Mercoledì, 01 maggio 2024 - ore 03.23

L’Eco Recitarcantando a Cremona Solo nostalgia?

Cadrà, tra poche settimane, il quarantesimo del debutto di Recitarcantando, la rassegna di spettacoli en plen air, con cui la Provincia, nel settembre del 1976, avrebbe inaugurato, all’insegna di una forte volontà di discontinuità, la propria presenza nel campo delle politiche culturali.

| Scritto da Redazione
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Vabbé, fu qualcosa di più di questa definizione, necessariamente ristretta. Quarant’anni sono trascorsi e, come un fiume carsico, quell’esperienza, di tanto in tanto, riappariva e riappare nella cronaca, in certi paragoni non sempre azzeccati con il dopo, negli auspici quando non nella pretesa di riproporla. Talvolta tel quel, tal’altra sotto mentite spoglie.

Checché se ne pensi, quel format era destinato a restare nella memoria e nelle consapevolezze dei contemporanei e di coloro che sarebbero venuti dopo (fatto che, pare, non impedisce affatto di riconoscervisi).

In ogni caso, come per tutti i fenomeni destinati ad imporsi nella percezione e nella condivisione popolare, era ed é giusto che l’anniversario non fosse trascurato.

In tal senso, va reso merito alla guardia sempre alta riservata alla memoria, al supporto storiografico, alla divulgazione, da parte dell’Archivio di Stato, della sua direttrice, Angela Bellardi, e dello staff, se la rievocazione è approdata a qualcosa di concreto. Che costituirà nel tempo materia e spunti di approfondimento e confronto.

La commendevole istituzione, che, da tempo, si distingue, oltre che per il tradizionale compito di deposito e conservazione dei documenti di rilevanza storica, anche come volano per la ricerca storica e per la diffusione del sapere, non si è fatta sfuggire, in partnership con l’Associazione Culturale Porte Aperte Festival, l’opportunità di far riemergere un fenomeno destinato ad incrociare gli slanci socializzanti di massa, dell’epoca.

Un ricercatore, Emanuele Tira, uno dei tanti giovani entusiasti che col loro volontariato colto rendono, insieme con i sempre sotto-organico operatori fissi, particolarmente performante la testimonianza culturale dell’Archivio, ha catalogato ed ordinato la sterminata massa documentale, relativa a quei dieci anni di eventi.

Solo chi è aduso a maneggiare le “carte” può sapere della mole di lavoro che la ricerca ha comportato.

E che ha rappresentato lo step preliminare per la rivisitazione organica della rassegna; affrontata, con una visione compiuta e con uno sforzo indipendente, dal critico teatrale  del quotidiano La Provincia, Nicola Arrigoni.

Tutto ciò è stato anche alla base della esposizione dei più significativi materiali selezionati (11 Teche, più di 200 immagini e programmi afferenti agli eventi dei dieci anni di rassegna) e della brochure intitolata “E in principio…fu Recitarcantando – un territorio in scena”. In cui, con l’ausilio di immagini fotografiche di grande valore didascalico, Nicola Arrigoni ha ricostruito e ne ha fatto una dettagliata cronistoria.

Siccome non vogliamo in alcun modo sovrapporci all’interessante testo, che resta disponibile presso la sala dell’Archivio per tutta la durata della mostra (inizio luglio), ci limiteremo a riportarne un’estrema sintesi.

Come ricorda Arrigoni, l’abbrivio di quel progetto interventistico delle istituzioni locali in campo culturale ed artistico è rappresentato da una sorta di numero zero; che fu nel 1975 la rassegna intitolata “Si va per cominciare”. Affidata a due giovani cremaschi, allora dilettanti (nel senso di operatori non professionalizzati), Angelo Dossena e Gregorio Sangiovanni; a quel tempo, molto giovani e molto attratti, appunto, da eventi e performances artistiche e musicali. Molti avrebbero potuto fare come Dossena e Sangiovanni, trasitando dalla condizione di appassionati a quella di “operatori culturali” (una professione, allora, in fase di decollo nella categoria dei nuovi lavori intellettuali). Soltanto che loro avevano messo a punto il format giusto; sul piano della fattibilità e, soprattutto, di un certo incrocio con il sentire comunitario e con le aspettative di almeno una parte del ceto politico-istituzionale locale.

Dire, come sostiene Arrigoni, che la manifestazione, esordita sul territorio provinciale nel 1976 e durata per dieci anni, fu commissionata dal neo-sindaco di Crema e dal neo-presidente della Provincia “per festeggiare la vittoria politica (ndr, delle sinistre)” sarebbe, senza offesa alcuna, azzardato. Ne vedremo il perché, nel prosieguo; quando procederemo all’anatomia delle premesse e degli sviluppi di quell’idea di socializzazione e di fruizione culturale ed artistica. Che, al di là della sua, se non evidente, prevedibile transitorietà, era destinata ad incidere nelle prospettive. Sia della messa a punto di una risposta pubblica alla crescente domanda popolare di eventi, potenzialmente socializzanti e acculturanti (che ne avrebbe costituto, almeno apparentemente, il core-businnes),  sia della rimodulazione generale del modo d’essere delle istituzionali locali, rispetto ai fermenti di discontinuità presenti in quel contesto.

Se si guarda il dito, indubbiamente, il nocciolo prevalentemente percepibile è rappresentato da decine di spettacoli, sparsi sul territorio (di “elevato contenuto artistico”, come pretendevano gli animatori) e, va riconosciuto, particolarmente apprezzati dai fruitori. Sia perché erano decentrati sul territorio, sia perché di buon livello, sia, ancor di più, perché assolutamente gratuiti.

Se si guarda, invece ed opportunamente, alla luna, allora il ragionamento appare meno banale.

E non può (paradossalmente) che partire dai titoli di coda dell’apprezzabile excursus del giornalista Arrigoni.

Là dove, affrontando l’epilogo e l’eredità della tutto sommato longeva (per quanto lo può essere un progetto per l’effimero) rassegna, acutamente parla di “crisi ideologica”.

Soltanto che quella crisi ideologica (effettiva!) non era segnalatrice delle criticità della fase finale; bensì era stata ben presente nell’abbrivio ed, addirittura, nelle premesse.

Azzardiamo che Recitarcando dimostrò una rilevante capacità di catalizzare inediti consensi di massa; favoriti dalle condizioni dell’offerta, ma anche dall’evidente capacità di sintonizzarsi, in materia di rapporto tra cultura e masse, con lo zeit-geist di quella temperie. Che postulava il soddisfacimento di una sorta di bisogno collettivo di “eventi”

Un bisogno, indubbiamente, ben presente anche se su un terreno contrapposto di condivisione/strumentalizzazione o di rigetto, nella politica. Intesa come cultura civile, come testimonianza militante, come gestione istituzionale.

Al di là degli orpelli, che ne denegavano o ne mimetizzavano la vera natura, il nucleo di Recitarcantando fu, infatti, prevalentemente politico.

Politico come forte interferenza ideologica e come significativo portato nella vita istituzionale.

