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L’ECOStoria Le tracce di Pertini a Cremona

Nei giorni scorsi Welfare, in occasione dell’anniversario della scomparsa avvenuta in Roma il 24 febbraio 1990, ha postato una bella rievocazione del Presidente Pertini.

| Scritto da Redazione
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L’ECOStoria Le tracce di Pertini a Cremona

Nei giorni scorsi Welfare, in occasione dell’anniversario della scomparsa avvenuta in Roma il 24 febbraio 1990, ha postato una bella rievocazione del Presidente Pertini.

Si tratta di una bella scelta editoriale, che parte dall’intuizione dell’attualità di una figura capace di suscitare ancora interesse storico ed identificazione civile.

A riprova di tutto questo il 15 marzo prossimo uscirà nelle sale cinematografiche “Pertini il combattente”. Si tratta di un docu-film, scritto e diretto da Graziano Diana e Giancarlo De Cataldo, che raccoglie video interviste, materiale di repertorio, testimonianze.

Destinato a focalizzare le mille sfaccettature di un uomo, che ha attraversato il 900 con tutte le sue contraddizioni, ha affrontato le due guerre mondiali e il fascismo, ha vissuto il boom economico e infine si è confrontato con gli anni del terrorismo, rimanendo sempre fedele ai suoi ideali.

Il suo autore, presentandolo nel corso di una recente trasmissione televisiva, ne ha esaltato i forti ancoraggi ideali e la permanente attualità nei contesti civili.

Forse timoroso di una eterogenesi dei fini, sul terreno dell’appealing, De Cataldo, nel tentativo di invertirne la ricaduta o semplicemente di favorire una più vasta identificazione, si è un po’ incespicato in un improbabile “Se non vogliamo più chiamarlo socialista….definiamolo…”.

Senza alcuna malevolenza, saremmo indotti a ricordare, sempre restare nell’ambito filmico, che un certo Alberto Nardi (alias Sordi) in Il vedovo ricorreva sovente all’artificio di chiamare lampadina la sigaretta.

Per quanto ben consapevoli del fatto che la qualificazione “socialista”, da un quarto di secolo, suscita l’irrazionale istinto a identificarvi ogni nefandezza, saremmo perplessi se si trattasse di un tentativo di de-socialistizzare un profilo, che ormai appartiene alla storia (aspetto che ci inorgoglisce) ma che non può in alcun modo essere privato dei suoi riferimenti ideali e militanti.

E’ anche per questo motivo che alla richiesta dell’Editore di Welfare approfondire il segmento relativo ai suoi passaggi a Cremona ed ai suoi contatti col socialismo cremonese, abbiamo ceduto (sic!) alla violenza

Ergo, l’abbiamo analizzato, traendo dalle fonti del nostro archivio e non poco dalla nostra personale memoria. Ne daremo conto, non prima, però, di aver fatto cenno all’evoluzione della personalità quale venne percepita dall’opinione pubblica, nelle varie stagioni della lunga testimonianza civile.

La sua figura aveva, in qualche misura, patito un deficit di considerazione nel grande pubblico. Ciò accadeva perché la caricatura leaderistica dei contesti contemporanei era del tutto assente dai costumi culturali di mezzo secolo fa. Essendo a quei tempi la mitologia riservata a pochi grandi leader. Ovviamente si sapeva chi fosse Pertini. Ma il suo rango, almeno fino al 1978, non era uscito dal perimetro delle figure comprimarie.

Tutt’affatto diversa sarebbe stata la cosa a partire dall’ascesa alla massima magistratura della Repubblica. Certamente per l’importanza del ruolo istituzionale; ma soprattutto per il cambio di passo che il nuovo Capo dello Stato seppe, da subito, imprimere al rapporto con l’opinione pubblica. Ma su ciò si è detto molto. E precisiamo subito che non è nostra intenzione sovrapporci a quanto risaputo.

