Giovedì, 28 marzo 2024 - ore 18.59

L’EcoTerritorio Cremona Aree vaste e politiche piccole… piccole

Riflessioni indotte dal rinnovo del vertice provinciale Come anticipato, domenica sei corrente mese di novembre si sono svolte le operazioni di rinnovo del vertice chiamato ad amministrare quel che resta delle funzioni in capo alla sopprimenda Provincia. Oddio, sopprimenda, si fa per dire; in quanto sui destini della antica istituzione dell’amministrazione periferica pesa più di una variabile

| Scritto da Redazione
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La prima è sicuramente in capo agli esiti dell’omologa referendaria della riforma costituzionale, nella cui stiva è posta anche  la sorte della Legge Delrio. Che, come noto, nel 2014 avviava, nel quadro della semplificazione dell’ordinamento delle istituzioni territoriali, il superamento dell’ente autarchico di secondo livello. Il compimento di tale progetto legislativo, che per il momento, pur mantenendone vivere le funzioni, ne ha revocato la fonte elettorale universale, è sotteso, ovviamente, agli esiti della chiamata al voto del 4 dicembre.

Ove fossero (come auspichiamo) favorevoli, la trasposizione della funzione intermedia verso un definitivo assetto sarebbe tutt’altro che automatica.

Bisognerebbe, infatti, tradurre in strumenti ordinamentali l’indirizzo, in parte esplicito ed in parte implicito, nella Legge Delrio, teso ad attribuire il segmento dei servizi al territorio, non più ad un’istituzione autarchica (cioè munita di attribuzioni e poteri autonomi), ma ad una entità sub-regionale e sovraccomunale; allo stato non circonstanziatamente definita. Il cui profilo, se si è capito (o si è del tutto capito), sarebbe messo a punto col concorso delle Regioni. Come, d’altronde, è in parte già avvenuto, in sede di avvio dell’attuazione della Legge Delrio, che ne ha affidato alle singole Regioni la transitoria gestione stralcio.

Non osiamo neppure pensare all’ipotesi che l’esito del referendum costituzionale possa essere negativo. In tal caso, in aggiunta a tutto il resto in termini di incertezza, l’interrogativo più inquietante rifletterebbe, pur nella consapevolezza della marginalità dell’ente intermedio, la prospettiva concreta di uno scenario di vuoto di poteri e di profondo smarrimento per una periferia già provata da un decennio di docce scozzesi.

Di certo, in tal caso, l’ente Provincia non verrebbe automaticamente cassato dall’ordinamento pubblico; ma la immediata conseguenza potrebbe anche essere compatibile con la sottrazione definitiva della legittimazione popolare alla formazione degli organi gestionali.

Occorrerà navigare a vista. Come, peraltro, hanno fatto i vertici della Provincia amputata dal 2014 fin qui ed oltre il loro rinnovo di domenica sei novembre.

A questo punto (per non dire addirittura molto prima)  fu ed è manifesto che attorno all’intervento “riformatore” abbiano armeggiato mani inesperte probabilmente rese tali da una non perfetta conoscenza della dottrina e della realtà consolidata e da una committenza un po’ grossolana e sbrigativa. Renzi lo smentisce ma, se la mission (condivisibile) della riforma sta nella modernizzazione e nell’efficientamento della macchina istituzionale ed amministrativa, è innegabile che la risagomatura del rapporto tra i poteri si colloca verso, se non una secca centralizzazione, quanto meno verso una semplificazione ascensionale. Si inverte (opportunamente) il senso della precedente riforma del Titolo V con il completo asciugamento delle materie concorrenti (che tanto danno hanno provocato) senza, però, avere il coraggio di sopprimere o comunque ricondurre l’attribuzione regionale nell’alveo meramente legislativo e revocare definitivamente l’autonomia speciale. Ed, al piano più basso, si liquida di fatto l’istituzione intermedia  che, per oltre un secolo (interfacciata alla Prefettura), costituì la pietra angolare del controllo politico sull’amministrazione periferica.

Se ne potrà, non si dice comodamente, fare a meno; anzi si dovrà fare a meno. Con una immaginabile riduzione dei centri di spesa pubblica e con una significativa contrazione di tendenza nella sovrapposizione delle funzioni di fatto. Tali indotti produrranno un sicuro beneficio a livello di contenimento della spesa improduttiva, quando non parassitaria.

