Lunedì, 06 maggio 2024 - ore 14.37

In memoria di Pianosa di Rosario Indelicato, ex detenuto

Dal Libro "Fuga dall'Assassino dei Sogni", in allegato il settimo -e ultimo- capitolo dell'Appendice: "In memoria di Pianosa" di Rosario Indelicato Il libro di Carmelo Musumeci e Alfredo Cosco "Fuga dall'Assassino dei Sogni"- Edizioni Erranti non è solo un libro che parla di carcere. E non è solo un racconto romanzato.

| Scritto da Redazione
In memoria di Pianosa di Rosario Indelicato, ex detenuto

Fuga dall'Assassino dei Sogni, che vanta la prefazione di Erri De Luca, ha un'importante Appendice dove sono state raccolte alcune incredibili testimonianze su quello che è successo nei  "carceri speciali" delle isole di PIANOSA e ASINARA, agli inizi degli anni '90.   

In memoria di Pianosa di Rosario Indelicato .Sono stato arrestato nel 1992 a maggio. Mi trovavo nel carcere dell’Ucciardone con altri detenuti, nella seconda sezione, addirittura non avevo neanche l’associazione di stampo mafioso. Avvennero le stragi e, dopo l’ultima, vennero a prenderci alle tre di notte:

“Dobbiamo fare la perquisizione.”

Allora dissi:

“Devo prepararmi, devo prendere qualcosa?”

“No, no, vada nel cortile che dopo la perquisizione risalirete tutti.”

“Va bene.”

Scesi con un paio di jeans e una camicia e mi buttarono lì nel canile, così chiamavano le celle di isolamento. Dopo tre ore cominciarono ad arrivare carabinieri, polizia, finanza.

“Ma cosa sta succedendo?” pensai.

Ci caricarono sopra i blindati, ci portarono all’aeroporto di Punta Raisi e da lì a Pisa, dove ci fecero salire sugli elicotteri militari. Ricordo un particolare, terrorizzato com’ero dalla visione del carcere che non avevo ancora fatto, un capitano dei carabinieri contava i detenuti ammanettati sull’elicottero a voce alta, per comunicare agli altri quanti eravamo sull’elicottero, puntandoci contro la pistola.

Arrivati a Pianosa, tra di noi c’era qualcuno più vecchio che già immaginava cosa sarebbe potuto succedere. Io, invece, ero ignaro.

Sinceramente non avevo la cultura del carcere pesante. Comunque ci portarono nelle celle (…) Passò un giorno e poi cominciò l’inferno.

Successe di tutto: legnate, manganellate, acqua tirata addosso, sputi, spinte, fatti cadere a terra.

Ricordo che si cercava di normalizzare la situazione facendo fare delle denunce ai propri familiari. Ricordo che venne addirittura la Maiolo, venne Taradash, vennero altri politici, ma durante le loro visite tutto risultava normale perché le guardie, dietro di loro, ci imponevano di stare zitti, per cui nessuno, per timore, diceva cosa eravamo costretti a subire e la cosa durò per mesi.

Io lì dentro trascorsi cinque anni, un mese e venti giorni. Io ho brutti ricordi, brutti ricordi e dico solo che la violenza è generatrice di violenza e se ad una persona tu levi la libertà, le hai già levato tutto e non c’è più bisogno di infierire con altra violenza su quella persona che magari vuole riscattarsi. Non ce n’è bisogno soprattutto quando la persona viene infangata nell’onorabilità, come avviene nel caso di molti siciliani, di molte persone… Lasciamo stare queste cose, io sono uscito a testa alta da tutti i processi.

Il discorso invece è un altro: lo Stato si è prestato a queste direttive che trovo vergognose. Vorrei che mi si spiegasse perché su di me si è fatto un crimine, perché per questo crimine non sta pagando nessuno, anche se ho denunciato gli artefici di questi abusi? Volevo rispondere al Dottor Palma, della Commissione Europea, che in Italia gli autori di questi abusi, pur essendo stati condannati, non hanno espiato un giorno di pena e si ritrovano attualmente a lavorare all’interno del carcere, quindi non è cambiato niente.

Una volta per curarmi quattro denti, mi portarono dal dentista e questo mi disse:

“Togliete le manette al detenuto.”

“No, no, operi così” gli risposero.

“Guardi che deve anche sciacquarsi.”