Al contrario riteniamo interessante anteporre, alla rievocazione di quanto ci siamo prefissi di approfondire rispetto alla proiezione nella dimensione leggendaria di un’interpretazione così poco aderente ai canoni tradizionali del settennato presidenziale, alcune sottolineature. Se non proprio inedite, sicuramente meno note, dei cicli preesistenti.

Come rivela il bel ritratto postato da Welfare il sia pur tardivo profluvio (per alcuni versi anche stucchevole, se rapportato ad una enfasi frequentemente ispirata da intenti strumentali) di attestazioni, trovava fondamento in un’indubbia caratura morale e politica.

Grandissima idealità, grandissima fede nel riscatto degli ultimi della scala sociale ed umana, grandissima coerenza tra assertività e comportamenti pratici. Soprattutto, un temperamento generoso, portato a non tirarsi indietro. Poco incline a preservare sé; molto. i compagni di fede.

Nei confronti di Pertini una certa vulgata privilegia la narrazione di un socialista particolarmente portato ad accentare una certa predisposizione all’unità della sinistra. Lo testimonierebbe, secondo lo stereotipo, l’enfasi (forse eccessiva) dei gesti con cui, nella tarda primavera del 1984, manifestò il cordoglio nei confronti dell’improvvisa e prematura scomparsa del leader del PCI Enrico Berlinguer.

Tale episodio, che, al di là del lato umano comprensibile e condivisibile, aveva in qualche misura creato imbarazzi alla nomenklatura socialista dell’epoca, non può in alcun modo portare all’iscrizione di Sandro Pertini nell’elenco dei socialisti in permanente servizio filo-comunista.

Si ricorderà, sotto tale profilo, che il futuro Presidente della Camera dei Deputati (succeduto a Bucciarelli Ducci e predecessore di Ingrao e Iotti) aveva esordito (e a tale corrimano si mantenne aderente per tutta la vita) nelle file del socialismo romantico, umanitario e riformista di Turati e dei Rosselli.

Nei percorsi dialettici e nelle dinamiche interne (che in un partito, come il PSI, così incardinato nel terreno illuministico-razionalistico spesso testimoniato con eccessi di pensiero critico e di frequenti ed inconsiderati indotti pratici, comporteranno, come ben si sa, conseguenze esaltanti ed un tempo devastanti per la tenuta coesiva) non venne mai meno a quel caposaldo idealistico e dottrinario. Al punto da derivarne, almeno fino all’ascesa ai due prestigiosi ruoli istituzionali (peraltro, traguardati da outsider) un non lineare e costante percorso (di carriera, si direbbe).

Lo testimonia la brevità dell’incarico al vertice del PSI (1º agosto - 22 dicembre 1945). Ruolo in cui, probabilmente per difetto di abilità diplomatiche e conciliatorie, si era dimostrato (tratto comune a tutta la sua testimonianza militante) forse inappropriato ai compromessi e ai maneggi imposti (anche in un partito idealista) dalle dure logiche del mantenimento della posizione.

Insomma, un temperamento impulsivo, schietto (spesso anche oltre il necessario) e tenace.

Caratteristiche sempre apprezzabili in qualsiasi tratto umano; ma costituenti controindicazioni per leaderships di lungo periodo.

Nonostante il caratteraccio, fu sempre forte nel socialista savonese l’afflato unitario nei confronti delle comunità di appartenenza: il campo partigiano ed il movimento socialista.

Al di là degli accenti enfatici pretesi dall’epica resistenziale, l’antifascismo non raramente si era mostrato un aggregato tutt’altro che platonico. Quanto all’unità del campo socialista, si potrebbe azzardarne, parafrasando De Gaulle, più che la sua difficoltà, la sua inutilità.

Il giovane discepolo di Turati se ne sarebbe reso conto ben presto, a contatto della devastante rottura, operata dalla corrente comunista al Congresso di Livorno del gennaio 1921. Donde sarebbe scaturito, oltretutto in uno scenario caratterizzato dalla progressione dell’attacco fascista, un devastante indebolimento della sinistra e dei presidi democratici.

