Travolti dalla frenesia delle nostre vite individuali, non ci si accorge forse di vivere in tempi eccezionali: le ultime evoluzioni del quadro mondiale configurano un mondo in pieno caos geopolitico e finanziario, un tourbillon inestricabile che difficilmente potrà essere risolto nei prossimi anni. Se il 2012 era stato l’anno dello spread e del bazooka di Draghi, il 2013 quello della rielezione della cancelliera Merkel e delle sue politiche di contenimento fiscale, il 2014 probabilmente sarà ricordato come l’inizio del crepuscolo dell’Europa austera a trazione tedesca, travolta da un dissenso dilagante non solo nelle periferie piegate da anni di recessione (Grecia, Portogallo, Italia e Spagna), ma anche nelle capitali Parigi e Londra, che per importanza non sfigurano di fronte a Berlino.
Le elezioni europee del maggio 2014 sono state uno spartiacque fondamentale nella storia europea: a posteriori, perfino il trionfo di Renzi in Italia può essere visto come una ribellione di massa all’austerity, tenendo conto che il Primo Ministro italiano – pur avendo approvato in Italia, obtorto collo, una legge di stabilità timida – sia stato invece in Europa uno degli azionisti di maggioranza del piano d’investimenti da 21 miliardi di Jean-Claude Juncker. Dai responsi francesi ed inglesi è arrivata invece una svolta radicale e scettica: il FN di Le Pen e l’Ukip di Farage saranno, con tutta probabilità, i veri protagonisti nelle prossime elezioni in quei Paesi, a partire dall’attesissimo voto nel Regno Unito del 7 maggio 2015.
Il bivio a questo punto appare chiaro: da una parte l’idea di un’Europa federale che metta al primo posto gli investimenti pubblici. In tal senso, il piano Juncker può essere visto solo come una dichiarazione di buona volontà, ma non certo come una mossa risolutiva. Gli investimenti pubblici coprono appena il 2% del PIL comunitario (negli Stati Uniti il 4%) e tra 2008 e 2013 sono calati del 20%. Senza investimenti pubblici, uniti alla politica monetaria espansiva della BCE, l’Europa è destinata ad un periodo indefinito di stagnazione, depressione salariale e disoccupazione di massa indotta da politiche di repressione della domanda interna effettuate in contemporanea da tutti i Paesi membri. Se ciò si avverasse, forse la Germania sarebbe felice (ma ormai anche da quelle parti gli eretici stanno superando i dogmatici dell’austerity), ma per l’Europa inizierebbe un declino irreversibile.
Di qui il secondo scenario possibile: che dal 2015, causa incapacità delle politiche europee di ridare una speranza ai cittadini comuni, si assista ad uno scioglimento dell’eurozona, propiziato magari da una prospettiva di uscita della Gran Bretagna dall’Unione e da una vittoria di Tsipras alle probabili elezioni greche. Sarebbe un peccato, proprio ora che sembra possa concretizzarsi un abbozzo di politica di investimenti e una minima volontà di combattere l’elusione fiscale: impulsi che potrebbero essere rafforzati da un’affermazione di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna, entrambe forze non “europeiste a tutti i costi” (cioè disposte a rimanere nell’euro a qualsiasi costo), ma genuinamente europee e con un salutare afflato d’uguaglianza che di certo non guasta in tempi di diseguaglianza patrimoniali e reddituali ormai fuori controllo. In ogni caso, lo scenario “fine dell’euro” va considerato sempre di più, tenuto conto che la crisi non pare avere limiti temporali e spaziali, mentre la pazienza degli elettori sembra prossima all’esaurimento.
Se c’è una consapevolezza su cui tutti, austeri e non austeri, possono convergere è che la piccola Europa non possa vivere un altro anno come il 2014, in mezzo al guado senza prospettiva e ormai sinonimo di deflazione e fallimento delle politiche macro-economiche, mentre il mondo attorno sta cambiando. Il crollo del prezzo del petrolio sta producendo impulsi di deflazione che rischiano di far male ancora di più alle economie europee; lo scontro con la Russia, con annesso strascico di sanzioni e contro-sanzioni, sta danneggiando fortemente l’economia, in particolare quella tedesca oltre a quella russa; in Asia, infine, il Giappone è ancora travolto da deflazione e recessione, mentre la Cina, a rischio bolla immobiliare, è in forte frenata.
In un globo che soffre ormai cronicamente di un eccesso d’offerta e di un calo della domanda che lambisce ormai l’Asia, il 2015 potrebbe essere in Europa l’anno buono per rilanciare la domanda aggregata e abbandonare le politiche restrittive di matrice nordica.
Fonte: Buongiorno Slovacchia