“No, no, operi così e basta, stia zitto.”

Allora si misero in sette-otto, chi con le pinze e chi con lo scalpello, a tirare il dente, il medico ebbe paura e questo è riportato nella mia denuncia. Questo medico per paura decise di intervenire lo stesso sul dente, ma non capì quello che stava facendo, tant’è vero che mi rovinò il dente buono e tralasciò di intervenire su quello cattivo. Alla fine mi disse:

“Fra 15 giorni ci vediamo e completiamo il lavoro”, ma vedevo che era più terrorizzato di me. Quindi venni messo sul blindato e massacrato (uscimmo dalla sezione Agrippa per andare in un carcere dove c’erano gli ergastolani che andavano a lavorare fuori). Questo avvenne il 22 dicembre 1992. Ero stato portato lì il 20 luglio. Figuratevi quello che avevo già passato.

Mi portarono in cella, massacrato. Passarono 3 giorni, arrivò Natale e mi diedero da mangiare patate bollite e pasta condita con margarina fredda, tutte cose appiccicate. Non mangiai niente, buttai tutto ed andai a letto, dopo i primi mesi avevo perso 16 chili. Il 27 vennero a prendermi in cella, io non volevo mai uscire per non prendere legnate. Sistematicamente tutte le volte che si usciva c’era la perquisizione corporale, dovevamo fare piegamenti perché dovevano vedere se eventualmente nascondessimo qualcosa nelle parti intime; dovevamo aprire la bocca, ci infilavano le dita nelle orecchie, facevano tutto quello che potevano…

Sicuramente ricevevano delle istruzioni, delle direttive di qualche psicologo o psichiatra, perché non erano persone intelligenti quelle che si adoperavano a fare queste cose, per cui le direttive dovevano arrivare dall’alto.

In 27 dicembre, come dicevo, mi portarono dal comandante e questo guardò i miei mandati di cattura, ne avevo già tre, e disse:

“Guardi che lei ha una brutta posizione.”

Io sempre con la testa bassa e con le guardie alle spalle, gli risposi:

“Guardi, se lei pensa che la cosa possa toccarmi, si sta sbagliando, perché lei su di me non può dare nessun giudizio, questo lasciamolo fare ad un tribunale e vedrà che la mia onorabilità verrà pulita nuovamente, non infangata come in questo momento.”

“Ma lei vuole andare a casa?” mi disse il direttore.

“No, no. Io a casa non ci voglio andare. Io le chiedo solamente di finirla con queste vessazioni, queste legnate, queste torture, queste cose. Guardi che io a casa ci andrò a tempo debito.”

Lui non fece nessun cenno e disse:

“Può andare.”

Quando mi girai e già stavo uscendo dalla porta, seguito dagli… diciamo aguzzini, non voglio neanche chiamarle guardie per non infangare chi veramente fa questo lavoro con rispetto verso l’umanità, il direttore mi disse:

“Sa, Indelicato, se ha ricevuto minacce a casa…?

Risposi:

“Sono 13 mesi che non faccio colloqui. Sa perché non faccio colloqui? Perché mia moglie, ogni volta che viene qua, viene vessata più di me. Deve subire le perquisizioni corporali, deve fare i piegamenti, deve fare tutto, mia moglie, che non c’entra niente, e anche miei figli, che non c’entrano niente con queste torture. E allora io, siccome sono stato scelto come agnello sacrificale, preferisco subirle solo io le torture, per cui qua colloqui non ne faccio. Dunque, lei sa meglio di me se, visto che c’è anche la censura, posso ricevere informazioni in merito a quello che mi sta dicendo.”

Me ne andai, ma l’idea che la mia famiglia avesse potuto subire delle intimidazioni mi rimase in testa. Anche quella era una mossa psicologica, loro cercavano di smontarti, di creare il pentito. Questa è la realtà ed in molti casi ci sono anche riusciti, molte persone si sono pentite e molte persone si sono anche suicidate… e persone che, forse la dico grossa, sono state costrette o sono state proprio uccise (…)

Andai in cella e cominciò tutta ‘sta trafila. Era il 27 dicembre e non ricevevo neanche la posta, mi avevano bloccato tutto. Feci un telegramma perché volevo venisse il mio avvocato, ma il telegramma non partì, quindi la risposta non arrivò. Comunque per due mesi stetti malissimo, non ci stavo più con la testa. Poi dissi ad un detenuto della mia sezione, che andava al colloquio, di chiedere al suo avvocato di mettersi in contatto con il mio, perché venisse a farmi visita per darmi delucidazioni in merito a quello che mi aveva detto il direttore.