L’asse del format, se avesse voluto veramente porsi in un’ottica progettuale, avrebbe necessariamente dovuto partire da presupposti non partisan. Per quanto non sempre manifestamente apparisse, fu (almeno nei presupposti) divisivo. Al di là, si ripete fino alla noia, dei consensi di massa (assolutamente privi di velleità interpretative del nucleo politico). E con quell’offerta di fruizione comunitaria sembrò che il popolo degli eventi avesse trovato il pentagramma ideale su cui esprimere l’impulso a relazionare e a crescere culturalmente (d’altro lato, si cantava, allora, molto- con Patty Smith - People have the power). Di ciò erano ben consapevoli settori, ragguardevoli e trainanti, di quella sinistra che, approdando un po’ rocambolescamente a responsabilità gestionali, non era intenzionata a rinunciare a segnali paradigmatici di discontinuità.

Soprattutto, non verrà mai meno, neppure per un attimo, la cifra del collateralismo strumentale a determinate visioni e mire politiche; che non restavano del tutto prerogativa di tutte le componenti della sinistra (in cui si era stabilmente situato).

Il livello istituzionale di riferimento, per quanto la rassegna ne coinvolse sinergicamente altri, fu quella Provincia, che oggi non c’è più. E che già allora, però, era alle prese con criticità di identificazione istituzionale e di mission politico-gestionale.

“Conquistarsi il proprio ruolo sul campo”, affermò nell’incipit del rendiconto del quinquennio amministrativo arrivato al traguardo nella tarda primavera del 1975, il Presidente uscente, dott. Martino Manfredi, succeduto solo cinque anni prima allo storico e, soprattutto, duraturo Giuseppe Ghisalberti.

Nel giugno, ormai vicino, di quell’anno ci sarebbe stato ciò che oggi chiameremmo election day; con cui la stragrande parte dei Comuni del territorio e la Provincia sarebbero andati alle urne per il rinnovo degli organi elettivi.

La decade degli anni 70 costituisce una temperie di forte instabilità politica a livello nazionale. Il ciclo del centro-sinistra, caratterizzato dall’incontro tra socialisti e cattolici, pur avendo dato il meglio di sé nella precedente coi governi Moro-Nenni capaci di esprimere un ineguagliato picco riformatore, era stato da tempo protestato dai contraenti dell’alleanza storica. Da un lato, la DC aveva inequivocabilmente circoscritto, addirittura ricorrendo al ricatto del Piano eversivo “Solo”, il perimetro delle riforme “sostenibili”, a meno del minimo sindacale. Perimetro che, per quella limitatezza programmatica, tendeva ad includere l’alleanza quadripartita DC-laico-socialisti nel segno della continuità ministerialistica della “balena bianca”. Dall’altro, i socialisti, che, per mantener fede alla scommessa riformatrice di quell’incontro storico, avevano pagato lo scotto di una scissione nel gennaio 1964, di una miniscissione nel 1965 e, dopo la riunificazione riparatrice con Saragat del 1966, di un’ulteriore divisione nell’estate del 1970, mostravano di non voler più essere “l’erba del vicino” o “l’albero da far scuotere dal PCI raccoglitore dei frutti seminati da altri”.

Nel Congresso di Genova del 1792 il PSI avrebbe scandito il binomio “mai più al governo senza i comunisti/equilibri più avanzati”.

Ciò avrebbe determinato, nell’immediato, assetti parlamentari più precari e governi non autosufficienti e temporanei.

Nel 1970, aveva visto la luce, tardivamente e non troppo linearmente, l’istituto regionale. L’esordio della Regione, almeno in quella congiuntura e per quanto si riferisce all’emisfero settentrionale dello “stivale”, mostrò, per qualche tempo, di voler restare aderente e coerente con il miglior slancio progettuale. Che aveva costituito la base del centro-sinistra, permeato da apporti teorici purtroppo destinati a rimanere ineguagliati nel tempo.

Il PCI, dalla fine degli anni cinquanta, aveva cinto d’assedio la riconquistata autonomia dei socialisti, che era stata propedeutica alla collaborazione governativa tra DC e PSI. E non aveva mai cessato di incalzare, con una campagna fatta di massimalismo e di delegittimazione, i socialisti. Tale tattica avrebbe contribuito alla precarizzazione degli equilibri e, soprattutto, al proprio rafforzamento elettorale.

Tanto per dire, a quell’epoca funzionava ancora (e non sempre male) la programmazione economica; i cui perni fondavano nella cultura della razionalizzazione del sistema socio-economico, della spinta equitativa a beneficio dei ceti sfavoriti, del decentramento territoriale dell’azione istituzionale.

Era alle viste, dopo le riforme del diritto scolastico, degli ospedali, del sistema previdenziale, della legislazione del lavoro, un profondo sforzo innovativo nel campo della sanità.

Soprattutto, dopo l’avvento dell’istituto regionale, la loro attuazione avrebbe guardato espressamente ed intensamente ad un processo di  decentramento sul territorio.

La posizione di testa di tale, almeno nelle intenzioni dei riformisti, stagione modernizzatrice, fu occupata da alcune regioni del nord; governate sia dalla tradizionale alleanza di sinistra sia, come nel caso della Lombardia in cui le correnti della sinistra cattolica non avevano ancora smobilitato, dal permanere dell’alleanza DC-PSI-laici.

Il summentovato election-day aveva decretato, da un lato, un forte ridimensionamento della cosiddetta Balena Bianca e, dall’altro, una quasi marcia trionfale per le sinistre e, soprattutto, per il PCI.

In coincidenza con l’avvio del centro-sinistra organico, la DC aveva preteso, con gli alleati di avere le mani libere per sé (la reversibilità della formula governativa) e le mani legate (l’uniformità delle alleanze dal centro alla periferia) per gli alleati laico-socialisti.

I socialisti avevano assecondato tale pretesa solo nelle realtà in cui la sinistra non aveva i numeri per amministrare localmente o gli equilibri erano talmente precari da non consentire la governabilità.

Nelle restanti realtà delle tradizionali “zone rosse” le alleanze restarono rosse. Per almeno due motivi. Da un lato, i livelli di base dell’organizzazione socialista esprimevano un forte rifiuto a metabolizzare localmente l’alleanza con un partner, che a Roma dieci anni prima, per arginare la spinta riformista, aveva mosso De Lorenzo ed il Sifar e localmente aveva sempre rappresentato interessi conservatori.

Il rapporto preferenziale a sinistra non era stato sempre un cena di gala; ma l’intesa di fondo era favorita sia dalla medesima rappresentanza sociale sia da un forte impulso modernizzatore.

Tornando all’assunto con cui il presidente Manfredi si apprestava a chiudere cinque anni di consiliatura e (auspicabilmente, per se e la DC) ad aprirne un successivo all’insegna della continuità dell’alleanza, va doverosamente precisato che quei primi cinque anni di presidenza erano stati ispirati da un discreto livello performante di gestione e da una innegabile cifra riformista.

Restava in tutta la sua evidenza una falla, cospicua e potenzialmente produttrice di conseguenze frenanti sull’azione amministrativa: la lacerazione interna della DC, territoriale e politica.

Una palla al piede che il PCI aveva cospicuamente strumentalizzato e che il PSI, stretto tra il ruolo gestionale e la necessità di fronteggiare l’opposizione di sinistra, non riteneva più sostenibile.

Alla base c’era questo motivo precipuamente politico; ma, soprattutto, c’era la consapevolezza del rilievo degli incombenti incardinati dalla spinta del decentramento , come abbiamo appena visto, indotto dal processo di regionalizzazione della periferia amministrativa.

Che poco del passato avrebbe immaginabilmente lasciato intatto.

