Domenica, 19 maggio 2024 - ore 05.58

Donatori magici | A.Melega

| Scritto da Redazione
 Donatori magici | A.Melega

Uno spirito (pneuma) arcaico con le sembianze  di santa Lucia.

Sul saggio <<Il ‘Perturbante’>>, del 1919, Sigmud Freud accenna ai ricordi infantili dello studente Nataniele, riguardanti il mago Sabbiolino, un personaggio di paura che la mamma, dello studente stesso, evocava  per mandarlo a letto presto.

A volte però la mamma, vedendo Nataniele  eccessivamente allarmato, diceva che il mago Sabbiolino non esisteva, e che era presente solo nel parlare figurato, come una sorta di richiamo generico.  L’ambivalente spiegazione non riusciva, però, a tranquillizzare Nataniele.

Questi, allora, chiese una conferma alla governante, la quale non poté fare a meno di confidargli le caratteristiche precise del misterioso personaggio:<<Il mago Sabbiolino è un uomo malvagio, - disse -  che viene quando i bambini non vogliono andare a letto, e getta loro manciate di sabbia negli occhi, così che questi schizzano fuori  delle orbite sanguinando. Allora egli mette gli occhi in un sacco e li porta fuori, alla luce della luna al suo quarto, per nutrirne i suoi figli. Là essi stanno nei loro nidi  e hanno becchi adunchi come quelli dei gufi, che adoperano per pascersi degli occhi dei bambini cattivi>>.

<<Il piccolo Nataniele – scrive ancora Freud – era abbastanza di buon senso e grande da non credere al mago Sabbiolino coi suoi attributi demoniaci, eppure l’orrore per lui gli si era fermato nel cuore>>.

Invece noi, molto più attempati di Nataniele, non possiamo far altro che prendere atto della presenza, nell’immaginario e nel folklore europei, del mago Sabbiolino e dei suoi attributi demoniaci, ed iniziare da qui a mettere insieme le tessere di un mosaico originale, e a rilevare i prestiti, i contagi, i trasferimenti, fra personaggi e personificazioni di figure diverse, presenti in culture apparentemente lontane. Figure che hanno prodotto immagini, racconti, storie, fiabe e leggende, nelle quali si sono depositati, come  i pesciolini preistorici nell’ambra, i segni di diverse concezioni del vivere e del morire, di strati mentali che si sono soprapposti gli uni agli altri, trovando un’alchimia con la quale integrarsi e vivere insieme, in costruzioni distillate dal pensiero collettivo. Fra tali costruzioni dell’immaginario vi sono pure le personificazioni del folklore solstiziale, come ad esempio la nostra sàanta Lüsìa, santa Lucia, creatura della luce, figlia del sole crepuscolare e de la nòt püsèe lóonga che ghe sìa, della notte più lunga che ci sia.

Non si deve dimenticare, in questo approccio, che nel folklore si è in presenza di una valorizzazione piena delle  date del calendario e della qualità dei giorni che passano, così come vi è un intenso nesso fra le ore poste a cavaliere fra due cicli importanti del tempo, e le personificazioni che rappresentano tali date e tali qualità, oltre che  tali magici passaggi temporali.

Un programma di studi folklorici alla scoperta del clan dei Babau della Valle Padana

Avviciniamoci di più, allora, a sàanta Lüsìa, perché noi, insieme al desiderio di vederla, vogliamo soprattutto studiarla in chiave folklorica.  Andremo, quindi, a servirci delle note di un appassionato cultore delle tradizioni cremonesi, Luciano Dacquati, tratte dal libro Ròbe de na vòolta, che sicuramente ci permetteranno di approfondire la morfologia di questa personificazione del solstizio del calendario giuliano, che si è ammantata, lungo i secoli, della figura di una bellissima fanciulla, martirizzata sotto l’imperatore Diocleziano, nel 314 dopo Cristo.

Scrive l’indimenticabile Luciano:

<<La santa giunge, e stanca per il viaggio si ferma a parlare un po’ con i genitori, mentre mangia qualche boccone del cibo preparato apposta per lei in un piatto: di solito pane e salame. Anche l’asinello, nel frattempo, si rifocilla: per esso viene riservata una manciata di fieno o di erba, una minima quantità di farina gialla ed una scodella d’acqua. La santa s’informa se i bambini di casa sono stati buoni durante l’anno: se la risposta è positiva, lascia in casa i regali, se no solo cenere e carboni. Prima, però, si reca in camera da letto, presso i lettini, e controlla che i piccoli dormano: se li trova con gli occhi aperti, butta contro di loro sabbia di Po e scappa senza lasciar nulla>>.

La figura del folklore è apportatrice, dunque, di positività e di negatività insieme, raggiante di un bene intenso, accompagnato nel contempo da un’ombra sottilmente malefica.

La personificazione luminescente  porta in sé una venatura ibrida, che rimanda la sua origine al clan che ha lasciato alle spalle, nel mondo dal quale è giunta. E’ opportuno, ricordare, a questo punto, che la sua positività veniva rappresentata, nel mondo popolare e contadino pre-industriale,  dal dono di dolcetti e di frutta. La sua negatività, invece, è rappresentata, oltre che dal gesto dell’accecamento dei bambini monelli, anche dalla materia stessa usata nella punizione, vale a dire dalla cenere e dai carboni, due attributi tipici del fuoco, procurati, verosimilmente, in un ambiente in cui le fiamme hanno lasciato il segno della propria funzione.

E’ un ambiente, questo, coabitato da una pittoresca compagnia: vi si può scorgere pure l’Òmo nero e il Ciapino o Sciapino toscano, e il Ciaparéen cremonese e la padana Vécia Sìinghena,  tutti personaggi che, al pari del mago Sabbiolino, mettono nel sacco qualcosa di umano – gli occhi, Sabbiolino; i bambini cattivi, gli altri - e li portano via.

