Mercoledì, 01 maggio 2024 - ore 23.55

I grandi pellegrinaggi dei Grandi Pontefici|RAR

| Scritto da Redazione
I grandi pellegrinaggi dei Grandi Pontefici|RAR

I grandi pellegrinaggi dei Grandi Pontefici RAR (Da Paolo VI  a Papa Francesco) 
Il secolo scorso è stato testimone di grandi eventi nel mondo della Chiesa; eventi iniziati con le “teologia”  delle encicliche sociali, dalla Rerum Novarum alla Centesimus Annus.

La Chiesa volle entrare nel mondo laico portando il contributo umanistico nel quale la Chiesa è esperta.

Ma a segnare i momenti salienti sono state le grandi encicliche sociali che hanno fatto seguito al Concilio Ecumenico Vaticano secondo.

Giovanni XXIII e il Concilio

(Constitutio Conciliaris Gaudium et Spes)

La “Gaudium et Spes”, specie nella 2° parte, cap. 3°, affronta il problema sociale sotto un profilo più ampio che non quello dato dalle precedenti Encicliche sociali, che volgevano lo sguardo ai problemi delle singole nazioni.

La Chiesa comprese bene come il concetto di "sviluppo" si sia dilatato oltre le frontiere dei singoli Stati, diventando un elemento fondamentale dell’economia. Difficilmente la Chiesa è riuscita ad anticipare l’evoluzione dei tempi, ha sempre analizzato tale evoluzione per dire la Sua parola: la Rerum Novarum fu la risposta della Chiesa al “Capitale” di Carlo Marx dopo cinquanta anni !
Con la “Gaudium et Spes”, specie a rivederla alla luce degli accadimenti attuali dopo sessanta anni dalla promulgazione, ci rendiamo conto come la Chiesa, in questo caso, abbia anticipato i tempi, prevedendo ciò che sarebbe accaduto.
Si tratta di un intervento prettamente “politico”, cioè del comportamento che l’uomo assume di fronte a determinati eventi, in questo caso l’etica ha la sua parola da dire, per questo la Chiesa intervenne.
Non si guardò più all’aiuto che i paesi ricchi devono elargire a quelli poveri, ma essa trasformò quest’intervento in problema politico e di politica planetaria.
Al centro del problema si pose lo sforzo che tutti devono compiere, a cominciare dai paesi progrediti, per regolare le leggi dell’economia e orientare le singole politiche sociali dei paesi nel quadro generale di un’economia del benessere globale. Venne anche indicata la via da seguire, rilevando come l’oggetto di una sana politica economica non deve limitarsi alla sola moltiplicazione dei beni, né al profitto, né alla potenza, bensì deve porsi al servizio dell’uomo, considerato nella gerarchia delle sue necessità materiali, spirituali e religiose:

“d’ogni uomo, d’ogni gruppo di uomini, senza distinzioni di razza, di continente, di cultura o di religione”. (Gaudium et Spes parte II, cap. III).

Così il Concilio insegnò che lo sviluppo non poteva essere abbandonato né alla discrezione dei “grandi interessi”, né all’arbitrio degli Stati più sviluppati, né  “all’egemonia delle grandi Potenze né agli automatismi dell’economia”.

Sembra leggere la condanna anticipata della globalizzazione dei mercati, che oggi viene presentata come una naturale ed automatica evoluzione dell’economia.
Per la prima volta, molto tempo prima della fine della guerra fredda con la divisione del mondo in Est e Ovest; molto tempo prima della nuova divisione del mondo in Nord e Sud, in paesi ricchi e in paesi poveri, in nazioni produttrici e nazioni consumatrici, in popoli creditori e popoli debitori, si entrò nel vivo della problematica della cooperazione internazionale.
Emerge anche una nuova visuale: nel secolo XIX si passò dal “paternalismo” alla “giustizia sociale”, con la Gaudium et Spes si impone la costruzione di una “comunità mondiale”, antitesi perfetta di quello che, invece, è accaduto con la promozione della globalizzazione dei mercati. La “comunità mondiale” non escluderebbe l’aiuto che il più forte deve dare al più debole, ma tale aiuto, senza tornare a cadere nel “paternalismo” ormai superato, deve avvenire al di sopra delle disparità di fatto, nel riconoscimento di una eguaglianza fondamentale di diritto.

