Sabato, 20 aprile 2024 - ore 07.02

PIER PAOLO PASOLINI A CREMONA | Sergio Ravelli

Pasolini dal 1933 al 1935 visse a Cremona, nella casa d’angolo tra via Platina e via 11 febbraio, al numero civico 3 e frequentò il liceo ginnasio “Daniele Manin”.

| Scritto da Redazione
PIER PAOLO PASOLINI A CREMONA | Sergio Ravelli

PIER PAOLO PASOLINI A CREMONA | Sergio Ravelli

Pasolini dal 1933 al 1935 visse a Cremona, nella casa d’angolo tra via Platina e via 11 febbraio, al numero civico 3 e frequentò il liceo ginnasio “Daniele Manin”. Lo voglio ricordare, in occasione del centenario dalla nascita, attraverso un brano tratto da Operetta Marina - Romàns).

“La forza con cui Cremona mi aveva colpito, accogliendomi come uno straniero, quasi come un orfano - esponendo davanti ai miei occhi incapaci di giudizio, le sue superfici di pietra, l’antico affaccendarsi umano del centro, le zone erbose della periferia fluviale - si era attutita contro quella mia remissività, cresciuta all’interno, con la nuova forma che in me aveva preso mia madre: leggerezza, dedizione, miste a una serietà che era addirittura intransigenza.

Si usciva di casa, all’angolo di via Il Febbraio, e, lasciate a destra le strade, così crudamente cremonesi, che percorrevamo ogni giorno per andare al Ginnasio, ci si spingeva lungo i biancastri, sonori selciati in direzione del Teatro Ponchielli, dove la città si faceva più vuota, e quasi sconosciuta. Così giungevamo alla impolverata piazza, dimessa come quelle delle fiere paesane, dove cominciava il viale del Po; le ultime chiazze di neve tra le rotaie del tram che solitario si dirigeva sotto le file nude dei castagni verso il capolinea del fiume, sopravvivevano rigide allo splendore che le distruggeva, ai biancori che laccavano il sereno.

Quasi con sgomento, il viale terminava contro la breve salita che portava al ponte; le file dei castagni si interrompevano, sul capolinea abbandonato, e da una parte e dall’altra si distendevano, le cespugliose, disordinate campagne, limitate contro il cielo dagli argini invernali.

A sinistra scendevano su un piatto, sporco prato, contro scarpate, ripari e terrapieni che empivano lo stesso orizzonte, le strade per cui si scendeva al livello del fiume, e la stradina interdetta della Baldesio. Ma noi lasciavamo da una parte quei siti invasi dalla civiltà, quegli avamposti appena costruiti e già in rovina, malgrado le fresche vernici turchine dello chalet e delle barchette allineate sul sabbione, malgrado la ferrea ossatura del ponte tra i cui piloni il fiume si faceva spaventoso; e giungevamo alle boschine, assetati dallo spazio che ingoiava gli sguardi sul pelo torbido dell’acqua, immenso specchio fangoso che trascinava con se il cielo contro le rive ancora friggenti del biancore della neve.

Davanti alla corrente del Po, niente avrebbe potuto spostarmi fuori dal campo della mia uniforme fantasia. Il solo vederlo; riaccendeva, come in un vastissimo solco, già da tempo profondamente scavato in me, l’immagine di un mare; ma, poiché il mare non lo avevo mai visto se non nei versi e le figure dell‘Odissea, o nelle brucianti inquadrature della Tragedia del Bounty e dei Capitani coraggiosi, dal Po prendeva la vertigine, la torbidità, moltiplicandole migliaia di volte ma fissandole in uno splendore salato, abbacinante, fossile; si presentava, quell’immagine, non appena ci fossimo avvicinati al pelo dell’acqua, a sporgerci nel vuoto, mescolando l’odore che la corrente sommuoveva dalla superficie dell’acqua, odore freddo, vegetale, con quello, tutto mentale, dei grandi golfi, delle spiagge dei tropici.

Nei cavi meriggi dei giorni di scuola, e, in quelli di vacanza, anche nel chiarore del mezzogiorno, echeggiava tra le nitide rampe delle scale di casa mia, il richiamo alla moglie lanciato dal vecchio padrone di casa alla più radicalmente cremonese di tutte le persone di quella Cremona divenuta mia patria pareva scandire, con distacco nel mio umorismo di impube, già cosciente, una vita insostituibile, unica; tutto il passato aveva la prospettiva della çasa di via 11 febbraio, con la vita dei vicini che ne aveva preso la famigliare durezza, delle poderose superfici del Duomo piantate contro il cielo a elevarvi, in abbandono, la città appiattita ai loro piedi, o delle strade verso il Po e dello stesso, barbarico corso del fiume”.

Fonte pag FB di Sergio Ravelli (Cremona)

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