La Provincia fin lì era stata, per rigidità sia delle attribuzioni sia della dotazione finanziaria per di più ancora vincolata ed articolata tra spese d’istituto e spese facoltative, un ente intermedio con aspirazioni di raccordo territoriale ma, soprattutto, di impronta tematica (manicomio, igiene e profilassi di secondo livello, viabilità periferica, edilizia scolastica di secondo livello, medicina psichiatrica, caccia e pesca).

Pur con dotazioni finanziarie limitate e nonostante i vincoli di destinazione rigida ed i controlli sovrastanti, la Provincia di Cremona aveva operato, rispetto ai compiti d’istituto, con una certa maestria ed intraprendenza.

Poiché ciò non sempre comportava spesa, l’ultima giunta Ghisalberti, frutto della collaborazione tra DC e PSI, e, soprattutto, quella successiva guidata da Martino Manfredi, avevano dimostrato di orientarsi al nuovo, rappresentato dall’aggancio alla cultura del riformismo innovatore.

Non sempre era stato così. In quanto per oltre vent’anni le giunte Ghisalberti erano state paralizzate sia dal karma della lesina sia da assurdi suicidi. Come furono una certa neghittosità a far passare il tracciato della A1 sulla fascia territoriale cremonese confinante col Lodigiano, il taglio inopinato dei trasporti provinciali, la rinuncia alla facoltà di agraria.

L’orizzonte degli investimenti per il sapere iniziavano e finivano con una discreta rete di sedi scolastiche ben decentrate sul territorio e perfettamente efficienti e, con l’avvento delle funzioni esecutive delegate dalla Regione, con qualche spicciolo per l’assistenza scolastica, le biblioteche, la formazione professionale.

La voce cultura fin lì non aveva minimamente figurato nei compiti d’istituto, era in qualche misura impedita dall’obbligo di ricorso alle condizioni stabilite per le spese “facoltative”, non disponeva quindi di fondi, che non fossero le prime elargizioni regionali (per il sistema bibliotecario e per gli itinerari d’arte).

Nonostante tali limitazioni, da Ghisalberti a Manfredi, la Provincia aveva trovato, nelle pieghe delle attribuzioni istituzionali e dei bilanci, risorse per il sostegno, unitamente al Comune Capoluogo ed alla CCIAA, di importanti presidi artistico-culturali (come il Ponchielli, all’epoca istituito in “condominio”).

Quanto scritto si evince dal rendiconto del Quinquennio 1970-75; in cui era manifestamente presente, anche nell’assunto di Manfredi, la consapevolezza di dover, per l’immediato futuro, “conquistarsi il proprio ruolo sul campo”. Per ciò intendendosi il rafforzamento, da un lato, delle prerogative di ente di raccordo e di rappresentanza territoriale nei rapporti con la Regione e, dall’altro, l’incremento delle funzioni.

Soprattutto, nei campi da cui fino a lì la Provincia era stata (o si era) esclusa.

La nuova Giunta di sinistra, insediata all’inizio dell’agosto 1975 (dopo che giunte di sinistra avevano preso corpo a Cremona, Crema, Pizzighettone e nella stragrande maggioranza del medio-piccoli Comuni) e guidata da Franco Dolci, si mostrò decisamente consapevole dell’obbligo di corrispondere sia al prevalente connotato di rinnovamento interpretato dal senso di quella tornata elettiva sia alle suggestioni, presenti in vaste fasce di popolazione ed in particolare in quelle giovanili e femminili, inclinanti a spinte liberatorie ed autogestionarie.

L’”autunno” caldo ed il ’68 avevano abortito ed ancora non si sapeva dove avrebbe condotto la stagione della tensione e delle spinte eversive.

Vero è che quelle inedite alleanze locali nel segno del rinnovamento dimostravano di aver consapevolezza del loro ruolo di accompagnamento verso una stagione di riforme e di inclusione delle masse in un profondo processo di emancipazione e di liberazione.

In cui la diffusione della cultura non avrebbe non potuto avere un ruolo importante. Ma ciò non era esattamente una acquisizione originale, considerato che le sue radici affondavano negli albori del socialismo ed i suoi rami si erano allungati su tutto l’arco quasi centenario della sinistra italiana ed europea.

Negli “Indirizzi programmatici della Giunta Provinciale”, presentati nella seduta d’esordio dell’11 agosto 1975, la Giunta, presieduta da Franco Dolci e rimasta per tutto il mandato priva di autosufficienza numerica in Consiglio Provinciale, mostrava di aver chiara consapevolezza di quanto appena lumeggiato. Là dove, nel Capitolo “Iniziative Culturali”, osservava: “E’ questo un settore molto importante, spesso trascurato nel passato, in cui l’Amministrazione Provinciale si ripromette, per quanto di sua competenza, di intervenire decisamente”.

Si sottolinea, agli effetti di quanto si verrà tra poco ad approfondire, l’affermazione (per alcuni versi ossimorica) imperniata sulle effettive e riconosciute competenze e sulla natura dell’intervento deciso.

Nello stesso capitolo, si indicava, a titolo semplificativo, qualche campo applicativo di tale volontà di intervento: “Occorre dire che già due iniziative, una patrocinata anche dall’Amministrazione Provinciale, l’altra sostenuta con un modesto contributo finanziario (Si va per cominciare) hanno conseguito, soprattutto la seconda, un notevole livello artistico complessivo, riscuotendo un meritato successo di partecipazione popolare. In questa direzione si deve continuare, programmando iniziative di vario genere, non solo spettacoli, ma mostre itineranti, dibattiti e cineforum in collaborazione con le biblioteche e centri culturali, ricerca continua delle tradizioni popolari della terra cremonese, convinti come siamo che solo lo studio del passato spiega ed illumina il nostro presente” .

La sintassi, al culmine dell’entusiasmo, non appariva ineccepibile; ma il senso non era equivocabile.

La discussione sul programma, avvenuta nel corso delle sedute del 13 e 20 ottobre e 10 ed 11 novembre di quel 1975, non aveva collocato nella centralità del programma il settore culturale; limitandosi a fornire più di uno spunto di importanza.

Il Consigliere Vittorino Gazza, che più tardi sarebbe stato Sindaco di Soresina e che fu per una lunga vita un apprezzato intellettuale ed educatore, calò nella discussione elementi di rara profondità: “E’ necessario adoperarsi perché ciascuno prenda coscienza tanto del suo diritto alla cultura, quanto del suo dovere di coltivarsi, in quanto la cultura è prima una realtà personale che diventa poi espressione sociale nel momento in cui estrinsecandosi richiede collaborazione e crea costume civile. Sono da evitarsi, perciò, le formulazioni di carattere estetizzanti come le concezioni attivistiche della cultura. E’ da combattere la tendenza a concepire la cultura in senso aristocratico o in senso populistico, come se fosse la riserva di un’élite o dovesse attuarsi in un democraticismo del tutto superficiale. D’altra parte la cultura deve proporsi un alto fine morale e sociale: non è dilettantismo, non è moda, non è soltanto il folclore acritico e manieristico… L’uomo culturalmente impegnato non può accettare il privilegio élitario, né può configurare a se stesso la cultura come serbatoio di pezzi di ricambio per strumentalizzarla e costruirsi un potere dittatoriale. L’operatore culturale deve comprendere il potenziale enorme di cui dispone la cultura quando si applica al contesto sociale per un fine di profonda riorganizzazione. Ma la cultura è anche metodo ed il metodo conduce ad unità organica tutte le esperienze acquisite dall’uomo e diventa virtù civica, integrazione della comunità, attiva partecipazione sociale ed un mezzo adatto a governare con giustizia”.