Ritengo che non si possa negare la lineare continuità del pensiero sociale della Chiesa, pur nel costante adeguamento alle situazioni diverse dei tempi e della società.
Leone XIII fece il primo passo, in risposta al marxismo che stava già guadagnando proseliti; si rivolse ad una società statica e individualistica, fondamentalmente ostile al diritto di associazionismo, e rivendicò, per primo, il diritto dei corpi intermedi alla propria esistenza e alla loro autonomia in seno alla comunità.
Pio XI e Pio XII si ritrovarono in una società in movimento, minata dalla contrapposizione di gruppi già legalmente riconosciuti, ma ostili fra di loro; questa realtà li portò ad insistere sul concetto di un ordine corporativo in grado di unificare armonicamente in un solo corpo sociale gli interessi più diversi.

Giovanni XXIII aprì il Concilio su un mondo in pieno processo di socializzazione, esteso in ogni campo dell’attività umana.
Questa evoluzione spiega il tramonto dell’idea del corporativismo, sostituita con l’idea del cooperativismo; l’internazionalizzazione del cooperativismo non potrà che diventare “integrazione fra i popoli”, in alternativa e in contrasto con la globalizzazione dei mercati promossa e imposta, anche con la forza, dalla minoranza opulenta del mondo occidentale alla maggioranza bisognosa del resto del pianeta.
La globalizzazione guarda ai mercati e divide il mondo in nazioni produttrici e nazioni consumatrici; è un ritorno al materialismo, quello stesso materialismo che il sistema liberal-democratico ha sempre combattuto; il cooperativismo torna ad appropriarsi della centralità dell’uomo, ponendo l’economia al servizio dell’uomo e di tutti gli uomini, solo così potrà realizzarsi l’etica economica.

Immutato rimane l’invito, da parte della sociologia del Nuovo Umanesimo, alla partecipazione di tutti nella edificazione della società; sostanzialmente identico resterà il modello teorico a cui si ispira, quello di un insieme pluralistico di istituzioni a natura privatistica, tra loro in posizione di parità giuridica, ma regolate dal diritto pubblico in quegli aspetti che toccano direttamente il bene comune; ma offre una versione più aderente alla nuova realtà, sempre in evoluzione, più moderna e “socializzata”. (cfr.37° Settimana sociale del Canada, Syndacalisme et organisation professionelle, Atti Ufficiali, Trois-Rivières 1960, pag. 12)

 

Paolo VI

Riassumere in poche pagine l’itinerario apostolico di Montini rischia l’incompletezza  e l’approssimazione, mentre una dettagliata analisi obbligherebbe ad un lungo trattato non di mia pertinenza.

Innanzitutto occorre precisare come nei discorsi, negli interventi pubblici e nelle encicliche emerge il contributo di Jacques Maritain.


Jacques Maritain

Di fronte alla crisi generale che investì la società intera dopo la I°  Guerra Mondiale e di cui una manifestazioni più rilevanti fu il crollo del 1929 di Wall Street, in molti sentirono il bisogno di cercare, o solo di tentar di cercare, una soluzione di essa in termini economici e socio-politici.

L’immagine di una società in pericolo mosse le menti degli uomini e, naturalmente, anche il mondo cattolico tentò di dare una risposta al problema di una Chiesa strettamente legata ad una civiltà terrena  soggetta a finire, mutandone le forme e i contenuti che rivelano le deficienze, registrandone il declino; problema dei modi e delle forme che la Chiesa deve trovare per salvare i valori spirituali  pur non separandosi e non astraendosi dalla società civile, pur senza entrare nelle scelte politiche, sollecitando i governi  a realizzare l’affermazione dell’uomo come fondamento  di una nuova società nella quale  il carattere dell’individualità e accidentalità possa fondersi con la personalità e la sostanzialità relative alla cultura, religione di ogni  gruppo antropologico.

