Martedì, 23 aprile 2024 - ore 20.02

Analisi Nord Africa, le rivolte guidate dai giovani

| Scritto da Redazione
Analisi Nord Africa, le rivolte guidate dai giovani

Non sappiamo cosa succederà in Libia e se l'effetto domino contagerà altri Stati. Ma le rivoluzioni lasciano una certezza: i ragazzi hanno avuto un ruolo fondamentale. Hanno smentito i luoghi comuni sul mondo arabo, offrendo una lezione di cosmopolitismo di Mattia Toaldo

Ancora non sappiamo cosa succederà in Nord Africa e in Medio Oriente nei prossimi mesi: se la Libia scivolerà in una guerra civile infinita come la Somalia, come saranno le elezioni previste in Tunisia per luglio o che evoluzione avrà la situazione in Egitto. Non sappiamo se l’effetto domino contagerà anche l’Algeria, lo Yemen, la Giordania e il Bahrain – tutti paesi coinvolti da manifestazioni e rivolte popolari che hanno ancora un esito aperto. Sappiamo però cosa è successo in queste prime, sorprendenti, settimane del 2011 in cui prima Ben Ali in Tunisia e poi Mubarak in Egitto hanno lasciato il posto che occupavano da prima della fine della guerra fredda. E sul significato di queste rivoluzioni è bene riflettere a partire da un elemento in comune: il ruolo preponderante che hanno avuto, almeno nelle prime fasi delle rivolte, i giovani di questi due paesi.

Questi ragazzi (e queste ragazze, il ruolo giocato dalle donne meriterebbe un articolo a parte) hanno rovesciato in poche settimane una lunga serie di cliché sul mondo arabo-islamico: non più fanatici con barbe lunghe che " odiano" ma persone normali che chiedevano cose normali, comuni a tanti movimenti sociali anche in Occidente. Come ha scritto lo storico Rashid Khalidi (i cui libri pare siano stati molto influenti nella formazione intellettuale di Barack Obama) "i giovani arabi hanno dimostrato che, in definitiva, hanno speranze ed ideali non troppo diversi da quelli dei loro coetanei che portarono alle transizioni democratiche in Europa Orientale, America Latina e in Asia meridionale e orientale", una tesi su cui concorda anche lo storico Gilles Kepel che inquadra le recenti rivolte in quella grande "offensiva democratica" che ha portato al rovesciamento di dittature e regimi autoritari già dalla metà degli anni Ottanta.

Già prima che i neocon americani e i loro emuli italiani cominciassero a parlare dell’inconciliabilità tra Islam e democrazia, il più grande paese mussulmano del mondo, l’Indonesia, aveva rovesciato il suo dittatore filo-occidentale Suharto per instaurare una democrazia. Nel gigante asiatico, certo non senza problemi, siamo già alla terza tornata elettorale che si svolge liberamente. Ma la nostra stampa e la nostra politica, sempre più provinciali, non se ne sono ancora accorte.

I giovani tunisini ed egiziani, invece, hanno molto da insegnarci in termini di cosmopolitismo. Prima di tutto perché le loro rivolte sono state precedute da un’intensa collaborazione. In secondo luogo perché, dopo il loro successo, hanno fornito le loro competenze anche ai loro coetanei del resto del mondo arabo-islamico. In terzo luogo, perché non solo hanno fatto tesoro di tecnologie di origine occidentale come Facebook e Twitter, ma anche perché alla base delle loro rivolte hanno posto modelli che venivano da parti diverse del mondo: dal punto di vista teorico le idee del filosofo americano Gene Sharp sull’imprescindibilità della nonviolenza nella lotta ai regimi autoritari; dal punto di vista pratico, l’esempio dei giovani serbi di Otpor che alla fine degli anni Novanta, con una rivolta prevalentemente nonviolenta, avevano rovesciato il regime di Milosevic.

Così facendo hanno spiazzato i vecchi attori della politica araba e mediorientale: i regimi autoritari le cui polizie segrete non sono riuscite a reprimere un movimento, di fatto, senza leader e strutture organizzate; i vecchi partiti politici d’opposizione che, soprattutto in Egitto, erano indeboliti sia dalla repressione che dalla loro stessa timidezza e volontà di accomodamento; la vecchia guardia della Fratellanza Mussulmana egiziana che solo dopo 3 giorni, e grazie alle pressioni del suo movimento giovanile, ha deciso di unirsi alla protesta.


La miccia delle rivolte è stato, in dicembre, il gesto drammatico di un giovane laureato tunisino della città di Sidi Bouzid che non solo non aveva trovato un lavoro adeguato ai suoi studi ma si era visto confiscare il banchetto di frutta con cui cercava di mantenersi. Mohamed Bouazizi decise a quel punto di darsi fuoco. La dura repressione delle forze di sicurezza nei giorni seguenti generò una rivolta che sfuggì presto di mano al regime del dittatore Ben Ali, che nelle prime ore non si era neanche preoccupato di tornare in patria per gestire la situazione.

I giovani tunisini che avrebbero portato, infine, al successo della "rivoluzione dei gelsomini" il 14 gennaio erano in contatto già da tempo con i loro colleghi egiziani che si stavano preparando ad una grande manifestazione per il 25 dello stesso mese.

I contatti sorsero su Facebook già due anni fa e crearono quello che il New York Times ha definito un “movimento giovanile pan-arabo per la diffusione della democrazia in una regione che ne è priva”. Gli attivisti dei due paesi usavano la Rete per condividere consigli sull'uso delle nuove tecnologie, soprattutto per sfuggire alla sorveglianza dei servizi di sicurezza. Ovviamente venivano messe in comune le competenze su pratiche più “antiquate” come la resistenza alla tortura oppure l'organizzazione di barricate e i migliori modi per rimanere in piedi nonostante le pallottole di gomma sparate ad altezza d'uomo dai servizi di sicurezza.

Gli egiziani si erano riversati sulla Rete nel 2008, dopo il fallimento delle proteste del 2005 che avevano portato ad una prima forte repressione da parte della polizia politica. Chi di loro aveva scelto di impegnarsi nei vecchi partiti di opposizione, più o meno legalizzati, ne era rimasto deluso: "i vecchi partiti distrussero quel movimento" dice Ahmed Maher, tra i leader del movimento "6 aprile" che è stato uno dei principali motori organizzativi dietro alla rivolta egiziana.

Il suo movimento deve il nome ad uno sciopero sindacale organizzato il 6 aprile del 2008 e che i giovani decisero di appoggiare tramite una pagina Facebook e non con una vera struttura politica che sarebbe stato più facile individuare e reprimere. Seguendo il loro esempio i loro coetanei tunisini crearono la "Gioventù progressista di Tunisia" che compensò la maggiore repressione da parte della polizia di Ben Ali con una maggiore efficacia e sostegno da parte di alcuni quadri del sindacato che erano in dissenso rispetto ai propri dirigenti.

La nonviolenza, in questi movimenti, non è stato un metodo ma un contenuto ed una strategia politica: era stato lo stesso Gene Sharp  a sostenere che gli stati di polizia avrebbero usato sempre la resistenza violenta per giustificare la repressione nel nome della stabilità. Questo è stato l’elemento innovatore: perché, come ha scritto l’editorialista americano Thomas Friedman, il fatto che un dittatore arabo sia stato rovesciato non è una così grande notizia. La cosa che spaventa i suoi colleghi dittatori e autocrati è che ciò sia avvenuto in maniera tanto nonviolenta quanto rapida.

fonte: http://www.rassegna.it/articoli/2011/03/18/72514/egitto-e-tunisia-rivolte-guidate-dai-giovani


 

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