Quell’intervento introduceva in quel dibattito e nel prosieguo un tema potenzialmente nodale per la discontinuità nell’azione amministrativa di un’istituzione, che fino a quel momento, l’aveva marginalizzato.

La gerarchia della priorità, scandita dalla centralità del contrasto politico o fors’anche da una certa diffusa impreparazione, stranamente ne avrebbe fatto prerogativa di confronto solo per il vicepresidente e l’assessore competente. E, bisognerebbe doverosamente aggiungere, per il Presidente Dolci. Là dove, con una dichiarazione non particolarmente mirata, sostenne: “La cultura ci deve aiutare a passare quotidianamente di verità in verità in un travagliato, seppur affascinante affermarsi del nostro essere soggettivo e del nostro collettivo espresso dalle istituzioni politiche, economiche, sociali, istituzionali, religiose. Sta nell’avere coscienza di questo relativismo che possiamo vivere gli stimoli esaltanti della ricerca e dell’impegno quotidiano!”

 Più circostanziato il suo vice, Fiorino Bellisario, non avrebbe fatto cadere la sollecitazione presente nel contributo di Gazza. Con l’aria di chi parlava a nuora (alias il consigliere Gazza) perché suocera (l’alleato PCI) intendesse, scandì: “Comprendo ed apprezzo le tendenze ideali che vengono dalle parole del prof. Gazza che portano a vedere la cultura valida prima di tutto per l’uomo e poi per le masse e che la indirizza come realtà personale. A me pare evidente l’esigenza di incoraggiare, sollecitare quelle forme di attività culturali che si possono sviluppare nell’ambito del gruppo sociale al quale l’uomo appartiene. E’ questo il senso del riferimento alla ricerca delle tradizioni popolari. Lo Stato incoraggia forme di attività culturali a produzione centralizzata. E’ necessario che gli Enti Locali facciano altrettanto sulla base di iniziative che si sviluppino a livello periferico”.

A prendere il proverbiale toro per le corna nel confronto con l’esponente dell’opposizione democristiana sarebbe stato (a futura memoria!) l’assessore alla Pubblica Istruzione, Formazione Professionale, Cultura, prof. Giuseppe Gargioni: “Sgomberiamo anzitutto il campo da alcuni equivoci. Socializzazione della verità significa diffusione critica. Siamo ben lontani dall’impostazione pragmatistica. Per noi si tratta di offrire al più largo numero di cremonesi la possibilità di accedere ai valori culturali, di riceverli e di farli propri criticamente, nel più ampio confronto democratico… Lo sviluppo capitalistico della società, se da un lato ha prodotto verità, scienza, valori morali e sociali, dall’altro questi valori sono andati e vanno soggetti ad una profonda distorsione. E’ necessaria una profonda riorganizzazione della società, così come si impone una trasmutazione dei valori. Desidero, ora, sottoporre alla meditazione storico-culturale del prof. Gazza alcuni nodi che riteniamo di fondo: il rapporto tra condizione materiale dell’uomo ed il suo modo di pensare; la distinzione tra oggettivo e soggettivo, tra ciò che l’uomo pensa di essere e ciò che egli rappresenta nel contesto e nella dinamica sociale. L’impressione che se ne ricava, leggendo il suo intervento, sul valore della cultura, sulle esigenze della sua diffusione, è che l’impegno civile riguarda solo la cultura fine a se stessa e che la saggezza sia equilibrio interiore più che esigenza dei problemi reali… Considerando le esigenze venute avanti in questi anni, crediamo di assumere come asse di una battaglia culturale ed ideale l’affermazione di una nuova concezione positiva dei problemi dello sviluppo e del progresso, contro ogni forma di mistificazione e contro ogni forma di svuotamento. Le grandi questioni nazionali devono occupare quindi un posto centrale nella formazione culturale assieme a tutta la tematica inerente ai rapporti interpersonali. Si tratta di far comunicare insieme l’individuale ed il pubblico, la cultura e la politica in una prospettiva non retorica ma reale”

Non sempre il linguaggio è scorrevole e chiaro, non sempre i concetti espressi appaiono congrui alle idee-guida; ma indubbiamente l’appena eletto assessore alla cultura aveva collocato nei suoi propositi determinazioni e progetti scaturenti da una visione, per alcuni non condivisibile ma sicuramente strutturata e decisa. Confliggeva significativamente con le riflessioni del prof. Gazza e non collimava esattamente con quella del vice-presidente socialista della Giunta (forse anche con la maggioranza degli appartenenti al gruppo consiliare comunista).

Ma sarebbe stata quella visione ad ispirare il cambio di passo rispetto alla tradizione ed a guidare gli snodi conseguenti sul terreno operativo.

Nella primavera successiva, in occasione della discussione del Bilancio Preventivo, il competente Assessore avrebbe introdotto ulteriori discontinuità di non poco conto e manifestamente propedeutiche, all’impostazione di guide operative e ad organigrammi d’azione. Il prof. Gargioni, quasi marcando, afferma “La Regione e tutte le forze democratiche hanno affermato il principio secondo cui gli Enti Locali non devono delegare alle istituzioni culturali il decentramento, ma devono gestire direttamente anche questo servizio, avvalendosi ovviamente dell’apporto specialistico di questa o quella istituzione culturale, di questo o quel teatro…Nei momenti di grave tensione sociale, quando è in pericolo lo stesso quadro democratico, più che mai deve essere sollecitata l’intelligenza di tutti, deve crescere la capacità di capire la realtà per trovare le linee direttrici di uno sviluppo positivo. Il nostro impegno è di sollecitare, stimolare gli Enti locali affinché promuovano un sempre più vasto e aperto dibattito intorno ai problemi della società dell’uomo”

Non v’è chi non veda in tali affermazioni una non equivocabile volontà di approdo alla sistemazione teorico/pratica di un progetto interventistico-dirigistico, con cui l’istituzione tendeva ad investire nelle politiche culturali e della relativa gestione.

Ancora una volta, sarebbe sceso in campo il prof. Gazza che, con l’abituale compostezza sostenuta da principi difficilmente eludibili, affermava: “Le sale di lettura sono sale di dibattiti, di conferenze, di confronti e la biblioteca palestra di democrazia, questo è vero, e che la diffusione della cultura imponga il rispetto del pluralismo è pure fondamento della democrazia. Il problema nasce quando, messo in moto il sistema, si esige un minimo di garanzia perché questo rispetto del pluralismo ci sia effettivamente”.

Un altro esponente della politica, della scuola e della cultura, il prof. Giancarlo Corada, avrebbe, nella medesima occasione, sostenuto il prevalente punto di vista dell’assessore comunista: “Si può parlare forse della riforma che ha di mira la costruzione nel nostro Paese di una cultura nuova, al di là di queste tradizionali divisioni tra intellettuali e masse, tra scuola e società, tra studio e lavoro, fra tradizione umanistica e cultura scientifica, si può fare questo discorso isolatamente rispetto ad un contesto più ampio… Il decentramento teatrale e musicale deve essere affidato ad apposite Consulte provinciali per la Cultura”

Forse temendo di non essere stati sufficientemente chiari e determinati nell’annuncio dell’intenzionalità di radicare un nuovo corso gestionale, soprattutto, nel campo ad alto tasso didascalico delle politiche culturali, gli esponenti di spicco del gruppo consiliare del PCI sarebbero ritornati, quando appena possibile, alla narrazione dei presupposti e delle prospettive su cui si fondava un siffatto proposito. Che, per il significato e la portata di discontinuità e, soprattutto, per la constatazione dell’assenza di condizioni di autosufficienza numerica nel consesso elettivo, presentava le caratteristiche più di una temeraria sfida che di un consapevole progetto amministrativo.

