L’ECOISTITUZIONI Dalle velleità dell’abolizione/restaurazione delle Province
Un monito per il rilancio del territorio Come doverosa premessa, rivolta agli sparuti ma attenti lettori di questa testata, ricordiamo che la nostra ideale (e problematica) appartenenza al perimetro di questa (nel caso ancora ci fosse) sinistra riformista non ci esime assolutamente dall’assolvere (decentemente) i doveri deontologici di informazione.
Né, tantomeno, dall’aderenza all’’imperativo di sostanziare questo flebile e riluttante legame politico con rigorose testimonianze critiche e riflessioni ispirate da analisi fattuali.
Questo preambolo é per chiederci e chiedere a quale proverbiale genio della lampada possa essere venuta in mente l’idea di chiamare nelle nostre terre, a supporto dell’ultimo miglio della campagna elettorale del PD e di candidati-sindaco dem (che si sta rivelando non esattamente né una passeggiata né tantomeno una cena di gala), un influencer del calibro dell’ex ministro Graziano Delrio.
Il quale, a voler essere precisi, non sarebbe un esordiente nel panorama cremonese e padano. Che lo stesso, nel ruolo politico ed istituzionale, ha negli ultimi anni bazzicato, nell’intento dichiarato di promuoverne le potenzialità (ricorrendo ad un wording essenziale) ciclo-turistiche.
Una prospettiva per alcuni versi edificante ed ascrivibile ad un progetto più ampio di valorizzazione dell’asta padana; nelle cui priorità, però, dovrebbero (considerati la cronicità irrigua, la inarrestabile erosione dell’alveo e delle sponde, lo spreco del regime di portata, l’inutilizzazione delle potenzialità di navigazione interna) trovar posto ben altre realizzazioni.
Ma, evidentemente, i referenti locali di un ministro, che avrebbe dovuto occuparsi di infrastrutture (di cui la nostra provincia, come il resto della Lombardia orientale, è carente) e di trasporti (altro punctum dolens del Paese e della nostra periferia, in particolare) e che, invece, pur non avendone titolo espresso, si è (prevalentemente) speso per lo ius soli e l’accoglienza, devono essersi sentiti appagati degli affidamenti per la realizzazione di qualche chilometro di piste ciclabili sulle sponde del Grande Fiume.
E, bisognerebbe aggiungere visto che l’hanno coinvolto nella pugna elettorale locale, devono aver stimato imperdibile il potenziale indotto di una sua visita pastorale.
Per il vero, il sunnominato, che fu uno dei massimi esponenti del cerchio magico renziano (salvo abbandonare il leader alle prime avvisaglie critiche) e che nel suo cursus honorum può annoverare una sindacatura del Comune di Reggio Emilia e la presidenza dell’ANCI, ha, all’apice del suo cursus honorum (sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri), ritenuto inderogabile lo sconfinamento nelle questioni istituzionali.
Sua, infatti, la legge ordinaria n. 56 del 7 aprile 2014, comunemente detta Delrio, mirante ad una temporanea trasformazione dell’ente territoriale intermedio (Provincia), nel quadro e in vista di un più ampio ridisegno istituzionale, (colpito ed affondato dal responso popolare nel dicembre 2016).
La nostra testata, pur nella denuncia delle numerose contraddizioni e mende di uno sforzo riformatore che comunque ebbe il pregio di porre la questione della modernizzazione/efficientamento dello Stato, si era schierata a favore del SI’. Ma aveva manifestato, con dovizia di argomenti critici, totale contrarietà nei confronti della Legge Delrio (che ne era una costola, sia pur marginale).
La motivazione/stroncatura da parte degli ambienti anti-renziani (soprattutto, nel campo del centro-sinistra) del referendum confermativo della legge Renzi-Boschi discendeva da una sentenza apodittica ed inappellabile: si tratta di “un pastrocchio”. Secondo chi scrive la riforma era tutt’altro che perfetta. Ma noi la sostenemmo perché, dopo infruttuosi decenni di chiacchiere e di tornanti, era un primo, perfettibile segnale di volontà riformatrice.
A settanta e passa anni dalla punzonatura della Costituzione “più bella del mondo” non v’è chi responsabilmente non veda l’esigenza ineludibile sia di un efficientamento delle procedure di formazione delle leggi sia di una significativa riallocazione dei poteri.