Pertini avrebbe conosciuto ben presto nell’esilio, in cui avrebbero perso la vita i fratelli Rosselli cui fu molto legato, l’improba difficoltà a mantenere quella coesione che la missione del ripristino della democrazia avrebbe preteso.

Solo nelle carceri ed al confino si sarebbero rinsaldati i vincoli di solidarietà e di profonda amicizia destinati ad attraversare tutto il periodo della Resistenza, della lotta di Liberazione, della fondazione della Repubblica e della ricostruzione del Paese.

Da cui non si sarebbe mai discostato; fino a farne un irriducibile paladino di unità.

La stessa che avrebbe voluto fosse garantita al partito cui tutto aveva dedicato. Ma che, sotto tale aspetto, era destinato a molto deluderlo.

Ancor più dolorosa sarebbe stata la rottura del gennaio 1947; con cui l’ala riformista e filo-occidentale guidata da Saragat diede vita ad una formazione, destinata a rivelarsi determinante per la collocazione dell’Italia negli schieramenti mondiali e per il mantenimento delle prerogative liberaldemocratiche, appena conquistate con la Costituzione e già in pericolo.

Per quanto sicuramente orientato verso il socialismo democratico, di cui Saragat (al quale fu sempre legato) si fece portatore, Pertini scelse di restare nel PSI. Della cui unità si fece sempre irriducibile tutore.

E’ in tale luce che chi scrive, già consapevole sin dalle premesse simpatizzanti anticipatrici dello sbocco militante, aveva incrociato questo paladino dell’unità del Partito Socialista. L’occasione fu rappresentata dal dibattito preparatorio del XXXV Congresso Nazionale (25-29 ottobre 1963 – Roma). Che aveva posto al proprio ordine del giorno la transizione, in termini espliciti, dal dialogo tra socialisti e cattolici (che aveva impegnato le precedenti assisi congressuali di Venezia, Napoli, Milano)e che aveva avuto come passaggi parlamentari propedeutici le astensioni e gli appoggi esterni all’alleanza organica tra socialisti e cattolici (meglio conosciuta come “svolta a sinistra”).

Cosa comportassero in termini di tensione emotiva ed ideale, di partecipazione dialettica, di sforzo di convincimento quelle stagioni congressuali (in particolare, per il movimento socialista) è impensabile negli scenari contemporanei. A sinistra il PCI, propugnatore del centralismo cosiddetto democratico, ne era totalmente esentato (essendo tenuto esclusivamente al gesto propagandistico del rito congressuale).

Sul versante opposto, l’altro grande partito, la DC, movimento assolutamente articolato, era quanto di più inimmaginabile ci potesse essere sul terreno di una forte coesione. Tenuta insieme col vinavil degli ammonimenti vaticani ed atlantici e dall’opportunismo a fare massa come leva di potere, la DC non si sarebbe mai significativamente disarticolata. Al contrario, del vaso di coccio, il PSI, in cui la forte tensione ideale raramente riusciva a correlarsi all’imperativo di evitare rotture interne e la consegna alla marginalizzazione.

D’altro lato, il destino lacerante di quel Congresso era implicito dalla sua convocazione. Si sarebbero fronteggiate la corrente “autonomista” (Nenni – De Martino- Lombardi) sostenitrice di un epilogo favorevole al concreto avvio dell’alleanza tra DC, partiti laici e socialisti, (che conquisterà la maggioranza assoluta con 278.324 su 478.324), la corrente “Frontista” filo-comunista contro cui andranno 190.492 consensi (tra cui quello dello sciagurato che qui scrive) e la mozione autodefinitasi  “Per l’unità del partito” con 10.568  preferenze pari al 2,18% (capeggiata, ça va sans dire, dall’inguaribile idealista romantico Pertini).