L’Òmo nero, come si sa, li porta via per un anno intero; la Befana, invece, solo per una settimana. Invece la Majapütéi, la Mangiabambini, non li restituisce più.

A propria volta, la vécia Pezèera o Pisèera o Pesèera, con la sua catena di ferro ai piedi, i pütéi chi màja mìia la pàasta söta, i bambini che non mangiano la pasta asciutta, e i sàara mìia sö ‘l ös, e non chiudono l’uscio, e quindi disobbediscono, li porta via per la vigilia di Natale, e non si sa bene per quanto.

Come si può arguire, quello dei Babau, è un mondo dell’immaginario complesso ed articolato da vari animatori del pensiero analogico infantile. Esso è coabitato, infatti, da tutte quelle <<presenze minaccianti>>, che sono servite nel tempo, come scrive Alfonso Di Nola, a garantire <<gli statuti d’autorità etico familiare, paterna e materna, che il bambino non può ancora accogliere consapevolmente, e che non può riferire ad una normativa etico-religiosa e etico-laica>>.

I Pée Piàt dai piedi palmati, folletti padani del solstizio d’inverno, parenti stretti degli gnomi e degli elfi  della mitologia nordica

Va aggiunto  a questo riferimento alla  prassi educativa del passato, anche un altro dato folklorico interessante. La cenere e il carbone, infatti, sono i segni di un passaggio, dei personaggi di paura, nell’incolto del bosco, nella foresta, dimora arcaica dei morti, dove pure la Befana va a raccogliere il carbone ancora fumante, là dove, nelle cosiddette piazze lasciate libere dai carbonai, la tradizione vuole che ballino sempre le streghe.

Detto questo, non si vuol tralasciare il nesso che il carbone e la cenere, presenti nell’immaginario popolare, possono esservi giunti come prestiti dal mondo ctonio, sotterraneo, abitato sin dai tempi preistorici da demoni dispettosi,  o dagli gnomi, che secondo il folklore scandinavo sono i figli di Adamo e della sua seconda moglie, Lucia.

Ecco il ritorno di questo nome evocatore della luce, lo stesso del resto proprio della figura dell’asinello. Fra l’altro va ricordato, in questo gioco dei rimandi che s’intrecciano, la stretta parentela degli stessi gnomi, che prediligono l’oscurità della notte ed il buio delle miniere,  con gli elfi, figli a loro volta della luce, e la parentela degli gnomi ed elfi con gli Asi, folletti della mitologia germanica, protettori dei focolari.

Interessante è sapere che gli gnomi nordici, divenuti col tempo invisibili, sono molto permalosi, soprattutto quando si fa riferimento a loro piedi palmati, simili alle zampe di un’anatra.

Certo è singolare la comparazione fra questi nanetti, figli della primordiale Lucia scandinava, e i Pée Piàt di Monticelli d’Ongina, di cui mi parlò, molti anni fa, nonna Dede, un’amorevole signora di Cremona, mamma di Diva Negroni e suocera di Paolo Gozzetti.

I Pée Piàt sono, infatti, anch’essi figure con i piedi palmati, e sono presenti, appunto, nella tradizione orale del borgo sull’Ongina, l’affluente del Po, un tempo marca pallaviciniana e cremonese. I Pée Piàt bussavano alla porta delle case degli umani alla vigilia di Natale, perché bisognosi di cibo e di calore, come tutti gli esseri che provengono dal  mondo altro, allorquando particolari date astrali lo consentono. E non si può non cogliere la somiglianza, quanto meno nei piedi, fra i Pée Piàt monticellesi, con il diavolo con i piedi d’oca, presente nella tradizione orale di Montodine.

Ma tornando alla sàanta Lüsìa del folklore e al riferimento parallelo del racconto di Freud, è evidente come vi sia un rimando comune alla sabbia, altro materiale usato per punire i bambini cattivi.

Per una personificazione solstiziale, per un leggiadro ed ibrido pneuma, tà’me chél de sàanta Lüsìa, come quello della figura magica donatrice, che si muove cu’l so azenéen, col suo asinello, lungo le terre bagnate dal Po, la sabbia non è di certo mai mancata, così come, la rena, la sabbia, non è mai mancata al mago Sabbiolino, potendola egli prelevare addirittura, per magia, dal proprio stesso nome.

La santa Lucia folklorica, che viene tramandata e rianimata dalla relazione d’amore fra genitori e cuccioli d’uomo, vive una filiera tutta propria, circoscritta e caratterizzata dalle sopravvivenze delle tradizioni popolari, comprese quelle religiose, da cui ha attinto la propria denominazione e tutta la componente positiva, compresa la bellezza. Mentre la parte negativa l’ha raccolta altrove, dai sedimenti del folklore internazionale, il quale, a propria volta, è comprensivo dei segni degli antichi calendari solari, dove il capodanno iniziava con il solstizio d’inverno, come nella Russia d’un tempo, che festeggiava l’inizio d’anno il 12 dicembre, venerando Spiridion Solonovorot.

In queste sopravvivenze, la donatrice magica, nella notte fra il 12 e il 13 dicembre, convive, in Occidente, con il  nome della santa martire cristiana siracusana. Lo stessa ‘convivenza’ avviene per san Nicola, donatore magico dei bambini baresi, ladini ed olandesi, nella notte fra il 5 ed il 6 dicembre. Ed altrettanto dicasi per la Befana, nella notte dell’Epifania, fra il 5 e il 6 di gennaio, in moltissime contrade d’Italia.

Quello che vogliamo qui indicare è l’orizzonte di una ricerca ancora aperta. Ossia che la genesi dei donatori magici è pensabile possa essere  sorta in tempi preistorici, frutto di una religiosità primitiva che si è congiunta, successivamente, in modo sincretico, alle nuove religioni che si sono sovrapposte  a quella primordiale. Da qui, possiamo pure ipotizzare che la genesi, la radice del caso specifico di sàanta Lüsìa, portatrice di doni, possa essere collocata non tanto a partire dal martirio della santa siracusana, ma molto tempo prima, allorquando l’uomo, in un’era arcaica,  ha voluto iniziare ad onorare i propri morti, donando ad essi le primizie della caccia e della terra coltivata ed offerte di cibo.