Ma tant’è, colpita ed affondata la progettualità renziana, questa problematica è totalmente scomparsa, nonostante l’evidente permanenza della criticità, dal radar politico-istituzionale.
Per chiudere la digressione, laterale ma non incongrua al tema in trattazione, ci pare di poter sottolineare l’inderogabilità di un passaggio riformatore: il varo di una Costituente che affidi al popolo la scelta strategica della riforma istituzionale.
Tornando, come si suol dire, a bomba, la legge Delrio, anziché porsi, come abbiamo già lumeggiato, in coerenti e realistici termini anticipatori di un progetto di più ampio respiro (la ricalibratura dell’ordinamento amministrativo periferico), si è, sin dalle prime battute, collocata nell’ottica pelosa della spending review. Come se si fosse trattato, al pari, per dire, del CNEL (un combinato scandaloso di inutilità e di spreco), di una questione di taglio dei privilegi della casta politica.
Si puntò il dito, già a partire dal 2011, contro i 50.000 percettori di emolumenti e stipendi (un viatico che buca immediatamente ll’immaginario moralistico). Da allora, iniziò la campagna per la riduzione del numero delle Province attraverso il loro accorpamento (area vasta) che, collocando l’asticella della misura minima di bacino a 300.000 abitanti, aveva come traguardo lo scomputo di 36 entità amministrative. La velleità si è persa nelle nebbie, senza ottenere risultati, se non una malmostosa coda di mene e di fibrillazioni politico/territoriali; soprattutto nei contesti (come il nostro) in cui l’attuale storico azzonamento mantiene, pur con qualche dermatite, le sue ragioni.
Simultaneamente, con la legge 54, veniva bloccato il meccanismo elettivo (diretto) degli organi, affidandone la selezione ad un corpo elettorale di secondo livello(gli eletti nei Comuni facenti capo alla giurisdizione territoriale). Per di più, (unico caso in un bulimico ordinamento mestierizzato), gli eletti (sia pure di secondo livello, ma non di meno gravati di adempimenti esattamente uguali all’inquadramento precedente) venivano privati di emolumenti e spese. Fatto questo che in sé non sarebbe biasimevole, se la regola fosse applicata in modo generalizzato alle decine di migliaia di investiti di ruolo amministrativo (retribuito).
Sia come sia l’abolizione (di fatto) dell’Ente (ma non delle funzioni) ha portato disastri e non ha generato risparmi.
Il devastante intervento suggerito da cecità politica e insipienza amministrativa concausa della debacle del 16 dicembre 2016 e del 4 marzo 2018 (come lo ha definito di recente su Italia Oggi il giornalista Domenico Cacopardo, acuto analista delle vicende istituzionali ed amministrative), è continuato come una slavina.
Per di più, come ha recentemente osservato su Agenpress il cremonese (di origini) Dario Balotta, candidato per la lista Europa Verde, la “riforma Delrio” ha svuotato l’ente intermedio delle competenze, in parte cannibalizzate dalle Regioni. Che hanno avocato a sé quelle più appetibili (dal punto di vista dell’indotto gestionale/clientelare), lasciando in capo alle Province, estenuate dal taglio dei trasferimenti statali e del personale, la gestione di 130000 km di strade, di migliaia di ponti e sovrappassi e della sicurezza di 5100 scuole superiori. Settori che pur sempre costituiscono (specie per i territori periferizzati dal centralismo nazionale e regionale) un aspetto non secondario della vita comunitaria.
Tutto ciò è avvenuto, in sovrappiù, nella più totale neghittosità nei confronti della riqualificazione delle attribuzioni e della eventuale rideterminazione degli ambiti territoriali dell’ente intermedio.
Per patria carità, non tentiamo qui neanche un minimo accenno alla questione della Provincia metropolitana che, per quanto stricto sensu non vi apparteniamo, resta nodale nell’economia generale di una Regione nevralgica e complessa com’è la Lombardia.
In considerazione di due aspetti rilevanti.
In primis, del fatto che, a partire dalla cosiddetta Seconda Repubblica, le gestioni di centro-destra hanno accentuato un impulso centralistico, giocato sul ruolo esclusivo dell’area metropolitana e sul privilegio delle fasce pedemontane (dove forte, notoriamente, è la propensione del senior partner del centro-destra per la politica di scambio), a scapito dell’area sud-orientale.