La dialettica individuo-persona costituisce il centro della filosofia politica di Maritain, in essa avviene il superamento della concezione marxista, per la quale l’individuo non ha altra vita che nella società e per la società, venendo a mancare esso cessa di vivere autonomamente.

La concezione umanistica  e cattolica di Maritain vede, invece, la realizzazione dell’individuo nel  mondo  e nella società, attraverso il “bene comune”  che assume una dimensione più grande  del bene privato.

Questa esaltazione dell’individuo-persona  va ben oltre la mera analisi filosofica, in quanto Paolo VI  la fece propria  esaltandone le potenzialità nella Populorum Progressio.

Ma non si può accedere al pensiero sociale e mistico di Papa Montini senza fare riferimento allo storico vissuto , iniziando l’itinerario da quella baracca trasformata in Chiesa dove l’Arcivescovo di Milano, mons. Montini, celebrò la Messa di Natale il 25 dicembre del 1955; quel giorno documentò al mondo che la Chiesa è nata tra i poveri ed è destinata ai poveri, ed è la sola voce che può e deve levarsi forte per sostenere i diritti dei più deboli e dei più fragili, di quelli che non hanno voce per farsi sentire.
Come Arcivescovo mons. Montini visitò l’America Latina e l’Africa, ma non si fermò ad ammirare i superbi reperti archeologici dei conquistadores, ma guardò la realtà dell’indio e del negro, come realtà di uomini sofferenti in mezzo ad altri uomini opulenti ed egoisti; lì dovette maturare la convinzione del nuovo peccato commesso ogni giorno da quanti non vedono nel prossimo bisognoso la presenza di quell’Uomo che porta una Croce non Sua in giro per il mondo, appesantita dall’egoismo di tanti uomini, in una nuova Via Crucis dove si rinnova, stazione dopo stazione, il peccato sociale. 
Ricordando la pastorale del Natale 1955, in quel gelido tugurio dove il Cristo era presente nei derelitti di una Milano occupatissima a celebrare non il rinnovarsi del mistero della Natività, ma il rito del cenone, e la lettera Enciclica PP, ritroviamo tutto l’itinerario dell’uomo Montini e la dilatazione degli orizzonti operata dall’assunzione della paternità universale.
L’esigenza di toccare con mano la miseria che affligge una grande parte del mondo, condusse Paolo VI, , eletto al Pontificato, a visitare la Chiesa dei poveri in un pellegrinaggio che lo portò, innanzitutto, in Palestina nel 1964, in quella terra travagliata e contesa; era solo il 1964, ancora l’esercito israeliano non aveva scatenato quella che la storia ricorderà come “la guerra dei sei giorni”, quando con un’azione aggressiva quanto fulminea occupò i territori che l’ONU aveva assegnato ai palestinesi, dalla striscia di Gaza a Sud, alla Cisgiordania a Nord, alle alture del Golan, insediando i coloni e schierando l’esercito a difesa dei territori occupati. Furono oltre 2 milioni i palestinesi costretti a fuggire dalle loro case, dai loro villaggi, dalle loro cittadine, riparando nelle nazioni arabe vicine, come profughi non sempre ben tollerati. 
I residenti nella Cisgiordania ripararono in Libano alla periferia di Beirut nei villaggi di Sabra e Shatila, dove, nel settembre del 1982, in quattro giorni di feroci persecuzioni dal 15 al 18 del mese, vennero massacrati dall’esercito mercenario del gen. libanese Haddad in una spedizione di esecuzione di massa ordinata dal ministro della difesa israeliano Hariel Sharon ed eseguita dalle truppe mercenarie libanesi. Terminata quella orrenda strage, il mondo occidentale cercò di minimizzare il numero dei morti e, in un primo momento, parlò di 800 morti, ma l’evidenza dei fatti, emersa per l’intervento di vari organismi internazionali, obbligò la stampa di regime occidentale ad accettare che i morti “superarono i 10.000”. 
Il numero esatto non potè mai essere accertato, perché i mezzi di distruzione di massa si basavano su bombe al fosforo e lanciafiamme per cui non restavano cadaveri da contare ma cenere. Un testimone, oggi rientrato in Palestina, dove ricopre un importante ruolo istituzionale nel governo provvisorio, riuscito a scampare ed a riparare ad Hammam Liff alla periferia Sud di Tunisi, in un villaggio messo a disposizione dal governo tunisino, mi raccontò di gruppi di persone colpite dalle bombe al fosforo, che bruciavano come torce umane e si gettavano in acqua per spegnere le fiamme che li divoravano, ma, quando uscivano dall’acqua, il fosforo, che era appiccicato alle loro carni, riprendeva a bruciare con maggior vigore, fino a consumarli. La gente veniva stipata nei piani bassi delle abitazioni e dalle finestre i mercenari introducevano i lanciafiamme; per fare quella operazione gli aguzzini indossavano maschere ignifughe per non bruciarsi a loro volta. Quelli che riuscirono a fuggire non potevano essere che i più giovani, mentre donne, anche giovani, non abbandonarono il loro posto di morte per non lasciare soli i bambini e gli anziani, accomunati tutti nello stesso destino di morte.