Pensiamo, infatti,  che il cibo, il pasto , siano stati il tramite, la funzione, fra il mondo dei vivi ed il mondo dei morti. E d’altronde così è ancora oggi, quando, in certe circostanze, la famiglia si trova tutta insieme a tavola, soprattutto in riferimento alla sacralità di un giorno particolare dell’anno. Allora, inevitabilmente, si parla di qualcuno che non c’è più, e lo si rende presente nei discorsi, e lo si fa rivivere, come se quel qualcuno amato e ricordato partecipasse all’agape, e si servisse di quel comune cibo con noi. Questo avviene nelle nostre case in modo simbolico.

E cosa dire, invece, della maniera del tutto materiale, propria degli usi delle popolazioni ortodosse della penisola balcanica quando, per il giorno dei morti, esse banchettano ancor oggi intorno alle tombe dei defunti? E che dire pure della Sicilia, patria di santa Lucia, terra nella quale i doni ai bambini non vengono portati dalla santa siracusana, ma vengono portati, nella notte fra il 1° e il 2 di Novembre, dalle Anime Sante?  Il fatto poi che i regali da esse donati vengano chiamati li cosi di morti ci offre un bel campo di esplorazione.

Ci troviamo di fronte, mutatis mutandis, alla legge folklorica  che Vladimir Propp applicò alle fiabe di magia, vale a dire ad una lettura indicativa di una ‘trasposizione di senso’, di un significato che si è spostato nel corso del tempo, e che ha portato ad una radicale ‘inversione del rito’. Ciò che in un tempo lontano veniva offerto ai morti, fu modificato, lungo i secoli, in un ‘dono invertito’ ai continuatori della vita, rivolto insomma ai bambini, a coloro che si presumeva fossero animati da uno spirito attinto da poco dal mondo altro.

L’avvicinamento dei morti alle case dei vivi avveniva, nella civiltà preindustriale, alla vigilia di antichi capodanni, o nei momenti in cui il tempo si fermava, come in un momento di tregua, lasciando come uno spazio, un corridoio fra i mondi dell’aldiqua e dell’aldilà. In queste date, anche in Val Padana, veniva lasciata la tavola imbandita per le visite notturne di coloro che, provenendo da un mondo altro, avevano bisogno di nuova energia: cibo, calore ed amore.

Il cibo assumeva un significato sacrale e, con tutta probabilità, la frutta rimasta sulle tombe, sugli altarini o sulle tavole, e non ovviamente consumata in chiave materiale dai visitatori invisibili della notte, veniva poi consumata dai bambini, in una sorta di rituale di passaggio, di tramite, proprio della sfera del sacro.

Da qui l’ipotesi che i diversi frutti ricordati nelle prose e nelle poesie dagli interpreti del dialetto scritto, come una sorta di rievocazione di ‘sante Lucie povere’, siano invece da considerare come un reperto, una reliquia di un mondo arcaico. Probabilmente, quegli stessi frutti, racchiudono un antico significato simbolico, proprio di un linguaggio dimenticato, appartenente ad un ancestrale messaggio sacrale. Certo, in ogni tempo, quel linguaggio avrà parlato, come oggi del resto, nel rapporto fra genitori e bambini, di sensibilità, di attenzione, di rispetto, d’amore.  Ed anche le cosiddette paure suscitate nei bambini,   procurate con rituali orali di passaggio, di crescita, sono da considerarsi come semplici e domestiche pratiche iniziatiche per affrontare poi insieme le paure vere della vita, paure da esorcizzare in seguito, cercando, nell’amore reciproco,  i modi per  superare tali sfide attraverso l’aiuto dei genitori, dei nonni e dell’intera famiglia coesa, dono inequivocabile del Cielo.

Leggiamo, allora, una di queste poesie, concependole alla stregua di nobili depositi di una archeologia antropologica. Quella che proporremo è stata scritta da Alfredo Carubelli ed è stata pubblicata sul libro Stòorie e ritràt, che acquistai il giorno della sua presentazione al  Circolo Turati, il 4 aprile 1970. E’ un testo che conservo con la firma autografa dell’Autore, poeta e corista lirico della Corale Amilcare Ponchielli, diretta dal maestro Ottorino Vertova.

La composizione è intitolata Santa Lüsìa d’àalter tèemp, ‘Santa Lucia d’altri tempi’, ed inizia presentandoci il clima da capodanno, di carnevale anticipato, della vigilia e del giorno successivo a quella che veniva chiamata la séera di sifuléen, la sera dei fischietti, ossia la sera del 12 dicembre.  Alfredo racconta:

El trèdes de dicèember, in töte le cuntràade,

trumbéte e sifuléen te sèentet a sunàa;

regàs che fà la guèra, en gràn cincél de spàade,

de s’ciòp e rivultéle ‘l è töt en gràn sparàa.


Il tredici di dicembre, in tutte le contrade,

trombette e fischietti tu senti a suonare;

ragazzi che fanno la guerra, un gran baccano di spade

ed è tutto un gran sparare  di fucili e rivoltelle.

 

‘L è ‘l trèdes de dicèember, la féesta di pütéi,

‘l è quàant santa Lüsìa, cu’l so carèt cargàat,

la pòorta a töti quàanti bumbòon e magatéi,

aràanci, ciucaróoi, biscòt e ciculàat,

muschèt, cavài e bàmbule, e tàanti bèi suldàat.

 

E’ il tredici di dicembre, la festa dei bambini,

è quando santa Lucia, col suo carretto caricato,

porta a tutti quanti chicche e burattini,

aranci, castagne secche, biscotti e cioccolati,

fucili col tappo, cavalli e bambole, e tanti bei soldatini.

