Venerdì, 26 aprile 2024 - ore 01.15

L’Eco Lingua e tradizioni locali Trilogia Natalizia

Un recente dossier, pubblicato da un importante quotidiano nazionale, segnala che si stanno perdendo per strada linguaggi, strutturati nel corso di secoli e per secoli praticati a livello di massa (per non dire totalitariamente ed esclusivamente, negli ambiti territoriali).

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L’Eco Lingua e tradizioni locali Trilogia Natalizia

L’Eco Lingua e tradizioni locali Trilogia Natalizia 

Un recente dossier, pubblicato da un importante quotidiano nazionale, segnala che si stanno perdendo per strada linguaggi, strutturati nel corso di secoli e per secoli praticati a livello di massa (per non dire totalitariamente ed esclusivamente, negli ambiti territoriali).

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Con essi se ne stanno andando, dal radar della quotidianità come dal campo dei riferimenti comunitari, le culture, le tradizioni, gli usi ed i costumi ad essi correlati.

Le lingue locali, articolate secondo scansioni più o meno significative discendenti dal livello di relazione e comunicazione del territorio, già significativamente ridimensionate nell’uso corrente dalla convergenza linguistica, speculare, un secolo e mezzo addietro fa, all’unificazione nazionale, sono state poi messe nell’angolo da quell’aggregato glottologico risultante dall’influenza  formativa dell’elettrodomestico, che dal 1954 imperversa (e non sempre con i risultati virtuosi degni delle sollecitudini del maestro Manzi) nella  Penisola.

Donde è scaturita una lingua, non esattamente degna della Crusca, fortemente fagocitata  dalla prevalenza degli slangs delle lingue locali del centro-sud; di cui si è da oltre mezzo secolo alimentato, più che la comunicazione, l’intrattenimento televisivo (indiscriminatamente core business  dei network pubblici e privati e, ad un tempo, vertice del gradimento dell’utenza).

Una siffatta convergenza avvenne anche nel melting linguistico che caratterizzò l’integrazione di grandi entità territoriali/amministrative, come gli USA.

La cui lingua ufficiale o quasi, parlata dall’82% della popolazione, è essa stessa fortemente caratterizzata dagli approdi sul continente di una sovrabbondanza di nazionalità.

Quando una certa dittatura dogmatica vuole, per intenerire il core (come nel caso della campagna dello ius soli), ricorre a narrazioni immaginifiche (la vulgata del bimbo di colore, nato in Italia, che parla il dialetto del territorio in cui ha ricevuto accoglienza). Sarà! Ma, incontrovertibilmente, si è in presenza di cambiamenti, che, nel breve volgere di tempo, stanno profondamente eradicando impostazioni consolidate. Di sicuro, la transizione dall’analogico al digitale ha determinato un’evoluzione, più che tecnologica, culturale.

A livello non solo di liofilizzazione del linguaggio, ma anche di semplificazione del costrutto ed in prospettiva dell’articolazione del pensiero. Con effetti, temiamo, invalidanti.

Premesso che non ci collochiamo in alcun modo in posizione antagonistica alle tendenze di una mondializzazione virtuosa (tra cui l’adozione come prima lingua parlata dell’inglese e l’uso delle moderne tecnologie comunicative), non possiamo girare la testa di fronte al fatto che l’opzione di delisting definitivo delle lingue locali porterà inevitabilmente all’annullamento dell’influenza delle tradizioni e delle culture locali.

D’altro lato, andrebbe aggiuntivamente considerato che l’utilizzazione prevalente od esclusiva dell’inglese, come lingua di lavoro, di frequenti spostamenti internazionali, di interlocuzione nei consessi mondiali o continentali, incardinando una tendenza apparentemente inarrestabile (talché viene anticipata negli ambiti formativi), pone questioni non esattamente marginali di tenuta  del pluralismo culturale.

Soprattutto, nella temperie marchiata dall’imperativo delle tre e; una delle quali, l’english, peserebbe, almeno in teoria, come una spada di Damocle sulle probabilità delle lingue locali di incanalarsi, anche solo nella praticabilità sussidiaria, verso il destino di idiomi morti.

D’altro lato, più di un anno fa ci chiedevamo se, essendoci un’abitudine a formare il pensiero in dialetto, si otterrebbero livelli più avanzati di pensiero? Bella domanda! Inequivocabilmente, la lingua locale dovrebbe recuperare, rispetto alla lingua nazionale e agli effetti colonizzatori di quelle straniere, il gap glottologico dei quasi due secoli trascorsi. In cui nessuna o ben poche delle evoluzioni del pensiero, della scienza, della tecnica sono state anticipate o anche solo armonizzate dal linguaggio “locale”

E’ bene che i dialetti sopravvivano?

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