D’altro lato, se si pone mente alla dinamica degli ultimi decenni, la Provincia aveva sì introitate alcune deleghe esecutive dalla Regione (prive di profilo politico-amministrativo); ma, specialmente con la Riforma Sanitaria, aveva perso alcune attribuzioni rilevanti (l’Ospedale Psichiatrico, il Presidio di Igiene e Prevenzione, il Consorzio Antitubercolare).

Si era allargata sul fronte ambientale con la funzione istruttoria dei piani ambientali, delle cave e delle discariche dei rifiuti speciali; la cui funzione deliberante restava, però, in capo alla Regione.

Aveva senso mantenere un’istituzione così gracile e così, tutto sommato, dispendiosa (col suo carico di mestierizzazione della nomenklatura politico-istituzionale e di bulimia degli organici)? Sicuramente no!

La soluzione del problema (dei problemi!), però, non è così semplice e drastica.

Come garantire la sostenibilità del mantenimento dei servizi a dimensione sovraccomunale e sub-regionale, se, almeno nell’intelaiatura Delrio, si mantiene gran parte delle funzioni amministrative riducendo significativamente il fabbisogno finanziario?

Quanto può reggere la furbata Delrio di questa spending review de noantri, affidata ad un ceto politico-amministrativo (quello dei Comuni) che è già subissato dall’impresa quotidiana di conciliare il pranzo con la cena della finanza comunale?

Questa sconcertante tendenza (peraltro, congegnata da un ex Sindaco, per di più ex presidente dell’ANCI) non presenta una base di motivazione etico-sociale e non potrà valicare la scansione temporale della transizione ad uno scenario definitivo. Che, vada come vuol andare l’esito referendario, non potrà non essere medio-breve. Pena il collassamento dei servizi e l’effetto domino su quell’asse portante dell’autonomia amministrativa che è e resterà ancor di più il Comune.

L’altro (che non farà scendere la gente nelle piazze ma, alla lunga, farà avvertire le sue conseguenze sulla periferia) riguarda l’evanescenza, per non dire la letterale scomparsa di quel titolo di rappresentanza politica del territorio sulle scelte strategiche in capo ai superiori livelli legislativi ed esecutivi.

La Regione avrebbe (avrebbe!) dovuto farsene carico; ma in realtà ha rivelato una propensione centralistica, sicuramente più marcata di quella dello Stato.

La programmazione territoriale (delle infrastrutture, per dirne una) era già sostanzialmente avulsa da qualsiasi seria ed accettabile interlocuzione con le realtà periferiche, in costanza di più o meno rabberciate Province. Figurarsi cosa sarà di tale insopprimibile esigenza partecipativa, se le vocazioni e le aspettative del territorio (in passato più o meno bene canalizzate dall’istituto provinciale) in toto passassero direttamente alla Regione, al di fuori di qualsiasi previsione di un minimale vaglio intermedio da parte della realtà periferica! Che, almeno da quel poco che si può intuire dal niente delle enunciazioni riformatrici, non sarebbe consegnata alla cosiddetta “area vasta”. Checché ne dicano e ne disputino inquietamente i territori; specie quelli a scavalco di realtà incontestabilmente omogenee e quindi destinati alla macelleria delle zonizzazioni avulse dalla conoscenza delle periferie e dalla volontà di ridurre le condizioni di marginalità.

Chi avesse voluto cogliere in ciò la descrizione della situazione del cremasco e del cremonese avrebbe colto nel segno.

Non siamo rassegnati, ma abbiamo l’impressione che ai depositari del dantesco Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, si potrà anche molto dimandare, ma, per come si sono messe le cose, è realistico aspettare poco. Specialmente se ci si acconcerà alla replica del comportamento dei proverbiali capponi renziani (nel senso di Tramaglino!).

Come succede nella scansione di questo ultimo quarto di secolo caratterizzato dal pensiero liquido e dalla politica leggera, l’approccio, da parte del nostro territorio (ex provinciale), si è mantenuto, sin dagli esordi, coerente coi ben noti standards ispirati da impulsi di divaricazione (nelle analisi e nelle conclusioni).