 

Töti i gh’àa ‘l so regàl, töti i gh’àa ‘l so prezèent;

quaidöön, però, per pàaga a töti i so caprìsi

i gh’àa de’l carbòon néegher da méter sóta i dèent.

 

Tutti hanno il loro regalo, tutti hanno il loro dono;

alcuni, però, quale risposta a tutti i loro capricci

hanno del carbone nero da mettere sotto i denti.

 

L’è na legèenda, chéesta, che düüra da ‘n sàch d’àn;

‘l è bèl, però, da véder cun quàanta cunvinsiòon

i crèt che ‘l azenéen, inséma a tàanti prémi,

per chéi catìif el pòorta la sèner cu’l carbòon.

 

E’ una leggenda, questa, che dura da un sacco d’anni;

è bello, però, vedere con quanta convinzione

si creda che l’asinello, insieme a tanti premi,

porti ai bambini cattivi la cenere col carbone...

 

Però, la séera prìma, in cà de puarèt,

na màma disperàada la piàans e pò la dìis:

<<Cun quàter fràanch in cà, ‘sa pódi màai cumpràa,

per fàa che Carulìna dumàan la sìa cuntèenta?

Quàter o cìinch biscòt, en pürtügàl, trè nùus,

en pò de ciucaróoi, en scusaléen töt rùs>>.

 

Però, la sera prima, in casa di poveretti,

una mamma disperata piange e poi dice:

<<Con quattro soldi in casa, cosa posso mai comperare,

per fare che Carolina domani sia contenta?

Quattro o cinque biscotti, un arancio, tre noci,

un po’ di castagne secche, un grembiulino tutto rosso.

 

<<A scóola i so cumpàgn i la farà rabìi,

cu’ i so regài de lüso i la farà patìi.

Se alméen ghe füs a’l móont chél pòover de so pàader;

da’l bèen che ghe vurìiva ‘l éera dispòst a töt:

lüü, püür de cuntentàala, el gh’arès fàt el làader>>

 

<<A scuola i suoi compagni la faranno arrabbiare,

con i loro regali di lusso la faranno patire.

Se almeno ci fosse al mondo quel povero di suo padre;

dal bene che le voleva era disposto a tutto:

lui, pur di accontentarla, avrebbe fatto (anche) il ladro>>

 

Cun töti i so penséer la và in de’n negusièt,

la cóompra ‘ste rubéte e la ja pòorta a cà,

e, cun ‘n amóor màai vìst, la ja sistéma bèen,

in sìma a’l cantunàal, i ciucaróoi, le nùus,

‘l aràancio cu’ i biscòt, el scusaléen töt rùs.

 

Con tutti i suoi pensieri essa va in un negozietto,

compera queste robette e le porta a casa,

e, con un amore mai visto, sistema bene,

sopra l’armadio ad angolo, le castagne secche, le noci,

l’arancio coi biscotti, il grembiulino tutto rosso.

 

E la matìna dòpo, apèena desedàada,

Caróol la và in cuzìna, la vèt el scusaléen,

la dà na vùus de giòoja e pò, cun cuntentésa:

<<Mamìna, te ringràsi, ‘l è chél che me insugnàavi,

el scusaléen töt rùs, cun la so gràn galòcia,

e le do sacusìne a fùurma de dùu cóor

urlàade cun la séeda, per fàa che le rizàalta>>.

 

E la mattina dopo, appena svegliata,

Carolina va in cucina, vede il grembiulino,

le esce un grido di gioia e poi, con contentezza:

<<Mammina, ti ringrazio, è quello che mi sognavo,

il grembiulino tutto rosso, con un gran nodo a farfalla,

e le due taschine a forma di due cuori

orlate con la seta, per fare che risaltino>>.

 

<<Me làavi, me peténi, e pò me’l méti sö,

e tódi sö l’aràancio, en pò de ciucaróoi

(le nùus cun i biscòt le vàansi per ‘ste bàs)

e scàpi prèst a scóola, a fàame rimiràa:

sarò la püsèe bèla cun sö ‘l me scusaléen!>>

 

<<Mi lavo, mi pettino, e poi lo indosso,

e prendo su un’arancia, un po’ di castagne secche

(le noci con i biscotti li tengo per questo pomeriggio)

e scappo presto a scuola, a farmi rimirare:

sarò la più bella con indosso il mio grembiulino!>>

 

La gh’àa na giòoja adòs, na tàal felicità,

tà’me se i gh’ès purtàat ‘n empòori de beléen!

 

Ha una gioia addosso, una tale felicità,

come se le avessero portato un emporio di giocattoli!

 

A’l trèdes de dicèember de tàanti tàanti àn fà

gh’éera bizögn de pòoch, per cuntentàa ‘n pütél:

trìi ciucaròoi, ‘n aràancio, quàter biscòt, trè nùus,

‘l amóor de la so màma, en scusaléen töt rùs!

 

Al tredici di dicembre di tanti anni fa

c’era bisogno di poco, per accontentare un bambino:

tre castagne secche, un’ arancia, quattro biscotti, tre noci,

l’amore della sua mamma, un grembiulino tutto rosso!

 

Dalla letteratura popolare in dialetto, abbiamo tratto altro materiale utile alla nostra ricerca.

Per esempio, nell’autobiografia di Carla Zeni vi sono alcune pagine che ridondano del senso della vibrante attesa dei semplici ma sempre magici doni.

L’Autrice dice, infatti, che s’aspettava da santa Lucia en bèl cavagnèt de armàandule cu’l gös, un cestello di zaccarelle, e poi caraméline culuràade, caramelline colorate, ninsóole picinìne, noccioline, purtügàj cun la càarta de rùs töt intùurno, arance con la carta rossa tutta attorno, che dòpo dupràaum per giugàa, che dopo usavamo per giocare.