Detto fatto. Tre mesi dopo il congresso, vaticinato unitario, avrebbe prodotto i suoi effetti pratici (opposti): un’altra scissione devastante.

D’altro lato, quello striminzito 2,18% del voto precongressuale avrebbe dovuto pur dire qualcosa; quanto meno in materia di aderenza del popolo socialista all’imperativo dell’unità interna. Dopo aver tentato (senza successo) di esorcizzare l’ennesima rottura, Pertini l’avrebbe dolorosamente subita. Un poco ingenerosamente la camaraderie, per quanto in piena sincerità lo stimasse ed amasse, tendeva, completamente assorbita dalle pulsioni dialettiche (inguaribilmente sfocianti nel convincimento dell’ineluttabilità delle scissioni) ad iscrivere tale (generoso e sensato) afflato in un’ottica quasi caricaturale. Una specie di: Pertini grande partigiano e grande socialista, ma l’unità socialista appartiene all’ordine della mission impossible.

Pertini sarebbe stato sempre nel pannel dei dirigenti di prima fila, ma mai nel vertice (nelle stanze dei bottoni, come avrebbe detto Nenni). Condizione questa che in qualche misura lo preservò dalle contaminazioni.

 Fino a quando, nel giugno 1968, a seguito dell’insediamento delle nuove Camere, si aperse “una finestra” (cui presumibilmente non doveva essere estranea una manina data dal Presidente della Repubblica Saragat) per un ruolo istituzionale significativo da attribuire ai socialisti. Pertini era stato a lungo vicepresidente di Montecitorio. Quell’incarico non avrebbe fatto ombra alla nomenklatura di Via del Corso, prevalentemente impegnata nelle stanze governative.

Per di più avrebbe potuto essere edificante ai fini di sviluppi costruiti sulla spendibilità sia della percepita indipendenza istituzionale che dell’incontaminato curriculum resistenziale di Pertini.

Ma quanto sopra richiamato non costituisce certo una performance storiografica, costituendo semplicemente elemento di riflessione sulle percezioni del giovane militante socialista che fu, all’epoca, chi scrive qui.

Che è obbligato, come suggerisce la metrica dei romanzi d’appendice, a fare un passo indietro per essere coerente al progetto dichiarato di ricostruire ed approfondire le tracce dei contatti e dei passaggi fisici di Pertini nel territorio.

Iniziando da quelli più arretrati nel tempo. Di cui, per ragioni anagrafiche, non abbiamo contezza diretta; ma che possiamo desumere da L’Eco del Popolo (che resta per le nostre ricerche un impareggiabile giornale di bordo) e dalla tradizione orale dei protagonisti socialisti dell’epoca.

Di un significativo passaggio a Cremona si ha evidenza dall’edizione della testata socialista del 29 marzo 1947, con l’annuncio del comizio programmato per il giorno successivo alle ore 10 in Piazza del Comune del “valoroso deputato socialista alla Costituente, tenace oppositore del fascismo, combattente per la libertà, assertore dei diritti dei lavoratori”. L’annuncio veniva accompagnato, in prima pagina, da un’encomiastica presentazione del curriculum (al limite della piaggeria).

Dal punto di vista del contesto atmosferico, non si può dire che la manifestazione di popolo fosse stata assistita dalla benevolenza degli dei. Come preannunciato dal precedente e previdente numero de L’Eco, il comizio  si svolse non in piazza bensì al Cinema Enic (poi Roxy).

In un contesto, descritto con abile ricorso all’iperbole (costante della narrazione del direttore Emilio Zanoni), in cui diamo sintetico conto. “Davanti ad una magnifica riunione di popolo, che stipava la grande sala e le strade adiacenti, fra uno stuolo di bandiere rosse rappresentanti circa 50 paesi della provincia, Sandro Pertini ha tenuto l’annunciato discorso sul tema ”.