Vi sarebbe anche da aggiungere che la proverbiale avvedutezza in capo ad uomo politico del livello di Franco Dolci, supportata dalla non breve esperienza di governo locale maturata dagli eletti per il gruppo socialista, veniva ogni giorno sottoposta (pur nel permanere di una decisa volontà di coesione cementata, oltre che dai canoni del “centralismo democratico” del PCI, anche da una certa ebbrezza suscitata dall’’inaspettata chance di reggere per la prima volta il governo di un’istituzione per decenni prerogativa esclusiva della DC dominante), agli stress derivanti da una certa impreparazione al nuovo ruolo. Specie da parte di alcuni eletti, approdati alla funzione elettiva, non già dalla tradizionale selezione apparatchiki (che proponeva amministratori da usato sicuro o giovani promesse di evidente talento), bensì dalle conseguenze dell’ansia, non sempre ben considerata nel gruppo dirigente del PCI di “aprirsi” al cosiddetto nuovo, alle espressioni della società civile, agli “intellettuali”, in particolare.

Alcuni dei prescelti capivano al volo l’antifona. Altri, più recalcitranti ad apprendere e a praticare le regole della politica istituzionale, erano portati ai gesti del cane sciolto; pensando fosse giusto trasfondere nella funzione elettiva, over dose del portato delle esperienze di provenienza.

I primi passi della giunta minoritaria di sinistra avrebbero scontato la descritta criticità; in un contesto in cui l’improvvisazione avrebbe potuto fornire il viatico per un sicuro escomio dalle posizioni gestionali (in cui la DC contava di tornare quanto prima).

La cifra identificativa della “discontinuità” con l’ancien regime democristiano fu, più che razionalmente identificata, stabilita dalla successione di eventi non occasionali. Bensì provocati dal combinato di una certa guasconeria e del proposito, per alcuni,  di situare il “palazzo d’inverno” nel perimetro delle politiche culturali.

Per di più con un approccio ed una determinazione, che, oltre al forte connotato simbolico, assumevano, nel gesto e nella narrazione, il tratto della sfida.

Come abbiamo più volte considerato, tale slancio per “una nuova cultura”, magari idealistico e generoso, mostrava non poche falle di sostenibilità politico-progettuale, prescindeva da ineludibili agganci con la realtà ordinamentale, procedurale e finanziaria e, ciò che più preoccupava i nocchieri della fragile “non maggioranza”, bypassava bellamente il pericolo di un controribaltone politico.

Sarebbe stato difficile mantenere la rotta, rappresentata dalla sopravvivenza dell’inedito e precario assetto gestionale (in attesa che si aprissero le condizioni per il varo di un’alleanza di “solidarietà nazionale”, cifra del pensiero berlingueriano in voga all’epoca) e dall’introduzione di innovazioni suscettibili di lasciare tracce tendenziali nel format politico-amministrativo.

Tanto più che, come abbiamo visto, e noteremo ancor più nel prosieguo dell’analisi di questo avamposto divisivo che sarebbero diventate le nuove politiche culturali (a cominciare da Recitarcantando, che fungeva da apripista), questo terreno, un vero e proprio nervo scoperto tra il precedente scenario e l’inedita alleanza, si prestava a schermaglie dialettiche. Le quali mettevano manifestamente a nudo l’inconciliabilità delle posizioni in campo. Non solo per effetto delle caricature operate dalla circostanza dell’’instabilità; ma anche e soprattutto perché effettivamente, per come veniva posto il progetto, i margini per la mediazione venivano assottigliati sia dal valore simbolico sia dal suo impiego strumentale.

Ovviamente, quanto appena considerato sul terreno tattico non coinvolgeva, al di là dell’esigenza di fornire alla percezione esterna il senso di una forte coesione, tutte le sensibilità impegnate nel sostegno alla Giunta, in cui, sia pure in copertura, erano palpabili le posizioni di coloro che avvertivano la rischiosità dell’azzardo.

Vieppiù la delineazione teorico-pratica procedeva e vieppiù si intensificavano, da parte dei “saggi” dell’alleanza di sinistra, gli sforzi per rendere compatibili l’avanzamento e la sostenibilità del progetto.

Le conseguenze delle “incursioni”  dell’avamposto dei fatti compiuti, rappresentato dal combinato tra l’irruenza dell’assessore ed un metodo operativo francamente desueto per il severo palazzo provinciale, venivano, infatti, tamponate dai settori più realistici e responsabili della Giunta e dei gruppi consiliari.

Che, nel dibattito consiliare e nel confronto dialettico, tentavano di alzarne il livello alla ricerca di punti d’incontro suscettibili di disinnescare le criticità.

Ne è patente dimostrazione il contributo del giovane consigliere del PCI, prof. Giancarlo Corada, che, nell’articolo intitolato “Il mondo degli ultimi” apparso sul periodico “Provincia Nuova2” del maggio/agosto 1976, coglie, intervenendo sulla presentazione dell’iniziativa de “Il mondo degli ultimi” a Castelponzone, l’opportunità per far luce sul retroterra di questi slanci innovativi.

Scrive Corada: “Storicamente, sono venuti a verificarsi molti e diversi modi di concepire la cultura. Uno, comunque, è risultato, almeno in Italia il dominante per tanti secoli. E’ l’atteggiamento di chi considera la cultura come qualcosa di astratto, di talmente “nobile” da rifiutare di “sporcarla con i “bassi” problemi della realtà quotidiana; una cultura quindi asettica e neutrale nei confronti delle passioni e delle lotte tra gli uomini. Questa concezione è articolata e si articola in maniera differente, secondo il tipo di problemi affrontati…Si è cominciato a guardare alla cultura come a un “sistema” strutturato a più “dominanti, a più dimensioni, in cui l’elemento creativo individuale non necessariamente è in contrasto con la fruizione sociale e con la partecipazione popolare…Un umanesimo nuovo è venuto affermandosi. Di nuovo l’uomo, in tutta la complessità della condizione materiale ed ideale in cui si trova a vivere, è tornato al centro dell’interesse della cultura; e dal punto di vista dell’organizzazione sociale e politica, e della storia e della spiritualità”

Il giovane consigliere (nel cui futuro politico ci sarebbero stati la Presidenza della Provincia e l’incarico di Sindaco del Capoluogo), docente e filosofo parla, sì, dell’iniziativa realizzata al “Castelletto dei Ponzoni” grazie all’impegno dello studioso Carlo Bellò e del giornalista-fotografo Antonio Leoni. Ma è facilmente percepibile la sintonia tra questa dotta performance ed i perni culturali dell’impostazione della rassegna.

