Quando è arrivata la prima notizia, un gelido e laconico comunicato sul più grande disastro dell’era nucleare, l’impossibile era accaduto già da un bel po’, da più di due giorni.
All’una e 23 minuti di sabato 26 aprile 1986, al culmine di un’incredibile sequenza di errori umani, il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl era esploso e, con la spinta di 1700 gradi di calore, attraverso il tetto squarciato, si era levata nel cielo notturno dell’Ucraina una meravigliosa palla di fuoco. Non una casa distrutta né un ponte saltato e neppure un albero divelto: non era esploso un ordigno nucleare ma il potenziale radioattivo di quel reattore da mille megawatt elettrici, che conteneva un miliardo di curie, era pari se non superiore a quello della bomba di Hiroshima. Il reattore si era trasformato in un camino nucleare: a contatto con l’aria la grafite aveva preso fuoco, la temperatura era aumentata e i vapori caldissimi avevano proiettato nell’atmosfera, fino a 1200 metri di quota, una micidiale miscela di radionuclidi. Era cominciato allora il lungo viaggio senza frontiere, su tutta l’Europa e oltre, della nube radioattiva che avrebbe scaricato al suolo prima le sostanze più pesanti e lentamente disperso le più leggere e gassose. La palla di fuoco e la colonna di fumo avevano segnato l’inizio di un dramma il cui epilogo sarà scritto solo fra qualche decennio.
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In allegato una scheda sul disastro di Chernobyl
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