La materia, per non finire beccati (come i capponi), consiglierebbe di attingere (i politici ed i corpi sociali intermedi) al deposito dell’etica della responsabilità!

E non, com’è sin qui avvenuto, da quello degli stereotipi consolidati ed arrugginiti e dalle fughe in avanti a beneficio del facile consenso (e della delusione sicura).

L’attuale Provincia di Cremona è territorialmente un ircocervo aggregato, dalla riforma Rattazzi in poi, sulla base di contiguità e di trilussiani standards di popolazione.

Poi, nel corso di un secolo e mezzo, ci si è adattati a convivere; come hanno fatto cremaschi e cremonesi. I secondi con un certo aplomb determinato da un certo autoreferenziale appagamento e dall’impossibilità di opzioni diverse. I primi, sempre molto riluttanti, nella loro certezza del sopruso patito. Di non essere, come altre piccole realtà, diventati provincia o di continuare inutilmente ad aspirarlo. Ma in partnership con altri territori che avrebbero, ben s’intende, dovuto accettare la loro leadership.

In fin dei conti la Provincia tra l’Adda, il Po e l’Oglio, mezza bianca (dalle parti del Serio) e mezza rossa (dalle parti del Grande Fiume) non se l’è passata del tutto male (chiagne e fotte!).

Negli anni settanta c’erano i cantori della “cremaschità”, certi degli immancabili (prima o poi) destini di futura provincia. Se ce l’avevano fatta Barletta-Andria-Trani; Biella; Oristano; Fermo; Lodi;  Verbano-Cusio-Ossola ed alcune altre ad entrare nel rango delle 107 lievitate Province, perché non il Cremasco?

In realtà, quell’autobus, nonostante le aspettative, non passò. Anche se, alla luce degli sviluppi successivi, sarebbe cambiato poco: il Cremasco, Provincia o comprensorio, sarebbe stato accorpato.

Con chi e come? this is the question! Più di una leterale domanda, é una questione spessa e, se si guarda al modo maldestro con cui è stata affrontata, inestricabile; fino a fare la fine (la pentola) dei capponi manzoniani.

Si sarebbe potuto fare meglio? Sicuramente nei preamboli, che hanno acceso le contrapposizioni di partenza, e nelle analisi, prive di ancoraggi razionali (per non dire di senso della realtà quando non di effettivo buon senso).

E dato che la mission di questa riflessione sta nell’analisi del voto di domenica 6 novembre, della performance dei primi due anni di amministrazione commissariata e della prospettiva della progressione della riforma, qualcuno ricorda ancora il veto posto dal Sindaco (Sindaco!) di Crema alla ipotizzata assunzione, da parte del collega del Capoluogo, della presidenza provvisoria della provvisorissima  “area vasta”. Veto corredato dalla subordinata dell’accettazione di qualsiasi altra candidatura, purché rappresentata dalla fattispecie di un Sindaco piccolo piccolo. Che fortunatamente fu rinvenuto nella disponibilità di Pezzini di Sesto e del suo vice Viola di Gadesco Pieve Delmona.

Per buona sorte, la consapevolezza delle criticità ha fatto premio sulla dedizione di Sindaci e Consiglieri; “piccoli” nella dimensione della loro giurisdizione comunale, ma grandi nel senso della testimonianza civile e del dovere verso la comunità.

Vezzini, addirittura, dopo aver, come appena detto, bene operato in tandem con Davide Viola, che dal 7 gli è succeduto nella carica (che è più simile ad una condanna biblica), ha seguito le orme di  Cincinnato.

Davide Viola fa già (e bene) il suo lavoro di apprezzato funzionario di banca.

Insomma, quando si vive del proprio lavoro, quando la politica e l’amministrazione pubblica sono un servizio, quando non si è preda del doc (disturbo ossessivo compulsivo) di nuove e irrefrenabili progressioni di carriera, allora si possono tenere, di fronte a problematiche impegnative e non legate ad esiti mirabolanti, un profilo basso e nervi saldi.

Diversamente, partendo dalla piccola “area vasta cremasca”, si può fare il Trinchetto, sparandole grosse: l’ingresso nell’area metropolitana, l’aggregazione (purché, si lascia intendere, diventando capoluogo), con Treviglio, oppure con Lodi, oppure con Treviglio e Lodi. Ma mai con Cremona e con la Provincia del Po.