Altra testimonianza è quella di Francesco Ariberti, di Pizzighettone, che si ricorda molto bene i tre piattini predisposti sul tavolo della cucina per ricevere i doni di santa Lucia. Il mattino del 13 dicembre egli vi trovava: in un piattino trì mandarìn, trì pürtügàj, trì pùm, ossia tre mandarini, tre arance, tre mele. In un secondo piattino egli poteva riscontrare: sèt o òt nùus, en pò de galéte, ciuchìn e castégne, vale a dire sette o otto noci, un po’ di arachidi, castagne secche e marroni.  Nel terzo piattino, in de ‘l tèers piatìn gh’éera amò, c’erano ancora, caramelìne de süchèr cun la càarta sgargèenta, caramelline di zucchero con la carta argentata, trì turunìn Vergani cun l’ilüstrasiòn de’l spàsa-camìn, tre torroncini Vergani con l’illustrazione dello spazza-camino, trì boéri sgrafignòn, tre boeri graffioni.

Ai nostri occhi, quei tre piattini predisposti dalla regia genitoriale dell’evento, sul tavolo della casa del piccolo Francesco, sono veramente intriganti. Erano tre piattini  messi sö na tàula imbandìda cun la tuàja de lìin, su un desco imbandito con la tovaglia di lino, ricamàada a màan da la màma quàan’ l’éera giuéna, ricamata a mano  dalla mamma quando era giovane. L’ospite notturno di riguardo, la donatrice magica,  doveva avvertire immediatamente il rispetto sacrale in quella casa, e la partecipazione al pasto simbolico e comune svolto in due tempi, il tempo della santa e dell’asinello - mentre tutti dormivano - ed il secondo tempo del pasto simbolico beneaugurante con zuccheri e frutta, consumato dai bambini in festa la mattina dopo. Il primo pasto era quello cu’l pàan e salàm destinati a santa Lucia, come descritto da Luciano Dacquati, in contemporanea con la presenza de’l masulìin de fèen, il mazzolino di fieno e la scüdéla de l’aàacqua, la scodella dell’acqua, approntati per l’azenìin, come descrive Carla Zeni. Il secondo tempo avveniva nel chiasso di gioia della sorpresa, allorquando i bambini apprezzavano molto quei  giocattoli che definiamo provvisori, oltre alle caramelline e la frutta numerata.

Abbiamo detto giocattoli provvisori, perché, il più delle volte, nel mondo popolare, quei giocattoli, quelle bambole di pezza e quei fucili di legno, venivano messi subito via e nascosti, tali da essere recuperati per la stessa ricorrenza dell’anno successivo.

Al di là di ogni considerazione, la cosa più importante da rivivere ogni anno, nella santa Lucia di altri tempi, era l’appuntamento con una dimensione fra il sacro e il fantasioso, in cui si esaltava il tratto simbolico del dare e del ricevere, proprio della dimensione più profonda dello scambio affettivo d’amore. E questo è il tratto fondamentale riproposto pure nelle epoche successive alla civiltà pre-industriale e che tuttora si mantiene, in quest’era post-industriale, che non si sa bene dove ci stia portando.

Di fatto la tradizione s’invera anche con il mantenimento del messaggio preventivo a santa Lucia, con la letterina, che vede impegnati i genitori nel primo atto del gioco teatrale familiare, dove, fra regia e parte attoriale, si crea uno stretto rapporto confidenziale, declinato con impegno anche con suggerimenti molto pertinenti.  Certo, pure i maestri e le maestre delle varie scuole d’infanzia e delle prime classi elementari

svolgono in questo rituale folklorico una ruolo importante. Riporto, ad esempio, la letterina collettiva scritta dai bambini di una seconda elementare di San Bassano. La lettera dice:

Santa Lucia, dolce stellina mia, tu vai a suonare i campanelli, a casa dei bambini che non sono monelli. Tu sei amica di tutti i bambini, ma porti il carbone a quelli birichini. Non riusciamo a dormire, quando stai per venire: la notte sembra troppo lunga, nell’attesa che tu giunga. E quando il sole sorgerà…che regalo ci sarà? Firmato i bambini di classe seconda.

Sul suono dei campanellini, sul carbone per i birichini e la notte che sembra troppo lunga, avrò modo di tornare. Ora, mi soffermerei sull’identificazione della santa dei doni con una stellina, elemento presente anche in una preghiera in dialetto che un tempo le bambine recitavano nelle sere precedenti la grande festa:

Sàanta Lüsìa bèla, / mé sùunti na pütéla/ e tè te séet na stéla,/ véa in sö ‘l me tuchél de tèra/ a purtàame tàanta ròba bèla.

 

Santa Lucia bella, io sono una bambina, e tu sei una stella, vieni sul mio pezzetto di terra, a portarmi tanta roba bella.

Così pure santa Lucia viene riproposta come fonte luminosa incastonata nel firmamento infantile in quest’altro inizio di filastrocca che dice:

Santa Lucia bella, / dei bimbi sei la stella/ per il mondo vai e vai/ e non ti stanchi mai.

La stella, simbolo della profondità del cielo, dei confini dell’universo, è fonte di luce e si identifica col nome di Lucia, evocativo appunto della luce.

Santa Lucia, inoltre, è stella perché, per i bambini buoni, è un piccolo concentrato di gioia solare, un punto fisso luminescente del calendario, cui si tende dopo un lungo cammino di trepidazione.

D’altronde, per i bambini, le stelle sono come dei coriandoli gettati, da una grande e misteriosa forza, contro la volta del cielo, ed è evidente quindi che esse, le stelle, siano presenti addirittura a mucchi sul carrettino della santa dell’asinello, colmo pure de bàambuli bèli, di bambole belle, e vagante per la notte sulla scìa filante della donatrice tanto attesa. Ascoltiamo e riviviamo il magismo di questa atmosfera nella poesia di Gentilia Ardigò, di Casalbuttano, dal titolo sàanta Lüsìa.

