ADUC Coronavirus e nuovi centri storici. Firenze
Si incontrano diverse famiglie con bambini che circolano in bicicletta (mai visti prima nel centro, dove andare in bici tra le masse di turisti era un pericolo per sé e per gli altri, figurarsi per un bambino…).
Firenze, 23 maggio 2020. Osservare il centro storico della propria città dopo la bufera del confino è istruttivo e, nel contempo uno spettacolo. Se poi questa città è Firenze, l’occhio e la memoria hanno decisamente la loro parte. Farlo di sabato 23 maggio, il primo giorno non lavorativo “libero” in cui diversi residenti si sono potuti riappropriare di un centro che non gli apparteneva più causa overtourism, è ancora più istruttivo.
La città viva nella sua storia è apparsa prima di tutto grazie ai fiori deposti davanti alla fontana del David, sul tondo e la scritta in terra che ricorda il luogo dove il 23 maggio 1498 fu impiccato e bruciato per eresia Girolamo Savonarola insieme ai suoi due confratelli Frate Domenico Buonvicini da Pescia e Frate Silvestro Maruffi da Firenze. Mazzi di fiori che svuotano ancora di più la piazza, anche dei pochi fiorentini che la percorrono in questo 23 maggio 2020, 522 anni dopo, e che ci fa ricordare come questa piazza, sede anche all’epoca del potere civile, era sede delle pubbliche esecuzioni.
Le file del “post”-coronavirus
Ti fermi davanti all’ingresso del Duomo e vedi la solita lunga fila di gente che si assiepa per andarlo a visitare… ma ti accosti, tendi l’orecchio e senti quasi esclusivamente la parlata strascicata, aspirata e senza “c”: l’ingresso gratuito di questi giorni di riapertura ha avuto successo. Così come la fila dall’altra parte del Duomo, accanto alla Regione, dove c’è l’ingresso del Museo del Duomo.
Qualche fila davanti ai pochi bar aperti, dove non capisci cosa accade di preciso, ché in alcuni dentro c’è proprio tanta gente. Ma una fila che sparisce se osservi i pochi tavolini, quasi tutti esterni, con alcuni seduti a sorbire non più di un caffè (chissà, se come in altri tempi, per prenderti un caffè seduto in uno di questi bar è necessario fare un mutuo…).
Poi, dopo il vuoto assordante dell’ingresso della galleria degli Uffizi, vai alle spalle di Palazzo Vecchio, entri in via de’ Neri e ci transiti senza dover “fare a cazzotti” come in periodo di overtourism tra la folla serratissima che attendeva il proprio turno alla mangiatoia dei vari “vinaini”. Ma una fila c’è anche oggi, una decina di persone, proprio davanti al più storico di questi “vinaini”… sarà che qualche fiorentino ha potuto finalmente levarsi lo sfizzio di assaggiare uno di questi panini che hanno fatto il giro del mondo.
Arrivi a Ponte Vecchio, prendi atto di essere l’unico ciclista a non attraversarlo in bicicletta (un cartello ricorda di condurre a mano i velocipedi… si’ proprio i velocipedi...), incroci una mendicante sciancata con mascherina che chiede la carità, visibilissima al centro del ponte tra alcuni che si fanno serenamente le foto senza nessun altro in foto che la loro immagine sorridente e avvolta dal sole di fine maggio. Osservi la fila di botteghe orafe chiuse, ma alcune sono aperte e ti domandi: chi va a comprare qui? La risposta c’è: alcune telecamere riprendono le scarse botteghe aperte e una giornalista in lingua inglese descrive la situazione.
Continui incredibilmente ad incontrare famiglie in bicicletta, tutti con mascherine così come i pedoni, mentre guardi i commessi degli scarsi negozi aperti che puliscono e puliscono o sono “sull’uscio” a conversare con qualche conoscente. E anche l’unico bar storico di piazza Repubblica che è aperto, ai suoi tavolini rigidamente e socialmente distanziati conterà 3-4 persone.
Non si può non mettere l’occhio su alcuni “turisti” che con il naso all’insù osservano e fanno fotografie: ci passi accanto, a rigida distanza sociale, porgi l’orecchio e senti idiomi come l’inglese, il giapponese e anche il cinese… guardi meglio… sì alcuni hanno gli occhi a mandorla e ti accorgi che sono anche più disinvolti, rispetto al fiorentino medio, nell’indossare la mascherina (loro sì che ci sanno fare...). Chissà da dove e come sono arrivati o se vengono (soprattutto i cinesi) dalle nostre periferie piene di loro laboratori.
Mai viste tante macchine di polizia e carabinieri (è certo che c’erano anche prima del confino, ma erano “mimetizzate” dalla gigantesca quantità di turisti) e noti la solita presenza con mitra imbracciati da far paura dei soldati sotto il campanile di Giotto, accanto a jeepponi da film di guerra in Medio Oriente.
Un salto in piazza Santa Croce, dove la chiesa è chiusa. Sembra vuota come il giorno dopo delle pulizie che avevano levato il fango dell’alluvione del secolo scorso, il 4 novembre 1966. Sarà un paragone casuale tra quel dopo e questo dopo?
L’ultima fila
è quella davanti al negozio di bici Bianchi in via San Gallo. Tanti e tanti, con bambini vocianti che fanno allegri tutti. Fila non solo per chi vuole acquistare, ma anche fila alla porta accanto dove c’è l’officina per le riparazioni, per chi vuole farsi mettere a posto la bici forse tirata fuori per l’occasione. Tutto grazie agli insistenti appelli delle istituzioni a privilegiare la mobilità individuale rispetto a quella pubblica. Ciclisti che, allo stato dei fatti, si candidano a nuove vittime della brutta mobilità ciclabile che questa città offre, a partire dalle terribili sconnesse strade del centro dove quando passi in bici, dopo, è bene che controlli i danni ai cerchioni e se tutti i bulloni hanno bisogno di una stretta.
Una costante in diversi di questi luoghi: file e file di taxi in attesa di clienti. In luoghi dove prima c’era da patire per trovarne uno. E quando parli con qualcuno di loro, ti accorgi che hanno tutti la stessa sindrome: quella del TRE. Arrivare in un giorno ad avere tre clienti. Certo, con quello che costa prendere un taxi… ma questo è un altro discorso e forse lo stanno capendo anche i taxisti.
Vincenzo Donvito, presidente Aduc