Quei poveri e oppressi, che Paolo VI volle visitare per portare una speranza di solidarietà, si apprestavano a diventare vittime, mentre l’Occidente, che ha da sempre sostenuto i governi israeliani, non ha mosso un dito prima per impedire quella strage di donne, vecchi e bambini (un giornale israeliano difese quella strage scrivendo che i bambini sarebbero presto diventati adulti da combattere, quindi era meglio ucciderli per tempo), quindi per aiutare i superstiti a sopravvivere.
Gli inviti alla solidarietà verso tutti i popoli della terra, espressi dal Santo Padre, caddero nel vuoto e prevalse, ancora, la logica dell’uso della forza per affermare il diritto alla prevaricazione. 
Un successivo pellegrinaggio di Paolo VI nel mondo della povertà fu un viaggio “eroico” perché nel 1965 si recò in India, nel pieno della esplosione demografica, dove grandi e venerabili religioni venivano trattate, dalla cultura occidentale che anche allora si riteneva “superiore”, come superstizioni arcaiche e non come espressioni di una cultura più che millenaria; le parole del Pontefice, pur se seguite e ascoltate da milioni di indiani, si infransero contro il muro dei nazionalismi; quando si incontrano due culture e una di queste pretende di esercitare una superiorità, basata su fattori empirici e materiali, tutta da dimostrare, l’altra, che non è in grado di competere con la forza mediatica della precedente, si chiude in se stessa per ritrovare nel suo passato quell’identità che le viene svilita.
Un ulteriore viaggio fra i poveri portò Paolo VI fra gli orgogliosi grattacieli di New York, illuminati quotidianamente a festa, simboli tangibili di un’opulenza che mortifica tutta quella larga parte del mondo dei vinti, utilizzando la illusorietà del benessere, destinato, però, solo a pochi privilegiati. A New York il Santo Padre non si soffermò a compiacersi della esibizione di ricchezza, andò a cercare i più deboli in quei ghetti dove il colore della pelle marchia, ancora oggi, escludendoli dal consorzio del benessere, gli emarginati di Harlem; l’eccezione di Condoleeza Rice ne è la riprova, in quanto, giunta ai massimi vertici del potere si è schierata con il più forte dimenticando la storia che la riguarda personalmente.
Queste esperienze ci indicano le profonde motivazioni che portarono Paolo VI a inserire nella Sua PP gli esempi di uomini che nel silenzio della propria coscienza si erano adoperati con gli altri e per gli altri, come Charles de Foucauld, il martire della donazione al Terzo Mondo, padre Chenu, il grande teologo sostenitore dei preti-operai, che si “fracassarono le reni” nei miserabili sobborghi fra algerini e italiani sfruttati dalla grande industria, e ancora padre Lebret, che consacrò il suo genio al servizio dei popoli del Vietnam, del Senegal e del Nord-Est del Brasile. 
Venne citato più volte il profetico e terribile documento del Concilio “Gaudium et Spes”, Gioia e Speranza, lì dove assicura gioia e speranza a chi riconosce nel povero l’immagine di Cristo, escludendo coloro i quali, nazioni, popoli o singole persone, hanno privilegiato l’accaparramento delle ricchezze in contrapposizione alla distribuzione della solidarietà; fu una citazione profetica con una promessa e una condanna.
Voci vecchie e antistoriche coniarono per Paolo VI il soprannome di “Papa comunista”, perché aveva voluto andare oltre l’interpretazione di un Vangelo consolatorio e aveva voluto calare nell’attualità il Verbo della universalità e della uguaglianza di tutti gli uomini non solo davanti a Dio, (sarebbe stato un discorso limitato al mondo dei credenti), ma identificando tale uguaglianza nell’intima natura dell’uomo, senza distinzioni di razza, cultura, qualità della vita, sviluppo tecnologico o religione: un discorso cattolico e, quindi, universale.
Nel rigurgito di un anticomunismo antistorico e di propaganda che ci sta martellando in questi anni, che hanno superato il 2000, risulta molto evidente la ragione per la quale Paolo VI, con la Sua PP, sia stato messo da parte, con la segreta speranza che fosse anche dimenticato.
Altre ragioni motivano il silenzio intorno alla PP, particolarmente in questi ultimi anni dopo il 2000, queste ragioni vanno ricercate nei temi dottrinali contenuti nel documento pontificio; tali temi non sono tutti preesistenti alla PP, alcuni vennero solamente ampliati, mentre altri rappresentarono una novità dottrinale caratteristica del tempo e profetica dei tempi futuri, come possiamo oggi ben constatare. L’elemento di maggior rilievo che oggi colpisce e condanna il metodo socio-politico dell’Occidente, è rappresentato dalla condanna esplicita dei principi del liberismo economico.