Così venne e mi disse:

“No guardi, tutto a posto, tranquillo.”

A quel punto capii che si era trattato di un altro tipo di tortura.

Al pomeriggio mi portarono tutta la posta, c’erano un bel po’ di lettere, di telegrammi, di auguri di amici, fratelli e così via.

Tra le altre torture c’era il dover correre, quando si usciva dalla cella, per tutto il primo braccio; io mi trovavo alla nona cella, il primo braccio era 15 metri, c’erano altri 15 metri per arrivare al cancello dell’aria e lì, sistematicamente, si mettevano in 15, 20 o anche 30 guardie, il numero dipendeva da quante di loro volevano partecipare al gioco. Ci facevano togliere le scarpe, ci perquisivano, poi, mentre recuperavamo le scarpe buttate a terra, c’era chi ci dava una pedata, chi una manganellata, chi una spinta, chi sputava, chi ci buttava acqua; capitava si scivolasse nella curva ed erano nuove botte. Durante una di queste giornate, una guardia mi disse:

“Lei quando esce all’aria, quando esce dalla cella non deve correre.”

“Guardi, io non lo capisco se corro o se ho corso, perché non ho più cognizione di causa per capire quello che faccio.”

“No, lei non deve correre. Prego si accomodi” e aprì il cancello, mentre uno di dietro mi diede una pedata alla schiena, caddi all’interno dell’aria e lui mi chiuse il cancello, incastrandomici dentro il ginocchio destro… Uscito di lì, cioè una volta che la mia situazione venne chiarita, dovetti sottopormi anche ad un’operazione a quel ginocchio.

Comunque, questa fu una delle tante cose subite. Un’altra la subii durante una perquisizione, quando uno di loro mise in scena un atto eroico per il quale ancora oggi non saprei come ringraziarlo! Mi afferrò lo scroto e lo tirò talmente forte che si staccò una vena all’interno.

Caddi a terra e lì subii un altro pestaggio, mi alzai ma non potevo fare più niente: ero come una noce dentro un sacco, non potevo parlare perché il fatto che avessi il processo a Marsala, comportava il mio trasferimento e dalla relazione volevano che ne emergesse un quadro chiaro, che non parlassi con nessuno, che non facessi nessuna denuncia, altrimenti sarebbero stati problemi seri.

Ritornato lì ritrovai il persistere di quello stato di cose: vetro, detersivo, preservativi nella pasta, sputi in faccia durante la notte, quando venivano a svegliarmi; mi chiamavano, andavano allo spioncino a chiedere cosa volessero e, nel momento in cui mi affacciavo, mi dicevano:

“Come si saluta?”

Dicevo:

“Buonanotte…”

“Come si saluta?”

Insistevo:

“Buonanotte…” e seguiva lo sputo.

Urlavano:

“Buonanotte signore.”

Allora dicevo:

“Buonanotte signore.”

Andavo a letto e non spegnevano più la luce, per cui le zanzare facevano festa.

Un giorno ebbi delle coliche renali, mi presero e mi portarono dal medico, che mi prescrisse da bere tre litri d’acqua al giorno. In risposta mi portarono alle celle d’isolamento e continuarono a darmi un litro d’acqua al giorno. Mi piegavo per il dolore, non riuscivo a stare in piedi e quando mi abbassavo arrivava qualcuno di loro a dirmi:

“Alzati, devi stare in piedi. Non c’è gioia nel vedere che abbassato trovi sollievo al dolore.”

Queste sono state alcune delle migliaia e migliaia di situazioni che mi sono capitate durante la mia detenzione a Pianosa.

Una volta dovevo andare al colloquio, loro vennero a prendermi all’aria e mi dissero:

“Lei deve andare al colloquio.”

“Io qua sono, pronto.”

Non avevo niente con me, da Palermo non ci avevano fatto portare niente.

“Vada in cella, che poi la veniamo a prendere.”

Così andai in cella e quando arrivò il momento di uscire misi le mani al muro perché dovevano perquisirmi, all’inizio la perquisizione era fatta manualmente, poi si attrezzarono con i metal detector. Dopo questa perquisizione, uno mi fece:

“Ma lei, quando esce dalla cella” ci eravamo visti un minuto prima “non saluta?”