“Recitarcantando”, sin dall’esordio, costituirà se non proprio un format onnicomprensivo, sicuramente un contenitore di tanti segmenti espressivi; finalizzati a corrispondere ad una domanda plurale di spettacoli per la massa. Cercherà, per tutta la decade della sua parabola, di mediare e contemperare cultura popolare, manifestazioni artistiche impegnative, spettacolo effimero e, con l’ingaggio di compagnie provenienti d’oltre-cortina, almeno un tentativo di ost-politik.

Ma indubbiamente le linee-guida donde scaturiva erano quelle manifestate dagli interventi che abbiamo richiamato.

In sede di presentazione, il 31 agosto 1976, della prima rassegna, l’Assessore competente ne riassunse il profilo: “E’ un cartellone di elevato livello qualitativo, nel quale le tradizioni locali della provincia (melodramma, musica popolare, musica organistica e bandistica, musica per strumenti ad arco) trovano espressione in spettacoli di produzione locale, nazionale ed internazionale.”.

Nel passaggio successivo, c’è il cuore della qualificazione della mission: “Recitarcantando è una rassegna profondamente popolare per il suo legame con le tradizioni della gente cremonese; per l’alto livello delle manifestazioni; per la partecipazione popolare gratuita (vogliamo dare la possibilità di partecipare non al singolo, ma a intere famiglie, ad entità omogenee di caseggiato e di quartiere perché eco rimanga e possibilità di discuterne tra la gente); per il luoghi dove la rassegna si svolgerà: piazze, chiostri, giardini, cortili (sia perché ciò favorisce la tendenza partecipativa all’incontro con la luce, il gesto ed il suono degli spettacoli), superando la barriera psicologica costituita dai tradizionali spazi culturali, sia per avviare un processo di riappropriazioni dei luoghi di incontro, sia per sottolineare il discorso sulla dimensione umana della città, del paese, legato ai problemi dell’urbanistica e degli spazi sociali”

Non sempre l’eloquio è scorrevole; ma in esso sono facilmente percepibili il substrato, i cardini e, soprattutto, gli obiettivi.

Il prosieguo di quelle enunciazioni avrebbe prodotto quanto convenientemente ricostruito nel testo di Arrigoni.

Il test, sul piano della coerenza alle premesse e della fattibilità concreta, sarebbe arrivato con il rendiconto della prima rassegna, reso al Consiglio Provinciale nel corso delle sedute autunnali (11, 18, 25 ottobre 1976), sulla base della relazione dell’Assessore competente. Che colse l’occasione per ribadirne le linee-guida: “Rassegna improntata al più aperto pluralismo, nella varietà e nella differenza delle forze culturali coinvolte, nei temi e nei generi artistici rappresentati; rassegna popolare, per gli spazi culturali occupati, per la gratuità degli spettacoli che ha permesso un notevole flusso di pubblico: circa 50.000 spettatori… Effettivo pluralismo, niente colonialismo, provincialismo o contrapposizione tra ipotetiche culture contrapposte, nessuna programmazione dall’alto, ma collaborazione intorno ad un progetto comune”. Effettivamente, il report dell’assessore competente colse un sentiment prevalente tra i componenti del consesso elettivo. Infatti, mentre sugli ancoraggi generali ai valori ed ai principi generali di ispirazione delle politiche culturali si era registrato uno share compreso tra la contrapposizione ed una certa presa di distanza dai picchi ideologici, sul conto “morale” della prima rassegna le valutazioni si mostrarono ispirate dal realismo e da spirito non partisan.

Il solo rappresentante del M.S.I. si dichiarò “contrario all’iniziativa in quanto il momento attuale di crisi economica è sfavorevole a questo tipo di spese”. Tutti gli altri, con maggior o minore condivisione od entusiasmo, mostrarono di apprezzare quell’esordio.

Tra le note a margine di questa approvazione, va segnalata quella del consigliere dc, dott. Renzo Rebecchi (nel mandato successivo avrebbe rilevato l’incarico di presidente), con cui veniva sottolineato “il disaccordo circa la gratuità degli spettacoli”.

Già, la gratuità, il punctum dolens, teorico e pratico, della scesa in campo di quella politica culturale.

Del profilo teorico parleremo tra poco. Di quello pratico diremo subito, anche se con qualche difficoltà. Visto che il rendiconto finanziario presentato dal prof. Gargioni (uomo di cultura ma non di finanza) era reso abbastanza approssimativo dal rimando a spese sostenute da istituzioni di livello sottostante e a generici oneri riflessi difficilmente contabilizzabili.

Tale fatto diede luogo ad una benevola reprimenda da parte del gruppo consigliare di opposizione, che, tuttavia, si astenne dall’assumere iniziative più decise, sconfinabili in terreni d’altra natura.

Vero è che, nella prudente consapevolezza di stime realistiche, la prima rassegna comporterà una spesa complessiva non inferiore ai 100.000.000 di lire. Per rendere, almeno vagamente, il senso di quella spesa ci si dovrebbe affidare alle tabelle comparativo/attuariali, la cui attendibilità sarebbe, in ogni caso (come la statistica trilussiana) tutta da verificare. Con lo spannometro si potrebbe azzardare che quella somma corrisponderebbe a mezzo milione di euro attuali. Siccome Gargioni stimava una partecipazione di circa 50.000 spettatori, va da sé che il costo unitario (in linea con le quotazioni correnti) sarebbe pari a 10 euro.

Vi avevano contribuito (per più della metà) i 14 Comuni sede delle 17 serate, la Provincia e la Regione.

Come si era visto, nel sostegno a tale opzione c’era sempre stata la suggestione favorevole alla promozione della partecipazione di massa e famigliare. Una sorta di bacino da mulino bianco. Il perno era incontrovertibilmente infisso nella mistica della gratuità, come meccanismo equitativo. Nella cultura politica di allora (anche di oggi?) le pari opportunità sociali venivano iscritte quasi esclusivamente nel registro dell’intervento sociale. Dimenticando (allora e, soprattutto, oggi!) che la prima condizione equitativa per l’accesso alle pari condizioni è rappresentata dalla distribuzione del reddito alla fonte, nella remunerazione del lavoro e che, se si insistesse nell’attivare tale meccanismo per qualsiasi accesso alle opportunità, nessun, per quanto generoso, spending deficit reggerebbe. Il che non implica che i poteri politico-istituzionali locali, almeno nella versione orientata in senso socialista, possano esimersi da concrete testimonianze a favore della riduzione della forbice nelle diseguali opportunità. Di cui l’accesso al sapere costituisce il segmento principale

Sotto tale profilo, dopo aver ribadito un’idiosincrasia nei confronti della gratuità diseducativa,  azzardiamo, da analisti e non da tifosi, una prima chiosa all’opzione di allora e, potenzialmente, ad una sua riproposizione negli scenari correnti.

Non v’è chi non veda nella gratuità dell’offerta del prodotto artistico e culturale di massa non solo un evidente profilo dogmatico, ma anche il substrato per una pratica scambista: tra la pubblica amministrazione che elargisce ai propri bacini sociali di riferimento un servizio dietro l’aspettativa di acquisizione del consenso.

Non siamo proprio di fronte al tutto a tutti, ma indubbiamente all’intenzionalità di uno scambio ad usum delphini.

Il format non resse più alla resa dei conti, che ne decretò l’insostenibilità; anche se, andrebbe aggiunto, la gatta scambista, pur in mutati scenari politici e di alleanze, fu sempre tentata di andare al lardo.

Che cosa è stato, infatti, l’APIC se non la continuazione, in altre dimensioni e con un profilo decisamente più trash (remember la Mostra dei Dinosauri), del Recitarcantando?