L’è fùusca la séera,

cumìincia a fàa frèt;

la màma, en cuciòon,

la sgüüra el paróol

en sö la sulàada de préedi e de sàs.


E’ buia la sera,

comincia a far freddo;

la mamma, chinata,

pulisce il paiolo

sulla pavimentazione di pietre e sassi.

 

‘L è néegher el céel:

gh’è gnàanca na sgàja de löna,

gh’è gnàanca na pùunta de stéla.

 

E’ nero il cielo:

non c’è nemmeno una scheggia di luna,

non c’è nemmeno una punta di stella.

 

Tacàat a’l so bàanch, me pupà

el piòla i so às:

el fa i letìin per fàa dòormer

li bàmbuli bèli de sàanta Lüsìa.

 

Attaccato al suo banco, mio papà

pialla le sue assi:

crea i lettini per far dormire

le bambole belle di santa Lucia.

 

El dìis che ‘l l’àa vìista,

la sàanta,

en sö la stradéla,

en més a i dùu fòs,

là, fò de’l purtél.

 

Egli dice che l’ha vista,

la santa,

sulla stradina,

in mezzo ai due fossi,

là, fuori dalla piccola porta che si apre entro il grande battente del portone.

 

E mé, cu’ me nòonu

entùurnu a la fiàma,

ritàjum la càarta piegàada sées vòolti:

véen fóora i centrìin ricamàat;

véen fóora li téeri

de bàambuli dàti de màan,

e pò, meravìilia…

véen fóora na fìila de uchìni

tacàadi ‘n de’l bèch.

 

Ed io, con mio  nonno

intorno al focolare,

ritagliamo la carta piegata sei volte:

vengono fuori i centrini ricamati:

vengono fuori le file

di bambole date per mano,

e poi, meraviglia…

viene fuori una fila di ochine

attaccate nel becco.

 

E sùna li nòof.

Che pés che gh’è scüüri!

E mé, me indurmèenti:

me ‘nsùmi el carèt de sàanta Lüsìa

stracùulmo de stéli.

El pàsa en sö ‘l pùunt…

Ma j às i trabàla…

Li stéli ‘n de’l fòs

e l’àaqua che cùr…

Li stéli lüzèenti ‘n de’l fòs…

…che cùr…

 

E suonano le nove.

Da un pezzo c’è buio!

Ed io, mi addormento:

mi sogno il carretto di santa Lucia

stracolmo di stelle.

Passa sul ponte…

Ma le assi traballano…

Le stelle nel fosso

E l’acqua che corre…

Le stelle lucenti nel fosso…

…che corrono…

 

Nel riflesso dell’acqua, mentre le stelle lucenti corrono, non abbiamo visto specchiarsi la figura dell’asinello. Ma questo animale da soma, di cui si servono pure san Nicola e la Befana calabrese, si presenta invece nella descrizione poetica, intitolata Santa Lüséa, santa Lucia, scritta in cremasco da Angelo Marazzi, nella quale andremo a sottolineare altri elementi folklorici d’indubbio interesse.

L’Autore così racconta i momenti intensi vissuti nella magica notte.

 

‘L éra bèl, a j àgn andré,

quand che töc restàem lé

con la bóca spalancàda

a spetà che la fös pasàda!

 

Era bello, negli anni indietro,

quando tutti restavamo lì

con la bocca spalancata

ad aspettare che fosse passata!

 

La sunàa ‘l campanelì

e – per nótre picinì

che pensàem al sumarì –

j éra sére de fà cìto,

de sta quèc an d’un cantù

se vurìem vergót da bù

(södinò ‘l éra ‘n custù).

 

Lei suonava il campanellino

E – per noi piccolini

che pensavamo al somarello –

erano sere da stare in silenzio,

di stare  quieti in un angolo

se volevamo qualcosa di buono

(altrimenti era un …costone della verza).

 

Preparàem con na gràn cüüra

(per mìa fa bröta figüüra)

con al fé di masulì

da mangià al so sumarì,

perché da’l cél co’l so carèt

Le la vegnìa sènsa fàs vèt.

 

Preparavamo con grande cura

(per non fare brutta figura)

con il fieno dei mazzolini

da far mangiare al suo somarello,

perché dal cielo col suo carretto

Lei veniva senza farsi vedere.

 

Sota le quèrte töi bèi quàc

(a urì pensàga, fiöi, che àc!)

da gràn frèsa urìem durmì

per mìa dèerf i nòst ugì:

se nò la sèner la tiràa

e pö nigòt la ta purtàa.

 

Sotto le coperte tutti bei quieti

(a volerci pensare, ragazzi, che paura!)

di gran fretta volevamo dormire

per non aprire i nostri occhietti:

altrimenti la cenere ci avrebbe gettato

e poi nulla ci avrebbe donato.

 

Quàante ólte, ‘n càla nòc,

sénsa mìa mài dèrf j òc

an setù sa suleàem.

-          ‘L è a Campisèc, a’l Casinèt:

-          dòrma amò che pò la rìa…

-          E mai la nòc la sa finìa:

-          sèmpre ’nturne la giràa

-          e mài lé Le la rüàa.

 

Quante volte, in quella notte,

senza mai aprire gli occhi

ci sollevavamo con la schiena appoggiata ai cuscini.

-          E’ al Campisèc, al Cascinetto:

-          dormi ancora che poi arriva…

E mai la notte finiva:

sempre attorno girava

e mai Lei arrivava.

 

Sultant vèrs a la matìna

gh’éra bèa argutìna

e quànd j òc ta spalancàet

oh che giòia ta pruàet:

trì turù, i sücherì,

le nisòle e i mandarì…

Töc an strada sa truàem

e i giugàtoi sa mustràem

e po’ a scòla i purtàem!

 

Soltanto verso alla mattina

c’era già qualcosina

e quando gli occhi spalancavi

oh che gioia che provavi:

tre torroni, gli zuccherini

le nocciole e i mandarini…

Tutti in strada ci trovavamo

e i giocattoli ci mostravamo

e poi a scuola li portavamo!