“Ho detto buongiorno poco fa quando sono uscito, poi siete venuti a prendermi e vi ho salutato, sono entrato in cella e vi ho risalutato, sono qua e vi ho detto buongiorno.”

“No, no, no. Come si dice?”

Il buongiorno signore non mi usciva, non ce la facevo, non mi usciva e, sistematicamente, prendevo le legnate.

“Vi ho detto buongiorno” ripetei, sempre con le mani al muro, e mi arrivò da sotto le braccia, che tenevo alzate, un pugno qui, nell’occhio. Io ho fatto il pugile professionista e so cosa significa prendere le botte, ma neanche in vent’anni di pugilato ho preso tutti i pugni che ho preso lì dentro. Mi si gonfiò l’occhio. (…)

Mi presero uno da un braccio e uno dall’altro, stringendo così forte da conficcarmi le unghie nella carne, tanto da farmi sanguinare il braccio, e mi portarono nella saletta, mi fecero ancora una volta spogliare e rivestire e poi mi presentai al grande pubblico, cioè mio fratello e mia moglie. La situazione era disastrosa, non riuscivo a contenere la rabbia, avevo paura di qualche reazione scomposta di mio fratello, allora dissi:

“State calmi, non è successo niente, state tranquilli che piano piano ci rimettiamo.”

In questo modo loro facevano pressione sui miei familiari. C’era qualche familiare che diceva:

“Se tu hai qualcosa da raccontare, raccontala e te ne esci” cioè cercavano di fare pressione sui familiari affinché loro, a loro volta, la facessero su di noi. Ho fatto anche colloqui di due minuti. Ti portavano là e poi:

“Signora, si deve preparare perché il mare si sta mettendo brutto, deve partire.”

“Ma guardi che sono arrivata ora…”

“Signora non insista, prego si accomodi.”

Questa cosa l’ho subita due volte. Un minuto di colloquio, un colloquio al mese, mi costava tre milioni. Un’altra cosa che mi ricordo e ricordo bene - credetemi che ne sono passati di anni, però sono cose che non riesco a cancellare - è che lavavo la cella ogni giorno e la mattina la lasciavo tutta bella e sistemata, per un detenuto occupare il tempo, lavare qualcosa, lavare qualche indumento, lavare la cella, fare le pulizie significa non oziare, occupare il tempo e non pensare a come andrà a finire, a quanti anni hai da scontare. Un giorno lavai la cella la mattina, rientrai dall’ora d’aria alle 11.00 e loro presero un prodotto, non so cosa, e lo buttarono dentro la cella, gli occhi cominciarono a bruciarmi e mi fecero:

“Era sporca, comincia a pulire la cella.”

Dentro le docce si entrava come mandrie, come tori (anche perché ci chiamavano così) quando passano attraverso il valico. Dopo che c’eravamo bagnati ed insaponati, loro chiudevano l’acqua e urlavano:

“Fuori. Avanti un altro… avanti un altro.”

Le persone anziane soffrivano molto per queste cose, a volte scivolavano. Insomma, sono tante le cose che potrei dire, c’è da dire molto anche dell’enorme cattiveria che c’era all’interno. Si sono fatti dei crimini che non hanno una giustificazione. Credetemi, io da incensurato non dovevo essere portato lì a Pianosa. Che c’entravo io a Pianosa e che c’entravo con quello che aveva la pena definitiva? Se il carcere deve essere rieducativo non c’entra nulla la repressione. Su chi la esercitano la repressione? Su quelli che sono dentro e che non si possono nemmeno difendere?

Io ho avuto come avvocato, in Cassazione, l’onorevole Alfredo Biondi, che venne a Piombino per presentare l’appello in Cassazione e disse a mia moglie:

“Signora, guardi che suo marito lì non ci può stare, suo marito è un semplice indagato e lì non ci può stare, vedrà che le cose cambieranno.”

Mi hanno rinnovato il 41 bis per 11 volte; (…) non ero mai stato in carcere, non avevo mai avuto sequestri di beni, non ero stato nemmeno sottoposto a vigilanza. Ho subito tutte queste cose da semplice incensurato (…)

Rosario Indelicato, ex detenuto  

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