• I diritti di proprietà e di libero commercio non sono assoluti, ma “subordinati” alla “regola della giustizia, che è inseparabile dalla solidarietà” (PP n. 22, 23, 58). 
• E’ un’esigenza la espropriazione dei beni non utilizzati con sufficiente socialità (PP n. 24). 
• Non sarà mai sufficiente la condanna del capitalismo “senza freno” , della “concorrenza come legge suprema dell’economia” e del “profitto come motore essenziale del progresso economico” (PP n. 26).

Questa condanna non è nuova, poiché è connaturata con tutta la polemica antiliberale, che, sviluppata a oltranza, ha indotto settori interessati della politica mondiale imperniata sul capitalismo, ad usare nei confronti del pensiero sociale della PP la qualifica equivoca di “socialismo cristiano”.
Parallelamente alla condanna del neo-liberismo produttore del capitalismo monopolistico, altri temi vennero sviluppati seguendo l’evoluzione dei tempi, giungendo a momenti di vera profezia: un’analisi anche superficiale dei tempi attuali documenta la lungimiranza di Paolo VI. I temi ampliati e sviluppati sono quelli inerenti i principi di etica sociale nei rapporti tra individui (ricchi e poveri) o tra classi (datori di lavoro e lavoratori); nella PP questi stessi principi vengono estesi alla urgenza etico-giuridica dei rapporti tra popoli; la divisione del pianeta in Nord (ricco e sprecone) e Sud (arretrato tecnologicamente e vivente sotto i limiti della dignità della vita) è l’opposto di quanto Paolo VI auspicava e che ha lungamente predicato.