 

Ah! Chèle sé j è cuntentèse

perché mìa j éera ‘n si spèse.

Cèrto, za, che al dé d’anco

santa Lüséa, sa ta òt,

a la dìs pò a nigòt.

 

Ah! Quelle sì sono contentezze

perché non erano proprio così frequenti.

Certo è che al giorno d’oggi

Santa Lucia, cosa vuoi,

non dice più nulla.

 

Invece non è proprio così vero che santa Lucia non dica più nulla. Così come molto ci dicono alcuni particolari indicati dal Marazzi. Come ad esempio quel numero di tre torroni che conferma quanto letto nelle testimonianze precedenti.  Il tre è un numero che si è prestato a molti significati nel simbolismo religioso e la sua reiterazione sulla tavola di santa Lucia esprime un riflesso della propria insita sacralità in termini beneauguranti collegati alla dolcezza dei doni gastronomici che la santa stessa ha portato ai bambini. Nel contempo quel numero tre, comune a diverse esperienze, è il segno di un preciso rituale folklorico, proprio di una liturgia domestica.

Altro attributo significativo nella poesia cremasca è il richiamo al campanelì, al campanellino o bronzina, la piccola campana di bronzo, lo strumento presente ovunque si manifesti l’avvicinamento di santa Lucia. E’ presente quindi a Cremona e a Crema, così come a Lodi, Piacenza, Parma, Mantova, Brescia, Bergamo, Trento, Verona, ed altrettanto in Austria e in Boemia.

Il campanellino è presente pure nelle valli ladine, la sera precedente il 6 dicembre, al seguito di san Nicolò, di quel san Nicolaus trasformatosi poi in santa Klaus nell’Europa centrale e settentrionale. Santa Klaus, dopo aver modificato, non nel colore ma nella foggia, i precedenti paramenti da Vescovo, ha ripassato l’Oceano come Babbo Natale, con una slitta carica di doni e trainata da renne tintinnanti di sonagli. Egli pure tiene in mano una campanella che suona di solito davanti ai grandi magazzini delle città.

Fra l’altro, in varie e diverse culture del mondo la campana e i campanellini hanno ancora una funzione di difesa contro le potenze e gli spiriti maligni.

Anche le campane delle nostre chiese, soprattutto in campagna, oltre a servire per la chiamata dei fedeli, hanno spesso svolto la funzione, nell’immaginario popolare, di spaventare el diàavol in caròosa, il diavolo in carrozza, durante i temporali estivi gravidi di tempesta e di grandine.

San Nicola e santa Lucia, invece, usano il campanellino d’inverno, una stagione in cui il sole cala presto e il giorno s’accorcia mentre le notti diventano sempre più lunghe.

Si è scritto che la lotta tra luce e tenebre, con la temuta vittoria dell’oscurità notturna, abbia indotto il contadino primitivo a supplicare gli dei della luce, affinché combattessero per difenderlo dalle forze oscure. Ebbene, sono state rintracciate testimonianze, in provincia di Bolzano, di antiche usanze che vedevano i contadini mascherarsi da figure luminose. Questo mascheramento probabilmente ha un nesso con la santa della luce e col suo campanellino. Infatti, quelle figure che rappresentavano fertilità, fortuna e felicità, si muovevano, oltre che con fragorose catene, pure in mezzo al tintinnio assordante di moltissimi campanelli.

Le figure luminose avanzavano ballando e calpestando i campi coperti di neve per sollecitare il grano a germogliare e crescere.

Lungo tutte le Alpi, di lingua tedesca, abbiamo processioni invernali notturne e rumorose, conosciute ovunque come Perchtenlaube, processioni che hanno al centro una figura simile alla nostra Befana, chiamata Percht(a), un nome derivante dal tedesco antico <<perhat>> (splendente, lucente).

Nella tradizione popolare essa è una figura ibrida, tanto bella quanto brutta, benedicente o punitiva, dispensatrice o distruttrice di vita.

Le lucenti e al tempo stesso oscure Perchten personificano nient’altro che l’ambivalente aspetto dell’inverno e dei suoi possibili ed imprevedibili sviluppi. La bella Percht(a), quando è bella, quando è splendente, quando è lucente, può rimandare alla nostra santa Lucia. La cattiva Percht(a) rimanda alla personificazione della santa quando questa acceca i bambini che vogliono vederla.

Quello che possiamo dire a questo punto è di poter constatare che sono confluiti nella santa Lucia folklorica elementi comuni ad altre personificazioni.

Partendo dal campanello dell’asinello di santa Lucia, siamo così passati alla bronzina del corteo di san Nicolò, o meglio, del corteo mascherato, con la presenza di demoni della terra, che segue san Nicolò medesimo.

Siamo passati,in concreto, al campanello presente nella finzione scenica che i bambini grandicelli padani ed alpini mettono in atto, giocando, nel teatro domestico e popolare allestito per animare la festa ed inverare la favola. Ed è un campanello non più usato per risvegliare gli spiriti buoni della terra o per allontanare quelli malvagi, ma è messo in funzione come annuncio dell’apertura del sipario dei sogni e della fantasia dei cuccioli d’uomo.

Nella poesia cremasca di Marazzi è presente un altro elemento molto interessante: el custù, traducibile in dialetto cremonese con el custòon de la véerza, la parte interna dura della verza. Questo elemento rimanda non solo alla punizione di santa Lucia verso i bambini immeritevoli, ma anche agli scherzi iniziatici in uso nel giorno dei doni.

Infatti poteva succedere ai bambini di campagna - abbiamo precise testimonianze al riguardo di Olmeneta, Robecco e  Pizzighettone - di trovare fra i doni, avvolto in una carta colorata, el custòon, magari zuccherato, a guisa di dolciume. Abbiamo anche sentito parlare di gessi avvolti nella stagnola, così come di caccherelle indurite di colombo, presentate come torrone. A Cremona poteva succedere di trovare, camuffato da dolce, en suchèt, un pezzo di legna da ardere, un piccolo ciocco, insomma, avvolto anch’esso in carta stagnola.