Assolutamente in comune tra la rassegna apripista durata dieci anni ed i format successivi le linee-guida dell’effimero e della gratuità.

Si sostiene, secondo chi scrive in contrasto con i fatti, nell’esegesi del fenomeno (che indubbiamente anticipò a Cremona coeve rassegne di piazza approdate a maggiore notorietà mediatica e che, in ogni caso, fornì una smossa a scenari culturali paludosi), che Recitarcantando fu la madre di tutti i successivi sviluppi più o meno virtuosi nel campo dell’offerta pubblica di spettacoli e di cultura.

Indubbiamente, per quanto alcuni embrioni fossero presenti nei più vivaci (e consistenti) centri del territorio, l’idea del decentramento del programma produrrà fecondi e duraturi effetti sinergici. La Provincia dovrà, per varie ragioni (non ultima la sostenibilità), sganciarsi da un progetto troppo ambizioso, da un lato, e, dall’altro, privo di seri agganci con la realtà istituzionale.

Ma, si ripete, quell’azzardo, destinato all’estinzione, produrrà un effetto di stimolo ai fermenti che già incubavano, in materia di dotazioni teatrali, a Crema, Soresina, Casalmaggiore, Casalbuttano, Ostiano. Anche se non avremo mai la prova che, in assenza di Recitarcantando, quegli embrioni latenti si sarebbero sviluppati comunque, è giusto riconoscere che il decentramento della rassegna incontrovertibilmente un effetto di supporto produsse.

Ciò non vale per Cremona (per il Ponchielli), come, con una certa deduzione innocentemente arbitraria, si sostiene relativamente al supposto innesco della miccia della municipalizzazione del maggior teatro del capoluogo e della provincia.

L’ex Concordia era nato “condominio” del ceto privilegiato e, come tale, per quanto soddisfacesse una più vasta aspettativa comunitaria, veniva gestito secondo una logica privata. Che ne fece per decenni un’istituzione, appunto, se non proprio “privata” nello stretto senso del termine, non pubblica.

La sinergia tra questo non pubblico ed il pubblico consistette per anni in una coabitazione a parti di responsabilità invertite: il management gestiva e le istituzioni locali, “condomine”, sussidiavano finanziariamente. Fin tanto che la sostenibilità e le conseguenze dell’obsolescenza della struttura non ressero più.

La relazione dell’assessore non fu esclusivamente un doveroso (anche se tecnicamente un po’ traballante) rendiconto finanziario. In quanto conteneva spunti, in parte largamente superati dal prosieguo ed in parte degni di approfondimento anche negli attuali contesti.

“In quest’opera, la Provincia ha svolto il suo giusto ruolo di sollecito, promozione e coordinamento verso i Comprensori, operando un effettivo decentramento delle attività culturali e musicali, in una collaborazione positiva che ha esaltato i reciproci ruoli attorno ad un programma comune… Siamo convinti che l’Ente Locale sia il luogo istituzionalmente e naturalmente adatto per organizzare attività culturali, luogo nel quale tutte le forze intellettuali si confrontino e studino, nella prospettiva di una crescita generale dove l’azione critica del passato si intrecci ad un adeguato sforzo di conoscenza della realtà attraverso il confronto con i lavoratori, per vedere quali sono i reali limiti di contenuti della vita culturale delle masse, nella città come nella campagna”.

Nell’analisi fortemente assertiva del professore comunista sono innegabili gli agganci gramsciani (comuni a tutti i protagonisti politico-istituzionali che intervennero nella vicenda in rappresentanza del PCI), come le suggestioni, derivanti dagli slanci comunitari, conseguenza,  più che di una cattiva lettura della open society, della mission di incanalare quelle masse.

Ma innegabilmente quella risposta, per alcuni versi approssimativa, era ed è (attualmente) in capo ad una domanda, rimasta in larga parte elusa: in che senso orientare i cardini delle politiche culturali delle istituzioni locali.

Cominciamo dall’ordine delle funzioni. L’Ente che se ne fece carico, la Provincia, è in piena gestione stralcio (nel chiaro intento, secondo i proponenti, di semplificare ed ottimizzare l’intelaiatura dell’amministrazione periferica; in realtà per ridurre i centri di spesa). I Comprensori sono stati convogliati nella stessa prospettiva. I Comuni, destinatari di una spending review tanto micidiale quanto obbligata, costituiscono, unitamente alla Regione (che in Lombardia insegue il prevalente profilo della cultura popolare), l’unico soggetto istituzionale munito di funzioni.

Già ma se hai funzioni, ma non risorse finanziarie, che fai?

Andrebbero, peraltro, considerate due circostanze, in parte ostative ed in parte limitanti.

Il territorio provinciale è costellato da una pletora di micro-comuni la cui consistenza, soprattutto, finanziaria inibisce qualsiasi minimale pretesa di incardinare un minimo di politiche culturali, che non siano la festa del paese o gli slanci del volontariato. Così procedendo, però, si accentueranno l’isolamento ed il presidio civile del territorio.

Solo una congrua entità permetterebbe di ottimizzare il rapporto tra entità della spesa e qualità del prodotto.

Ma, anche volendo prescindere da questo ostacolo difficilmente aggirabile, c’è una seconda critica circostanza; rappresentata dal fatto che anche la decina di Comuni di entità apprezzabile dispongono di una facoltà di spesa fortemente contenuta e, per di più, vincolata dal macigno del sostentamento dei presidi teatrali.

Scrivevamo, qualche settimana fa, in occasione dell’annuncio della ricomposizione della criticità in capo all’Arena Giardino, le medesime considerazioni applicabili a questa contro-copertina della rivisitazione dei quarant’anni  del Recitarcantando.

Osservavamo che i tempi cambiano e cambia, purtroppo, (quando sono in gioco valori permanenti) anche la percezione delle cose.

Niente di più vero: le risorse pubbliche sono in forte contrazione e bisogna tenerne conto.

Oggi viene forzosamente tagliata la spesa pubblica. Ma quella valanga di finanziamenti a pioggia di tutti gli eventi che confluivano genericamente nella logica della crescita culturale e specificatamente del sostegno all’effimero, non doveva neppure iniziare.

Si dovrebbe cominciare dal voluttuario. Ma qui casca l’asino. Perché in tale categoria viene d’ufficio e subito iscritta la spesa attinente al sapere. Vale a dire, volendo dimostrare di non guardare in faccia a nessuno, si sega il ramo su cui siede la prospettiva, specie in fasi critiche, di mantenere alto lo standard civile di una comunità.

Si spende prevalentemente per il Ponchielli. Un teatro che vive fuori dal tempo, che si permette una sovraintendenza trentennale, che municipalizza il servizio ristoro, che mette in campo un organico fuori dal buon senso. Che, soprattutto, come si è colto nelle parole del suo sovraintendente intervenuto alla conferenza, ritiene ed opera nel senso di sentirsi erede di quell’esperienza. Che cannibalizza le esigue risorse comunali per un servizio, per di più prerogativa di una fruizione selettiva. E non, come avrebbe dovuto essere, dei ceti che ne erano e ne sono esclusi.

Di ciò, ovviamente, fa le spese, come considereremo nelle conclusioni, una domanda di cultura più vasta e destinata, ahinoi, ad essere disattesa.