• Nella Rerum Novarum il Pontefice Leone XIII aveva ritenuto insufficiente il libero consenso delle parti nella stipula dei contratti di lavoro, in quanto tali contratti devono rispondere ai criteri di giustizia obiettiva (Rerum Novarum n. 27). 
• Con la dilatazione delle tematiche a livello planetario Paolo VI estese lo stesso concetto anche ai contratti stipulati fra popoli, per tutelare l’equità a favore dei più deboli (PP. N.29)

L’uso esclusivo dei beni, condannato già per l’individuo negando al diritto di proprietà privata ogni valore assoluto in tutta la tradizionale dottrina della Chiesa, non è ammissibile neppure per i popoli.

• “Nessun popolo può pretendere di riservare a suo esclusivo uso le ricchezze di cui dispone”, si afferma con chiarezza nella PP, che si richiama allo stesso principio sostenuto dal Concilio Ecumenico Vaticano II (PP n. 48).
• Sulla stessa via si continua con la valutazione riguardante il superfluo: il dovere che l’individuo ha di riversare sugli altri i beni che superano il proprio bisogno; nella PP diventa un dovere anche per i popoli ricchi nei confronti di quelli poveri (PP n. 49).
• Il riferimento della PP al Concilio si collega al concetto di superfluo già indicato da Papa Giovanni XXIII e riportato in nota nella Gaudium et Spes: “considerare il superfluo con la misura della necessità altrui” (Gaudium et Spes n. 69, nota 10).
• La programmazione viene indicata come la via più corretta per facilitare l’intervento dei poteri pubblici nel coordinare le iniziative personali nel campo della solidarietà (Mater et Magistra, n. 19, 20, 21).
• Così tecnicamente precisata, la programmazione venne rinforzata nella sua validità operativa e proposta sulla via della “liberazione dell’uomo dalle sue servitù” materiali (PP n. 33, 34, 50)

Su questo insieme di elementi dottrinali rielaborati e amplificati si innestò una dimensione nuova e originale, da sociale interpersonale e interclassista a sociale internazionale e universale.
E’ certo che non si può affermare che la PP si sia fatta prendere la mano da una visione economicistica della vita; basta dire che il problema fu affrontato come una delle componenti economico-morali dello sviluppo dell’umanità, questo dato concorre ad attribuire alla PP quel volto di modernità e di attualità che si rinnova e riesce anche a diventare profetico.

A Paolo VI succedette Giovanni Paolo II (dopo un brevissimo papato di Luciani) che trovò la strada tracciata verso l’affermazione di quell’umanesimo plenario che era maturato nei tempi.
Il dialogo intorno ai segni del tempo è proseguito e ha trovato nuovo vigore, perché la parola della Chiesa non è rimasta solamente una lettera enciclica, ma è diventata una missione ed una testimonianza, predicata in ogni angolo della terra. 
I viaggi di Giovanni Paolo II hanno consentito di "toccare con mano le gravissime difficoltà che assalgono popoli di antica civiltà alle prese con i problemi dello sviluppo"; hanno consentito, ancora, a tutti gli uomini di "ascoltare il grido di angoscia con cui i popoli della fame interpellano, con urgenza, i popoli dell’opulenza".
Il messaggio di Giovanni Paolo II rappresentò la traduzione di quanto avevano scritto i suoi più immediati predecessori; nelle sue omelie in giro per il mondo non ha utilizzato il linguaggio intemporale con la solennità pontificia, ha, bensì, immerso le sue parole nella congiuntura storica con lo stile di una persuasiva esortazione.
Sulla scia di Giovanni XXIII e di Paolo VI, Giovanni Paolo II ha testimoniato la teologia della Croce per continuare l’opera di Cristo, "il quale è venuto nel mondo per servire e non per essere servito". 
La continuità dello sviluppo del pensiero sociale della Chiesa è documentato anche dal modo di "scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo, così che in un modo adatto a ciascuna generazione si possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto".
E’ questa la continuità nello sviluppo del pensiero sociale della Chiesa, l’affermazione che i segni del tempo sono nelle competenze e nei compiti della Chiesa; solo che, quando prende in esame l’uomo nella sua condizione storica, essa abbandona l’ambito canonico del carisma dell’infallibilità e parla come Colei "che cerca insieme agli uomini che cercano".
Ma anche in questo senso la Chiesa rimane nei suoi confini e non perché la carità cristiana rende la Chiesa interessata al destino temporale dell’uomo, ma per una ragione ben più profonda che riguarda la riuscita del progresso umano, che, pur essendo un ideale profano, in quanto inerisce al disegno della creazione, ricade sotto le responsabilità della Chiesa; 