In secundis, della prospettiva discendente dalla più ampia questione della devoluzione di materie dallo Stato alle Regioni (“autonomia rinforzata”); che, operata su un terreno, che si preannuncia manifestamente inconsiderato, provocherà senza ombra di dubbio sconquassi in un paese finanziariamente inguaiato ed incamminato ad un incerto destino di permanenza nell’élites delle democrazie avanzate. Un Paese che non può assolutamente sostenere il costo di due apparati (statale e regionale) legittimati ad interpretare funzioni, inefficienze e sperperi sovrapposti.
Tali sconquassi si riverbereranno sul già insoddisfacente equilibrio tra le aree metropolitane e le aree periferiche o marginali che dir si voglia dell’istituzione Regione, che, nel corso del suo ormai quasi mezzo secolo di cursus si è rivelata ancor più centralistica di quello Stato (che avrebbe dovuto decentrare).
Alla fine degli anni sessanta, contestualmente al varo delle Regioni, si era posto il problema del superamento dell’ente provinciale, nel presupposto che la Regione, prevista dalla Costituzione ma affidata alla potestà istitutiva dell’organo legislativo, costituisse (anche sul piano del coordinamento territoriale) congrua alternativa come livello intermedio tra Stato e Comuni.
Come sarebbero andate le cose è noto. E, soprattutto, è nota la conseguenza del deragliamento della Regione dalle originarie attribuzioni di ente territoriale legislativo ad una vocazione gestionale bulimica che ne hanno fatto un grande Moloch, capace di cannibalizzare sia lo Stato sia le istituzioni periferiche di rango inferiore.
Di cui pagano maggiormente il fio le realtà geograficamente decentrate, a suo tempo neglette dallo Stato e, si ripete, in misura non minore, da Regioni rivelatesi, si ripete all’infinito, ancor più centralistiche dello Stato centralizzatore.
Che sarà della loro funzione di rappresentanza delle vocazioni e della coesione del territorio, una volta che fosse portata alle estreme conseguenze questa condizione di non soppressione ma di svuotamento e di sospensione?
Nei giorni scorsi si è annunciata la bagarre (che rientra nelle logiche e nei moduli della permanente campagna elettorale) innescata dall’ipotesi di ripristino dell’istituto e dell’eleggibilità popolare; in cui si sta distinguendo, ai limiti della dissolvenza del “contratto”, il vicepremier Salvini.
Il quale è portato a far dimenticare che la Lega a suo tempo non osteggiò la “riforma” (sic!) Delrio. In proposito, azzarderemmo che sarebbe benvenuto un intervento legislativo che, restituendo chiarezza ad un segmento delicato della vita pubblica, ripristinasse, magari aggiornandone l’originario impianto (anche in senso riequilibratore tra Regione ed ente intermedio), la Provincia.
In Italia, Dopo la legge istitutiva del 1865, l’Ente aveva analogie e riferimenti nel modello amministrativo dell’Europa più avanzata (il Dipartimento in Francia, la Contea nei paesi anglosassoni). Il suo organo deliberante, la Deputazione Provinciale, svolse per molti decenni funzioni senza che l’organo fosse elettivo. Tale sarebbe rimasto per il primo quadriennio del secondo dopoguerra ( della Repubblica). Soltanto all’inizio degli anni 50 del secolo scorso l’organo amministrativo sarebbe diventato elettivo (a suffragio universale).
Imputare la degenerazione clientelare a tale circostanza sarebbe arbitrario; come sarebbe assolutamente inappropriato derivare dal reimpianto dell’elezione popolare la ricetta taumaturgica del rilancio dell’ente di secondo livello.
Nell’ottica di un rilancio della Provincia come istituzione di coordinamento sub-regionale e sovraccomunale, quindi depositaria della somministrazione dei servizi tradizionali (scolastici, viabilistici, infrastrutturali) ma anche della gestione delegata di competenze regionali e contestualmente soggetto di coordinamento delle politiche programmatorie sul territorio e nel rapporto con la Regione, si potrebbe ipotizzare una modalità elettiva mista (50% a suffragio popolare, 50% a suffragio degli eletti nei Consigli Comunali).
In tal modo verrebbe suggellata la caratteristica binaria di un ente intermedio investito sia delle politiche territoriali sia della gestione dei servizi sovraccomunali.