Ora non vogliamo sostenere che l’area vasta padana costituisca, specie alla luce delle furbesche aspettative e di alcune inopportune rigidità dei virgiliani, la panacea generale dei problemi sul tappeto e la briscola per cremaschi e cremonesi.

Ma se l’animo dell’approccio ad una matassa aggrovigliata di questioni si orientasse nel senso della responsabilità, anziché della sponsorizzazione di pulsioni localistiche, forse più sollecitate (dalle imminenti tornate elettorali e dall’aspettativa del rinnovo della carica) che reali, allora sarebbe possibile, come ha dimostrato il virtuoso biennio non-partisan di Vezzini, Viola ed altri, affrontare realisticamente le criticità ed, addirittura, progettare insieme comuni destini per gli scenari futuri.

E’ ciò che si coglie nel profilo espresso dall’election day provinciale, che, dal punto di vista della declinante partecipazione, forse ha incorporato la percezione di una prospettiva non-partisan data troppo per scontata per l’immediato futuro.

Lo dimostra il largo successo personale del candidato unico alla Presidenza Viola, che ha avuto 101 votanti e 5000 voti in più rispetto alla rigida demarcazione degli schieramenti (di centro-destra e di centro-sinistra).

Cosa significa tale dato? In primis, che una larga parte della costituency territoriale non é automaticamente marchiabile in senso partitico e/o di maggioranza. E che il ceto comunale dimostra, in ogni caso, di anteporre i doveri di rappresentanza istituzionale rispetto agli ordini di scuderia. E ciò costituisce una fatto sicuramente positivo ed incoraggiante.

Nelle dinamiche sottostanti all’election day, però, sono anche miserabili tentativi di strumentalizzazione di un passaggio, che dovrebbe avere una lettura ed una finalizzazione esclusivamente comunitarie, a non commendevoli regolamenti di conti e/o a più o meno legittime aspettative particolari.

Lo ha dimostrato il comportamento dell’area di centro-destra, che, pur non scalfendo l’apporto responsabile dei suoi rappresentanti (ad esempio, determinanti per l’adozione del provvedimento relativo alla zonizzazione scolastica) e non pregiudicando per il futuro la linea non-partisan sin qui seguita), ha sciolto le righe, come si suol dire, in sede di presentazione delle candidature.

Lo ha dimostrato, però, al di là del risultato (più personale del Presidente che della coalizione), anche il centro-sinistra (o quell’aggregato più nominale che sostanziale).

Ne prendiamo atto! Siamo senza classe dirigente, perché la politica non è più in grado di produrre personalità dotate di capacità adeguata oppure si limita a proporre figure prive di un rapporto diretto con la realtà.

Siamo senza politica, perché siamo ormai senza partiti, intesi come istanza di espressioni ideali e rappresentanza del sentire popolare.

Il PD, dividendosi su tutto (oltre al referendum), come e più dei campi contrapposti!

Ormai non esistono più né le formazioni élitarie né i bacini di raccolta di massa.

Tale constatazione, che preoccupa ed addolora, riguarda anche e forse più la testimonianza del campo politico più congegnale a chi scrive.

Se mancano la linea-guida ideale ed il sicurvia etico-comportamentale, la funzione dei partiti finisce di essere meno di un cartello elettorale.

In particolare, il PD che da qualche anno inanella sconfitte pesanti in centri significativi (Casalmaggiore, Soncino, Castelleone, Pizzighettone) ed in altri (Offanengo) non é neanche in grado di presentare la lista, dimostra di aver lasciato sul terreno la capacità, riconosciuta alla “ditta”, di interlocutore autorevole per le politiche territoriali.

L’aggregato renziano potrebbe fungere da perno ispiratore e coagulatore di quella sinistra riformista plurale, costituita da democrat, socialisti, laici, indipendenti, che é diffusa nel territorio. Ma che, anche senza essere proprio allo sbando, manca di quei riferimenti e di quella coesione che sarebbero tanto necessari di fronte alle difficili prove alle viste.