L’oratore, presentato dal deputato costituente Piero Pressinotti (ben conosciuto per essere stato uno dei protagonisti della lotta partigiana nel Nord Italia), in realtà dovette impegnarsi in un approfondimento molto più vasto. Il cui incipit mise a fuoco la divergenza socialista sul “trattato di pace imposto all’Italia dagli alleati che non riconoscono più oggi lo sforzo compiuto dal popolo italiano per riscattare un periodo nefasto di cui esso fu la vittima”.

Il prosieguo fu un’ampia disamina delle problematiche interne, politiche e sociali; secondo una lettura che prendeva le mosse dalla scissione appena avvenuta a Palazzo Barberini e dal tendenziale esaurimento dei governi ciellenisti e preludeva a scenari di profonda contrapposizione tra il partito destinato a diventare egemone, la DC, e la sinistra indirizzata a diventare minoritaria (soprattutto, alla luce del verdetto elettorale di un anno dopo).

Possiamo azzardare che quel contesto, in cui Pertini venne a parlare dell’azione politica socialista, era reso mosso dalle contrapposizioni che andavano accentuandosi per le conseguenze internazionali e per le tendenze del quadro locale, speculari allo scenario nazionale.

Ancor più di quello nazionale e mondiale (già di loro in effervescenza) era il contesto locale; contraddistinto, oltre che dall’indotto politico, anche da dinamiche sociali non esattamente armoniche.

Il territorio provinciale era pervaso dalle immaginabili ricadute del disassamento di un sistema durato vent’anni e di una guerra disastrosa che aveva distrutto praticamente tutto.

La ricostruzione ci sarebbe stata. Ma in quel primo biennio post-bellico mancava tutto: casa, lavoro, cibo.

Si può affermare che l’intero 1947, nel cui ottobre Pertini venne a Cremona, si distinse per fatti sociali decisamente sopra le righe. Di cui, anche non volendo, la politica dovette occuparsi.

Se ne ha idea se si pone mente ad uno dei titoli della settimanale uscita de L’Eco del Popolo in cui i socialisti denunciavano: “Speculazione altre zone tende affamare nostra provincia comperando a prezzi elevatissimi. Prefettura ha emesso decreto di blocco patate. Necessita mantenere decreto prodotto locale quasi scomparso”

Come annotammo nel nostro “Il Socialismo di Patecchio”, uscito nel 2007, “L’escalation della protesta, speculare all’insostenibilità di una pressoché generalizzata situazione di patimenti, sfociò in una serie di imponenti manifestazioni”.

E quando scriviamo imponenti manifestazioni non intendiamo riferirci a cortei aperti da bandiere e fanfare. Bensì a proteste di piazza affrontate dai preposti all’ordine pubblico con modalità ed apparati ispirati non esattamente in senso zen.

Per chiudere il capitolo, Pertini venne in quella seconda parte del 1947 a Cremona, nello scenario appena descritto.

In una temperie diversa, anche se non tutt’affatto diversa, Pertini sarebbe tornato. Non a Cremona, ma a Crema; esattamente l’8 maggio 1975. Le dinamiche politiche si erano, da tempo assestate su equilibri di stabilità, di governabilità, di apertura sociale. Ma sotto la cenere continuavano a covare le braci delle pulsioni eversive.

C’era stato il filotto degli attentati della Banca dell’Agricoltura di Milano, di Piazza della Loggia, degli scambi ferroviari della Stazione di Firenze, dell’Italicus. Ci sarebbe stato qualche anno dopo quello devastante della Stazione di Bologna.

Mancavano ancora, a metà anni 70, le gesta terroristiche dell’eversione rossa. Ma il clima era quello. Si sarebbe potuta anche incardinare una spirale di collassamento dell’intero ordinamento democratico. Se non accadde è perché ci fu una risposta decisa da parte degli apparati “sani” e fedeli della Repubblica e, soprattutto, ci fu una risposta popolare che vide unite, pur nella permanenza di contrapposizioni politiche, le forze politiche democratiche, quelle del lavoro, quelle dell’associazionismo partigiano.