Ma, come è intuibile, la soluzione del problema (che, senza essere tecnico non è prevalente nell’economia di una più vasta analisi) è nel grembo di Giove.
Dirimente, invece, è la modalità (e la volontà!) di riavvolgere le conseguenze del disastro operato da Delrio e di riavviare la riforma dell’ordinamento amministrativo. Per essere molto chiari, intendiamo riferirci espressamente alla riforma degli Enti Locali. Nella consapevolezza che agli inquieti e destabilizzanti scenari del problematico rapporto tra politica e cittadini non sono estranee tanto le ingiustizie territoriali quanto la percezione della totale estraneità dei cittadini medesimi dagli ambiti in cui si disegnano le scelte.
Illuminante, da tale punto di vista, è la riflessione di Raghuram Rajan, capo economista al Fondo Monetario Internazionale, in “Il terzo pilastro” (Bocconi Editore); in cui teorizza la restituzione di dignità e ruolo al localismo (“Lo Stato dovrebbe decentrare molte funzioni alle comunità locali, più capaci di essere vicine ai cittadini. Mercato e Stato sono diventati troppo forti e la dimensione locale troppo debole. Riducendo all’osso le relazioni di prossimità”). Aggiungiamo noi che una non secondaria componente dell’aggregato ribellistico in corso discende anche dalle ingiustizie territoriali.
Contemperare un’equa destinazione delle risorse e dei servizi e riconoscere anche alle aree periferiche la facoltà di intervenire nelle scelte strategiche attinenti alla vocazione dei territori implica una volontà di difendere l’aggregato antropico ed istituzionale periferico e con esso di mantenere un presidio di civiltà.
Che è esattamente l’opposto di quanto è avvenuto nell’ultimo mezzo secolo, in cui si sono perpetrati intollerabili divari territoriali nell’accesso ai servizi fondamentali di qualità e al patrimonio comune; suscettibili di produrre un quadro disarmonico.
Per le ragioni ampiamente esposte e per costatazione empirica delle conseguenze scaturite da una elaborazione inconsiderata ed insipiente, ci pare di dover correlare tale analisi generale alle riflessioni che si dovrebbero sempre fare in un’occasione straordinaria quale è il rinnovo dei consessi amministrativi locali.
In aggiunta a tale congiuntura, che dovrebbe suggerire e pretendere consapevolezze e coesione sia negli investiti di ruolo istituzionale sia nell’opinione pubblica, è solo il caso di sottolineare che, in aggiunta agli sfracelli della legge 54, per la seconda volta nell’arco di due anni, si assiste (per effetto di una norma sconsiderata) al cambio di guardia alla presidenza dell’Ente (ma non del Consiglio rinnovato di recente).
Ça va sans dire, per effetto della medesima norma, occorrerà riconvocare il corpo elettorale di secondo livello per rieleggere, tra un po’ il Consiglio. In barba alle difficoltà congenite che abbiamo dettagliatamente denunciato ed a una primaria esigenza di continuità amministrativa.
Con fondi ridotti all’osso, con amministratori già oberati dal sottostante incarico comunale e strozzati dalla mission permanente di fronteggiare servizi fondamentali, con l’incertezza derivante dall’assenza di linee-guida, il mandato che si chiude con la staffetta Viola-Azzali rappresenta un miracolo di dedizione e, tutto sommato per il contesto proibitivo, di buoni risultati.
Va, altresì, detto che in ciò è uscito, a dispetto della endemica rissosità politica, il meglio del deposito civile del nostro territorio. Avendo il Consiglio Provinciale, sotto la guida di Vezzini prima e di Viola poi, raggiunto il massimo della coesione sui problemi. Di fronte ai quali le caratterizzazioni non sono discese dalle logiche di schieramento politico, bensì dalla valutazione dei contenuti.
Se ci è permesso delineare una priorità nelle sollecitudini del nuovo vertice dell’Ente indicheremmo, senza ombra di dubbio, la constatazione della marginalizzazione territoriale, che ha assunto uno stadio, temiamo, di non ritorno.
In aggiunta, infatti, alle conseguenze di un quarto di secolo di scelte che hanno, come abbiamo considerato nelle premesse, destinato risorse in modo palesemente iniquo e penalizzante per le aree periferiche della Lombardia, il centralismo regionale ha operato uno spoil system, ancor più intollerabile: la centralizzazione degli strumenti di gestione dei servizi sul territorio.