In ciò emerge una distorsione sistemica; ma é anche distinguibile un limite del vertice del partito. Che dimostra di non conoscere la realtà territoriale e che é vittima ed artefice della propria contraddizione. Di essere al vertice di un aggregato politico-organizzativo provinciale e, ad un tempo, nella stanza dei bottoni della Giunta di Crema; la cui linea, rispetto agli sviluppi dell’area vasta, é manifestamente asserragliata in un’isterica ridotta campanilistica.

In un siffatto conflitto di rappresentanza la Federazione “provinciale” (si fa ovviamente per dire) é destinata a non trovare mai il bandolo di una progettualità di livello superiore.

Come avrebbe potuto essere un fecondo percorso che simulasse, almeno,  le condizioni di convergenza per un approdo che, partendo dalla salvaguardia tutti gli interessi originari (in termini di mantenimento e di miglioramento dell’accessibilità ai servizi sovraccomunali) contemperasse, strategicamente, l’aspirazione al riequilibrio infrastrutturale e socio-economico. Nella rappresentanza delle vocazioni e delle potenzialità di tutti.

Esiste, infatti, una evidente e consistente questione di divario territoriale. Che si è radicato e consolidato per effetto, oltre che di dinamiche di mercato, di politiche di investimenti infrastrutturali e di destinazione di risorse pubbliche. Naturalmente il ceto dirigente può continuare a fare ciò che in sostanza ha fatto fin ora: non curarsene. O curarsene solo attraverso testimonianze che assomigliano tanto alle doglianze.

C’è un modo semplice e lineare per superare l’isolamento: realizzare collegamenti ferroviari e stradali che rendano attraente la peculiarità dell’asta padana. Cominciando dall’implementazione del suo core businnes: la sistemazione idraulica del fiume, la sua navigabilità, il rafforzamento della sua prerogativa di “dorsalità” rispetto ad un bacino-volano suscettibile di sviluppare un modello di new economy. A condizione che un siffatto indirizzo integri anche un ruolo paritario per le vocazioni del comprensorio cremasco; cui non sarebbe difficile riconoscere quel ruolo strategico di raccordo dell’asta padana con la fascia pedemontana e l’area metropolitana.

E finiamo qui per non mettere troppa carne al fuoco alla mission del vertice provinciale appena eletto; che dovrà anteporre a qualsiasi svolazzo progettuale l’imperativo di far quadrare i conti e di garantire servizi ineludibili.

Purtroppo, dobbiamo chiudere con una postilla sgradevole su un aspetto francamente non edificante dell’election day.

Lo spettro di un tormentone si aggira nei brumosi scenari autunnali: il candidato, insistentemente autocandidatosi, che viene impallinato nel segreto dell’urna.

Una circostanza, questa, che riaprendo le cateratte di polemiche di cui non si sentirebbe francamente il bisogno, arrischia di spostare l’attenzione dal campo della dialettica virtuosa a quello del gossip e della politica politicante.

Per riassumere, la questione non si sarebbe minimamente posta se, anziché per il rami, la conduzione avesse seguito la via principale. Vale a dire, a suggello di una volontà inclusiva e coesiva, con la candidatura dei Sindaci dei Comuni più rappresentativi (Cremona e Crema).

Ciò in parte è avvenuto con la candidatura del primo cittadino cremasco.

Mentre il Sindaco di Cremona, per ragioni non sufficientemente chiarite, si è chiamato fuori e ha ritenuto di farsi rappresentare in seno al Consiglio Provinciale da uno dei consiglieri comunali di maggioranza.

Gira sempre più insistentemente la chiacchiera secondo cui tale consigliere si sarebbe insistentemente auto-proposto, sulla base del dichiarato proposito di collaborare in materie ben conosciute e di uno spiccato cursus honorum professionale (il fato di essere stato al vertice della struttura burocratica dell’ente per quarant’anni).

Secondo chi scrive, ancorché essere titolo preferenziale, la circostanza costituirebbe esattamente controindicazione; in aggiunta a questioni di buon gusto, che sconsiglierebbero a chiunque di tornare da amministratore nell’ente di cui é stato per tanto tempo dirigente. E, senza voler essere particolarmente rigorosi, all’inopportunità stessa del servizio istituzionale incrociato (dipendente/dirigente in un ente ed amministratore nell’altro). Che, per quanto prerogativa non esclusiva del candidato di cui trattasi, getta un’inquietante luce sul rapporto patologico instaurato a livello locale tra politica e burocrazia, ai tempi della seconda repubblica.