Si costituirono anche localmente i Comitati per la difesa della democrazia. Fatto che avvenne anche a Crema. L’8 maggio 1975, nel trentennale della Liberazione, Sandro Pertini onorò con la propria visita e testimonianza quella cittadina del Serio, che si era particolarmente distinta su tale versante. Era stato invitato dai socialisti cremaschi; ma accettò quell’invito a condizione che la manifestazione avesse un carattere super partes.

Fu accolto dal Sindaco prof. Archimede Cattaneo, noto esponente democristiano, e dal vice-sindaco Maurizio Noci. Che, riscontrando gli auspici privatamente rivolti dal Presidente della Camera dei Deputati, neanche due mesi dopo avrebbe rilevato il testimone da Cattaneo.

Fu un bagno di folla in quella domenica mattina nella piazza del Duomo. Sarebbe stato ancor di più un bagno di folla il pomeriggio. Quando Pertini inaugurò il Circolo Socialista di Chieve, intitolato ad Attilio Boldori, della cui fondazione era stato l’indimenticato Sindaco Elio Bozzetti.

Se ne sarebbe andato commosso per la calorosa accoglienza e grato per, come confidò ai compagni, una delle più belle giornate della sua vita.

Il successivo (ed ultimo) ritorno nelle terre meridionali della Lombardia sarebbe stato nel settembre 1982, l’anno delle celebrazioni del 2200° anniversario della fondazione romana della colonia sulla sponda sinistra del Grande Fiume.

La “sonnolenta città”, non raramente e non del tutto ingiustificatamente imputata di “ruminare”, non aveva perso di vista l’importantizza ed il significato dell’anniversario e l’inderogabile dovere di celebrarlo.

Ci fu, fin dalle premesse, un afflato corale dell’istituzione comunale, dell’associazionismo culturale e categoriale, della città tutta per una risposta congrua. Non è qui il caso di una dettagliata descrizione. Ma si ricordano solo alcune iniziative di grande livello (Mostra delle monete romane; esposizione collezioni d’arte di Palazzo Comunale; esposizione degli strumenti ad arco; Congresso storico-archeologico). Donde sarebbero scaturite la consapevolezza del grande patrimonio artistico, monumentale e culturale della Città e, soprattutto, la determinazione di costruire su di esso la valorizzazione delle enormi potenzialità della città.

In quel settembre, tra l’altro baciato dalla benevolenza degli dei preposti alle fortune climatiche, Cremona, mettendo in mostra i gioielli di famiglia, assunse coscienza, anche grazie all’impulso del governo comunale e alla capacità di coinvolgimento di tutte le sensibilità e risorse comunitarie, di aggiungere un registro in più nel modo di essere attraente verso l’esterno e di incardinare un nuovo modo di interpretare la qualità della vita urbana.

L’arrivo dell’inquilino del Quirinale, per l’alone di celebrità catalizzatrice di identificazioni, nel tratto popolare e nei gesti informali, e di consensi che era cresciuto esponenzialmente (specie da quando quattro mesi prima, con la coppa dei mondiali di calcio in Spagna, era stato percepito come agente propiziatore) aveva catalizzato, fin dalle premesse e dall’annuncio, un moto spontaneo di orgoglio e di euforia.

Andrebbe, altresì, aggiunto che solo da poco tempo l’indotto della celebrità acquisito televisivamente era decollato, soprattutto grazie alle eccezionali risorse di quel portatore di profili virtuosi.

Avere il Presidente costituì da subito una circostanza eccezionale nella storia della città. L’ultima visita presidenziale era avvenuta ventidue anni prima, nell’autunno del 1960, con Giovanni Gronchi.

