggio? Vediamo insieme qualche esempio pratico.

Prima lo scritto o il parlato?

Abbiamo condotto una piccolissima indagine chiedendo se in una lingua nasca prima la forma scritta o la forma parlata di una lingua. Il tempo per rispondere era di pochissimi secondi, perché volevamo capire quale fosse la risposta di istinto. Il risultato? La metà ha detto la forma scritta.

Non c’è da stupirsi: per anni sui banchi di scuola ci hanno bombardato di input sull’importanza della scrittura. Ancora per la mia generazione, quella dei millennials, a scuola lo status dello scritto era di gran lunga superiore a quello del parlato. Un’impostazione che si rifletteva anche nell’insegnamento delle lingue straniere di cui, con il solo percorso scolastico, arriviamo a conoscere in modo approfondito la grammatica, ma ignoriamo in larga parte l’uso corrente. To drink, drank, drunk: studiamo a memoria decine di verbi irregolari e poi non riusciamo a ordinare da bere al bar.

Certo il prestigio della lingua scritta è stato per secoli inscalfibile e non solo per quanto riguarda l’italiano. Tuttavia, tutti dovremmo avere una consapevolezza fondamentale che a scuola si dimenticano spesso di sottolineare: una lingua, prima di essere scritta, è sempre parlata. Un percorso che non caratterizza solo la storia dei sistemi linguistici (dell’italiano, del polacco, del coreano, etc.), ma anche la nostra personale. Prima impariamo a parlare, poi – chi più, chi meno – a scrivere.

Il caso delle doppie che in parte non esistono

“Patto si scrive con due t”, “Dai, prova a ripetere con me: pat-to”, “Per andare a capo, se non hai più spazio, spezza la parola dove ci sono le doppie: la prima resta sulla riga di sopra, il resto della parola a capo”. Vi ricorda nulla? Frasi del genere si sentivano quasi ogni giorno alle elementari.

Queste doppie benedette ci facevamo impazzire, ma mai nessuno ci ha detto che in realtà a livello di suono di fatto non esistono. Fateci caso: vi sembra che dicendo gattosaccomatto ripetiate la consonante due volte? Non dite affatto gat-to: no, semmai quella t è più intensa, più marcata come suono; solo nella scrittura si ha una doppia lettera per segnalare questa particolarità del suono anche graficamente. Un esempio che evidenzia ulteriormente quanto l’aspetto fondamentale della forma parlata dell’italiano venga “snobbato” a scuola.

La differenza fra un nome e un verbo

Un altro evergreen della nostra giovinezza scolastica, le famose tre analisi grammaticale, logica e del periodo, risentono di definizioni ormai superate, il più delle volte basate sul significato invece che su caratteristiche formali.

Un esempio riguarda la distinzione fra nomi e verbi. “A scuola ci hanno sempre insegnato che il nome indica una persona o un oggetto, mentre il verbo un’azione”, ci ricorda Giorgio Graffi, uno dei più noti linguisti italiani, autore insieme ad Adriano Colombo di Capire la grammatica. Il contributo della linguistica (Carocci). Ecco, sembra non faccia una piega. Eppure, con il nome corsa, per esempio, questa classificazione entra in crisi. “Queste sono definizioni semantiche, cioè basate sul significato. Per quanto riguarda l’italiano sarebbe più opportuno, invece, dire che i nomi presentano un genere e un numero”. Già, il famoso maschile/femminile e singolare/plurale. “Questo si può spiegare anche a un bambino di prima elementare specificando che non è una caratteristica dei verbi”; questa categoria, infatti, è interessata da altre caratteristiche, fra cui la coniugazione del tempo e del modo che non riguarda nessun altro elemento linguistico.

Qual è il soggetto di una frase?

È uno dei primi esercizi dell’analisi logica. “Ci hanno insegnato che il soggetto è colui che svolge l’azione espressa dal predicato”. Sì, lo abbiamo mandato a memoria e ne siamo stati orgogliosi. Poi scappa fuori il verbo subire, e tutto l’orgoglio svanisce. Già, perché in una frase come Luca ha subito un torto è ben difficile sostenere ragionevolmente che Luca abbia svolto l’azione subire. C’è proprio un paradosso che non convince.

Il professor Graffi ci racconta della difficoltà di alcuni studenti universitari – notate bene: del corso di laurea in Lettere – nell’individuare il soggetto di una frase; una confusione dovuta anche alla diffusa convinzione errata che in genere il soggetto sia il primo elemento della frase (che invece è il cosiddetto topic della frase, cioè quell’elemento su cui si dice qualcosa). Ma il soggetto non è sempre ciò di cui si parla in una frase e lo dimostra facilmente l’esempio: “A Lorenzo piacciono i fiori”, in cui si parla sì di Lorenzo, che però è il complemento di termine (sì, quello che non ci entrava in testa!).

Come uscire da queste difficoltà? In termini un po’ approssimativi, ma sostanzialmente esatti, definendo il soggetto come “il nome che si accorda obbligatoriamente con il verbo in persona e in numero”.

 

 

 

fonte Michele Razzetti, Wired cc by nc nd)

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