 Il prof. Galimberti non é entrato nel radar dei nostri entusiasmi. Ma non abbiamo difficoltà ad ammettere che, almeno sull’area vasta, é andato esprimendo buon senso e realismo.

Sedendo nel Consiglio con il suo collega di Crema avrebbe offerto un’immagine se non proprio di coesione, sicuramente di sforzo per la ricerca di una sintesi.

Se ha deciso così il diretto interessato, ci troveremmo di fronte ad un gesto di diserzione. Se, invece, l’indisponibilità a candidarsi (e a farsi eleggere) fosse stata determinata da piccoli calcoli di bottega (o di “ditta”, che dir si voglia), allora saremmo di fronte ad un fatto sconcertante.

Cremona non può chiamarsi fuori rispetto all’imperativo di costituire uno dei riferimenti principali né nel dibattito sui futuri azzonamenti amministrativi di secondo livello né nella gestione stralcio della transizione ai nuovi scenari.

Men che meno può pensare di risolvere il problema della sua rappresentanza assecondando inqualificabili ambizioni, mosse da pulsioni meramente personali.

E’ giunto, a parere soggettivo di chi scrive, di dare un “drizzone” (neologismo di scuola berlusconiana) all’incerta, ondivaga tabella di marcia della coalizione di centro-sinistra. Di cui é preoccupante segnalatore l’avvitamento delle conseguenze in capo alle ambizioni deluse di un quasi ottantenne (cui ragioni di buon gusto e di trasparenza consiglierebbero almeno una delle tante ed accoglienti panchine di Piazza Roma).

D’altro lato, la veemente chiamata di “correità”, nella commissione del misfatto, del Sindaco e del Capogruppo del PD, dice, oltre qualsiasi ragionevole evidenza, dello stato di compromissione dei già non saldissimi perni dell’alleanza di centro-sinistra.

Se è permesso un suggerimento al Sindaco ed al Capogruppo del PD restino dove sono e guardino all’essenziale; evitando che “l’incidente di percorso” (la candidatura, non già la mancata elezione!) impatti con un effetto risiko sulle difficoltà obiettive  della congiuntura e sulla non troppo smagliante coesione della coalizione di maggioranza.

L’imputazione di non aver blindato il voto, lanciata dall’interessato e da alcuni suoi improvvisati laudatores (unicamente mossi dalla pulsione di impallinare il vertice comunale ed il PD), può, se debitamente analizzata e spiegata, inclinare in senso virtuoso.

Analogamente gli addetti ai lavori farebbero bene a fronteggiare decisamente il temerario assunto, secondo cui il Comune di Cremona, per effetto incrociato, sarebbe rappresentato in seno alla Provincia da un consigliere comunale di destra (manifestamente inviso al centro-sinistra per la verve con cui esercita il ruolo di oppositore della Giunta).

Innanzitutto, in una corretta prassi di rapporti dialettici, l’intensità del ruolo di controllo e di critica non può mai indurre alla delegittimazione dell’opposizione.

D’altro lato, non c’è altro modo, per placcare gli oppositori anche più tenaci e riottosi, che non dargliene (con la buona amministrazione) motivo.

Il nuovo Consiglio Provinciale è istituzionalmente legittimato nella sua unitarietà. E non c’è ragione di pensare che, al di là dell’assenza dal consesso del Sindaco di Cremona, il capoluogo sia rappresentato dalla opposizione consigliare.

Il cui consigliere, pienamente legittimato dal voto democratico, non è sottoposto ad alcun vincolo di mandato; che non sia quello implicito nell’assolvimento dei doveri di buona amministrazione. Il Consiglio Provinciale, che non é la sommatoria della rappresentanza di segmenti territoriali o di mandati partitici,  sarà sicuramente in grado, da par suo, di mantenere una visione complessiva di tutti gli interessi in campo.

Certo a tale feconda interpretazione dei ruoli istituzionali gioverebbe l’aiutino derivante dall’impegno, da parte di tutti, a stare sul pezzo, con animo sgombro dalle polemiche deteriori e con senso di coesione, che il passaggio di una congiuntura complicata pretende da coloro che sono investiti di pubblico servizio.

E.V.

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