Che, eletto cinque anni prima alla Presidenza della Repubblica, aveva avuto più di un’avvisaglia del destino di dover iscrivere quel 1960 nell’elenco degli  anni horribiles (il governo Tambroni che avrebbe nelle intenzioni dovuto aprire le prospettive della svolta a sinistra ed invece fu percepito come un tentativo autoritario e, soprattutto, i fatti di Reggio Emilia, Roma, Genova).

Nonostante questo potrà annoverare tra le circostanze benigne quella visita alla capitale del Po, iniziata dal ricevimento del sindaco socialista Feraboli e conclusa con l’inaugurazione della banchina portuale del lungo Po.

Ben diverse furono le premesse per l’approdo di Pertini, quel 24 settembre 1982.

Nella lettura dell’artefice di questa eccezionale opportunità l’evento avrebbe potuto inclinare anche nel senso di una capitalizzazione in senso politico.

Zaffanella, deputato per due legislature e Sindaco da due anni, ne avrebbe tratto  insegnamenti di tipo binario: in direzione del supremo interesse della città e di uno stimolo per una rivitalizzazione del movimento socialista.

D’altro lato, il bilancio dell’evento, quale fu esposto in un articolo apparso nel dicembre successivo, non si presta ad equivoci (Anche se irripetibile sarà per Cremona è necessario non disarmare, creare nuove iniziative, affrontare con coraggio i nostri problemi (e non sono pochi né facili) per risolverli nel miglior modo. Questo è l’impegno che noi, noi socialisti soprattutto, dobbiamo assumere per il nuovo anno, traendo dalla visita del compagno Sandro lo stimolo e la fiducia per le nuove impegnative battaglie.)

D’altro lato, come censurare in diretta (allora) ed a posteriori (oggi) l’impulso dei socialisti cremonesi a mettere anche un piccolo sigillo su un evento così significativo…

Per gli annali, si rivela qui che, a cura dello scrivente, la macchina (socialista) dell’accoglienza si era incaricata di affiggere lungo i quattro punti cardinali del territorio 10.000 manifesti, recanti (in aggiunta alla litografia) “Benvenuto Sandro – I socialisti cremonesi”.

La stessa litografia in versione cartolina fu diffusa in città in migliaia di copie. (ne sono restati alcuni esemplari che omaggeremmo volentieri ad eventuali interessati).

Avendo voluto, poi, strafare il volto del Presidente, tracciato magistralmente dal bravo pittore cremonese Sergio Tarquinio, confluì su 100 copie numerate.

In realtà fu una festa molto partecipata. Sia per il senso civile che sottintendeva sia per le modalità assolutamente aperte verso i cittadini e le istituzioni locali.

A cominciare dal ricevimento nel Palazzo della Prefettura di tutti i Sindaci della Provincia, delle rappresentanze sociali, degli esponenti dei partiti politici. Tra cui il sottoscritto, al quale i lettori de L’Eco generosamente perdoneranno l’incoercibile impulso all’autocitazione fotografica.

Ma, insomma, si erano da poco compiuti trentasei anni, da due (e per altri cinque) si ricopriva l’incarico (all’epoca importante) di segretario provinciale dello stesso partito (cui era iscritto anche l’illustre ospite), a pieno titolo si apparteneva alla squadra che aveva propiziato la visita.

Tutte considerazioni, se non proprio esimenti almeno attenuanti del non trattenuto gesto esibizionistico.

Tra l’altro, ancora guardando l’immagine, pare di potere confermare nel ricordo l’impressione di istantanea benevolenza colta  de visu nel Presidente, forse di compiacimento alla constatazione del ricambio generazionale avvenuto nel partito socialista cremonese.

Che dire poi del successivo percorso pedonale di raggiungimento di Palazzo Comunale?

Un bagno di folla; che si sarebbe ripetuto qualche ora dopo, quando il Presidente avrebbe partecipato in Cattedrale ad un apprezzato concerto.

Cremona marzo 2018

 

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