Fortunatamente, come e più di Sant’Omobono c’è, con il MdV ed il suo indotto, S. Giovanni (Arvedi). Poi qualche spicciolo. Alcuni di questi, poco più che simbolici, ben spesi.

Come la convenzione con la Società Filodrammatica che, con la dedizione del presidente Mantovani e la fattiva collaborazione dei due entusiasti gestori, ha salvato dalla chiusura l’unica sala cinematografica rimasta in centro e permette un’incredibile offerta di spettacoli, in gran parte di produzione autoctona, a costo zero per le casse comunali.

Della serie “C’era una volta”, si ricordano il Festival della Poesia e Le Corde dell’anima. Costavano poco. Attiravano un folto pubblico (anche da fuori il territorio) che aveva l’occasione di approfondire la conoscenza della città della musica, del violino e della liuteria. Erano, in particolare, percepite come l’antidoto dell’effimero, capace di lasciare qualcosa anche dopo l’evento.

Ma, come fece la Giunta Perri nei confronti delle Estati all’Arena Giardino, la Giunta Galimberti avrebbe fatto nei confronti delle Corde dell’anima. Accampando problemi finanziari, avrebbe affossato una rassegna, a quanto pare, molto apprezzata.

A malignare si pecca, ma s’indovina. Nel primo caso si compiva una ritorsione nei confronti del coté di sinistra. Nel secondo, nei confronti di un braccio operativo del gruppo editoriale locale, distintosi nel supporto al precedente Sindaco (risultato sconfitto dal voto). Lo stile, sic!, non è acqua!

E qui veniamo ad affrontare l’ultimo segmento dello spaccato del format del Recitarcantando: il rapporto tra potere politico ed operatori.

Come rileva giustamente Nicola Arrigoni nella sua apprezzabile rivisitazione, al mutare degli equilibri politici della maggioranza muta la committenza. Che, in tutti i cieli, costituisce prerogativa del potere politico elettivo. D’altro lato, quegli operatori scelti in base ad una prerogativa di discrezionalità, ben lo sapevano. O almeno avrebbero dovuto intuirlo. E’, bellezza!, la regola. Cui si sottraggono solo gli “operatori” trasformisti, disponibili, al bisogno (il cambio di “principe”) ad inventarsi (con tecniche contorsionistiche  invidiate anche dalla tuffatrice Tania Cagnotto) affinità elettive con il dispensatore di incarichi del momento.

Meravigliarsene (specie da parte di chi da trent’anni rimane in sella) è indice di ipocrisia.

Inaccettabile, invece, sarebbe camuffare di deficit di trasparenza le conseguenze dei cambi di ciclo.

Che lezione si può trarre dal format Recitarcantando rispetto agli scenari attuali?

Difficile una risposta che, dati i profondi mutamenti intercorsi, non può che essere prudente.

In ogni caso, niente di allora, secondo chi scrive, è meccanicamente riproponibile.

Dello smarrimento del potere politico a delineare un progetto di politiche culturali, compatibili con le risorse a disposizione ed in un rapporto trasparente con il sentire comunitario, abbiamo detto.

Abbiamo anche molto insistito sull’incongruenza della pretesa della gratuità degli spettacoli. Chi ama il cinema, gli eventi artistici, le occasioni di vita comunitaria, tragga le conseguenze (magari appendendo al chiodo le pantofole di ordinanza corollario dell’utenza televisiva e, se ama il cinema, si rechi nelle strutture deputate a dispensarlo nelle condizioni ottimali).

Saremmo, però, reticenti se non facessimo menzione di quell’evidente profilo nostalgico integrato dalla rievocazione.

Un manifesto sentimento che si prova quando si rimpiangono, come nel caso della rassegna di quarant’anni fa, cose e tempi ormai trascorsi o nel desiderare intensamente cose, luoghi e persone lontane.

Un desiderio acuto di tornare a vivere quel clima, quelle sensazioni, quegli appagamenti.

In scenari, contraddistinti da individualismo selvaggio, ci può stare che soprattutto i propugnatori eredi di quella cultura sentano e manifestino nostalgia per quel ciclo. Applicata espressamente al bisogno della socializzazione che ha come epicentro la piazza.

La piazza sembra sparita dai radar sociali e posta in quiescenza dal tormentone/must dei social. Per anni si è assistito al rito di massa del rifugio nel privato, metafora dell’impulso alla fase suprema dell’individualismo. Del quasi privato fa parte quella sorta di extraterritorialità sociale che sono i templi della condivisione artistica e culturale riservata alle élites (per censo sociale e, soprattutto, per inclinazione snobistica). Solo di recente riappare, più o meno timidamente o se si vuole a macchia di leopardo, l’impulso a riappropriarsi degli spazi pubblici per tornare a celebrare gli eventi di massa. Tale impulso è apparso prorompente nella testimonianza a sostegno del rilancio dell’Arena Giardino, come offerta di cinema all’aperto e, dato che ci siamo, anche di spettacoli estivi.

In cui è palpabile il nesso, un po’ ambiguo, di causalità della domanda di spettacoli di massa come antidoto alle frustrazioni estive, tanto ben raccolte dai versi di Paolo Conte cantati da Adriano Celentano (Quelle domeniche da solo in un cortile, a passeggiar,

ora mi annoio più di allora, neanche un prete per chiacchierar).

Ci sarà la rivincita della piazza nei propositi di quel simbolico passaggio del testimone, sancito dalla Conferenza presso l’Archivio di Stato, tra Recitarcantando e l’Associazione Culturale Porte Aperte Festival?

Che con il suo ruolo da protagonista della Conferenza e, soprattutto, con la rassegna che si svolgerà a Cremona nei giorni 1-2-3 luglio, si è chiaramente candidata ad assumerne l’eredità.

Diversamente dalla madre di tutti gli spettacoli, gestiti e finanziati direttamente dalle istituzioni, si tratta di un progetto, anche in ciò apprezzabile, pensato e portato avanti dall’associazionismo.

Sia pure con la partnership (sarebbe interessante sapere in che rapporto di partecipazione di indirizzo e di spesa) del Comune di Cremona.

All’apprezzabile iniziativa dell’associazionismo cremonese vanno il nostro apprezzamento ed il nostro augurio.

Il profilo di questo progetto “rispondere con curiosità ed accoglienza alla follia dilagante dei muri e della paura dell’altro” potrebbe integrare un profilo militante. Lo dirà il prosieguo. Per il momento siamo in presenza di un’offerta, che, per come è presentata, non può che essere percepita come un’opportunità di crescita comunitaria.

Se è consentito un suggerimento, la Civica Amministrazione, mettendo in campo il medesimo supporto, farebbe bene a sollecitarne altre. Magari provenienti da sensibilità in rapporto dialettico con il mantra dell’ “accoglienza”. Che, oltre a ricorrere in via esclusiva ed in proporzioni bulimiche nella dilagante comunicazione del governo comunale, arrischia di costituire la cifra identificativa delle politiche culturali “per procura”. Ci troveremmo di fronte ad un esorcismo, non ad una spiegazione, ad una formula magica, per giustificare un patrocinio selettivo. Di cui dovrebbe fornire, appunto, motivazioni della partnership, entità dell’eventuale partecipazione finanziaria, intendimenti in ordine ad ulteriori collaborazioni con altri progetti.

1° e 2° foto: presentazione mostra

3° foto: intillimani-cremona-19-settembre-1976

4° foto: folle al recitarcantando

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