"perché la Chiesa sia quella che deve essere, bisogna che il mondo sia quello che deve essere, bisogna che non ci sia la fame, non ci siano le discriminazioni tra popoli, non ci siano guerre con tutti i suoi flagelli". 

Sotto questo profilo e alla luce della continuità successiva, l’enciclica Populorum Progressio acquista un valore profetico. 
L’itinerario di Paolo VI si incrocia con quello del suo successore, particolarmente nel realismo dei messaggi spogli delle teorizzazioni sistematiche della tradizione sociologica cattolica, misurati sui dati e sui fatti verificabili e, insieme, attraversati da un impeto morale; proprio un simile realismo rivela il mutamento in senso profetico avvenuto nella coscienza ecclesiale. La falsa profezia è quella che divide questo mondo dall’altro mondo e sulla base di questa distinzione trascura tutto ciò che appartiene a questo mondo tracciando arcobaleni sospesi sul vuoto, confondendo, così, il vuoto con l’eterno. La vera profezia fissa lo sguardo nella connessione profonda tra questo mondo e l’altro e parla di questo mondo anche quando sembra che parli dell’altro.
Le conseguenze che scaturiscono da questa impostazione attuale, moderna con proposizioni profetiche sono paradossali, valutiamo un passo della PP:

" Certuni giudicheranno utopistiche siffatte speranze. Potrebbe darsi che il loro realismo pecchi per difetto e che essi non abbiano percepito il dinamismo di un mondo che vuol vivere più fraternamente e che, malgrado le sue ignoranze, i suoi errori e anche i suoi peccati, le sue ricadute nella barbarie e le sue lunghe divagazioni fuori dalle vie della salvezza, si avvicina lentamente, anche senza rendersene conto, al suo Creatore".

L’indole profetica dell’itinerario dialettico di Paolo VI traspare nella sua globalità, anche se emerge un "calo" dottrinale. Molti teologi si sono trovati imbarazzati a calibrare la qualificazione dottrinale del documento di Paolo VI, ma questo ha poca importanza, quello che importa prioritariamente è che il linguaggio della Chiesa, quando entra nei problemi del mondo, abbia una sua forza realistica, capace di turbare anche i seguaci del materialismo. Già fin da Papa Giovanni XXIII nell’elencare "i segni del tempo", la Chiesa non aveva trascurato le argomentazioni utilizzate poi da Paolo Vi nella PP:

"I singoli essere umani, mentre partecipano sempre più attivamente alla vita pubblica delle proprie comunità politiche, mostrano un crescente interessamento alle vicende di tutti i popoli e avvertono con maggior consapevolezza di essere membra vive di una comunità mondiale".

La PP entra in questo segno dei tempi sviluppandone le implicazioni antropologiche, più ancora di quelle solidaristiche e, al limite, recuperando la cornice cosmologica in cui quel segno va collocato per essere autenticamente interpretato:

"…i popoli più giovani e più deboli reclamano la parte attiva che loro spetta nella costruzione di un mondo migliore".

Rosario Amico Roxas <raroxas@libero.it>


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