Siffatti scherzi erano messi in atto dai ragazzi del campanello, o da quei bambini che, di nascosto dei genitori, cantilenavano una filastrocca pervenutaci con diverse varianti:

<<Sàanta Lüsìa/ màma mìa/ cun la bùrsa de’l pupà/ sàanta Lüsìa la vegnarà>>-

<<Santa Lucia, mamma mia, con la borsa di papà, santa Lucia arriverà>>.

 

Lo scherzo ammesso dagli adulti e passato di generazione in generazione, dà il senso della presenza di un rustico saturnale, contraddistinto, in tempi da noi non lontanissimi, pure da un gran fracasso, che assomigliava totalmente a quello delle Perchten, con l’uso di fischietti (i sifuléen), di pive e di quegli strumenti chiamati in dialetto trabàcule, ossia raganelle o crepitacoli. Una tradizione, questa, che venne proibita a Cremona per le esagerazioni a cui era pervenuta.

Infatti, fino agli anni ’60, si mettevano in atto anche scherzi pesanti in Corso Campi e in Galleria 25 Aprile, quando, in una atmosfera di sfrenatezza, si rischiava di rimanere vittime di lanci di polverosissimo borotalco, spesso scadente. Le ragazze, prese particolarmente di mira, finivano per avere non pochi problemi di respirazione, proprio come quando ti arriva in bocca una manciata di coriandoli per Carnevale.

Ma prima di dimenticamelo desidero puntualizzare un’ultima nota  sulla frutta oggetto del dono ai morti, un atto di omaggio caduto a livello di pratica folklorica solstiziale. Le mandorle, le carrube, le nocciole, le noci, le arance sono considerati, infatti, dagli studiosi del folklore, tutti frutti propiziatori della prosperità individuale e collettiva.

E’ da sottolineare, inoltre, il riferimento presente nel folklore agricolo, nel quale folklore le noci, le castagne, le nocciole, vengono mangiate con la persuasione che ciò favorisca la fecondità della terra.

D’altro canto, al tempo dei Romani, si offriva come strenna dell’anno nuovo il miele affinché l’anno stesso, lungo il suo corso, fosse dolce come il dono.

Del pari, tutto il quadro d’insieme del rituale folklorico di santa Lucia è incorniciato dalla dolcezza, propria dei doni zuccherati e dei sentimenti del cuore. E il ricordo di quel quadro diventa molto intenso quando l’età avanza e la figura di santa Lucia si sfuma in quella sovrapposta dei genitori, e soprattutto in quella della mamma, come ci viene cantato, in un affresco d’incanto pregno di nostalgia, da Franca Piazzi Zellioli, dal titolo Nòt de sàanta Lüsìa.

 

Nòt vàalta,

nòt de sàanta Lüsìa:

quàanti insóni

in de töte le cà, in de la nòt

püsèe lóonga che ghe sìa.

 

Notte alta, notte di santa Lucia:

quanti sogni

in tutte le case, nella notte

più lunga che ci sia.

 

Adès, bèle a lét,

el và el me penséer

a chél che gh’è stàt,

a’n tèemp uramàai luntàan

quàant àanca mé

spetàavi…dumàan,

per vèder tàanti bumbòon e beléen

che me truàavi après a’l letéen.

 

Ora, già a letto,

il mio pensiero corre

a ciò che è stato,

a un tempo ormai lontano

quando anch’io

aspettavo…il domani,

per vedere tanti dolcetti e balocchi

che mi trovavo accanto al lettino.

 

Cùma j éera dùuls alùura i bumbòon

che se mangiàava nùma

in pòoche ucaziòon.

Cùma vurarès amò sentìine vezéen,

màma,

per ütàame a dèerver i pachetéen.

 

Come erano buoni allora, quei dolci

che si mangiavano solo

in rare occasioni.

Come vorrei ancora sentirti vicino,

mamma,

per aiutarmi ad aprire ogni pacchettino.

 

Oh, se pudès

sentìime strèenzer da té

amò na vòolta cuzé…cuzé.

Sèenter amò ‘l to prüföm delicàat

che mé gh’òo màai desmentegàat.

 

Oh, se potessi sentirmi stringere da te

ancora una volta così…così.

Sentire ancora il tuo profumo

delicato che non ho mai dimenticato.

 

Sèenter amò la to màan

(che cun nisöna la se scunfóont)

pasàa ‘n mumèent in sö la me fróont.

 

Sentire la tua mano

(che con nessun’altra si confonde)

sfiorare un momento la mia fronte.

 

Truàame amò na vòolta

a fàame brasàa

cùma quàant, picinìna, mé,

me fìivi cuculàa.

Che dezidéeri stanòt gh’òo de té.

 

Ancora una volta vorrei

da te farmi abbracciare

come quando, piccina, io

mi facevo coccolare.

Che desiderio, stanotte, ho di te.

 

Intàant che i me pütéi

i spéta el gràn dé,

in de la nòt

püsèe lóonga che ghe sìa,

me pàar de sèenter amò la to vùus

che me nìna, cùma na vòolta,

per sàanta Lüsìa.

 

Mentre i  miei bambini

attendono il gran giorno

e nella notte

più lunga che ci sia,

mi par di udire

ancora la tua voce

che mi culla, come una volta,

per santa Lucia.


Per concludere, prendo in prestito due versi del poeta indiano Tagore, sicuramente a lui sussurrati da santa Lucia, o meglio dalla santa Lucia indiana, la dea Lakshmi, o da entrambe le creature celesti, poiché in India esse vengono festeggiate tutte e due insieme:<<Accenditi come lampada: nel tuo cammino, dovrai essere luce>>.

Agostino Melega

Cremona 12 dicembre 2013

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