Si è cominciato con la cosiddetta “aziendalizzazione” dei presidi ospedalieri, che di fatto ha privato il territorio della facoltà di programmazione e di controllo. Con la conseguenza, da un lato, dell’annullamento della potestà di indicazione del territorio sulla programmazione degli investimenti e dell’ottimizzazione dei servizi e, dall’altro, dall’intollerabile infeudamento delle responsabilità gestionale (che rispondono, con i risultati ben evidenti, meramente a logiche spartitorie e clientelari).
Per la stessa logica ed in omaggio alla ottimizzazione gestionale, si è proceduto a tagli di reparti e di servizi sui presidi ospedalieri minori di intensità talmente elevata da renderne, a questo punto, problematica la sopravvivenza.
Lo stesso criterio ha operato nel campo dei presidi multizonali, oggetto di un accentramento più simile alla rarefazione sul territorio (Aler ed ex PMPIP, per dirne soli due).
Ultima ma non ultima, la questione della Camera di Commercio, un’entità istituzionale incardinata sul ruolo gestionale diretto dei corpi sociali intermedi che, nel corso di molti decenni, aveva dato buona prova.
Buona, ma non al punto di risparmiarsi le forche caudine del progetto “riformatore” delle sessioni “leopoldine”, che ne avevano decretato se non proprio l’inutilità sicuramente un forte ridimensionamento.
Da cui la riforma Madia del riordino degli enti, che per quanto riguarda appunto le Camere di Commercio (105 sino all’inizio degli anni 10 del nuovo millennio) sarebbero state sforbiciate coll’accorpamento/soppressione delle entità con meno di 75mila imprese iscritte.
Con tale criterio sarebbero diventate 60. Con una perdita significativa di 1000 dipendenti e, per quanto riguarda la Lombardia con la creazione di un’unica Camera destinata ad accorpare l’intera asta padana (Pavia, Lodi, Cremona, Mantova). La cui sede sarebbe definitivamente localizzata a Mantova, il vertice orientale estremo. Il che significa, soprattutto per il nostro fondamentale comprensorio cremasco una distanza siderale tra gli utenti e la sede dei servizi camerali.
Fortunatamente talvolta a danno delle gride manzoniane inique operano, in Italia, i proverbiali attriti attuativi. Per farla breve, le forbici si sono fermate a 6 tagli.
Ancor più provvidenzialmente, nell’agosto del 2018 il Consiglio di Stato accoglieva il ricorso proposto dalla Camera di Commercio di Pavia, riformando l’ordinanza del Tar del Lazio 2960/2018 concedendo la sospensiva sull’applicazione degli atti impugnati (d.m. 16.2.2018 del Mise).
Una decisione che, se focalizzata sulla fattispecie di Pavia, non potrà non “far scuola” a vantaggio di una profonda riconsiderazione delle linee di questo inconsiderato “riordino”.
Non vogliamo sostenere che non esitano ragioni e margini per una ottimizzazione della struttura burocratica. Ma, senza impiccarci al gancio del provincialismo, non possiamo non riferire la difesa di entità amministrative consolidate da efficienza ed attenzione al territorio al processo generale che ha cannibalizzato la nostra provincia.
Di passaggio, sottolineiamo una circostanza paradigmatica (troppo presto uscita dal radar delle consapevolezze) rappresentata dal fatto che il territorio ha perso la concessione autostradale (unico caso nazionale, in quanto a tutte le altre società di iniziativa territoriale sono state confermate le convenzioni in house).
Da queste pagine, sentiamo il dovere di appellarci alle rinnovate amministrazioni comunali ed al nuovo vertice provinciale affinché si trovino le condizioni, come ha suggerito la recente Assemblea degli Industriali, “di ridare slancio al territorio”
E sempre per riferirci al condiviso pronunciamento imprenditoriale di tutta la Provincia, indichiamo la “necessità di affrontare i cambiamenti in corso a livello globale: colmare il gap infrastrutturale; rilanciare una nuova dinamicità economica; invertire i trend demografici; potenziare la capacità innovativa e rendere riconoscibile un territorio che sconta un forte gap di visibilità” .
Deve essere questa, a partire da subito, la mission condivisa di tutto il territorio, della sua rete istituzionale, degli operatori economici, dei lavoratori, delle nuove generazioni, in particolare.