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Porta della Musica 2016 ‘Trio Kanon’ al Fodri di Cremona il 4 settembre

Prosegue la rassegna “Porta della Musica 2016” organizzata dall’Associazione Costanzo Porta in collaborazione con la Fondazione Città di Cremona. Il prossimo appuntamento si svolgerà domenica 4 settembre 2016, alle ore 21.00, presso il Cortile di Palazzo Fodri, Corso Matteotti 17.

| Scritto da Redazione
Porta della Musica 2016 ‘Trio Kanon’ al Fodri di Cremona il 4 settembre

Protagonista del concerto il noto Trio Kanon con i musicisti Lena Yokoyama al violino, Alessandro Copia al violoncello e Diego Maccagnola al pianoforte che eseguiranno musiche di  F. Mendelssohn e A. Dvorák. Oltre ad essere musicisti professionisti e concertisti in tutto il mondo, Lena Yokoyama e Diego Maccagnola, fanno parte dal gruppo dei Maestri della Scuola di musica COSTANZO PORTA che ha sede presso lo stesso Palazzo Fodri e che accoglie da alcuni anni bambini, ragazzi e adulti, proponendo un’offerta formativa musicale di alta qualità sia nell’ambito del canto che nell’ambito strumentale.

 Domenica 4 Settembre, ore 21.00 Cortile di Palazzo Fodri, C.so Matteotti 17 Cremona 

Trio Kanon: Lena Yokoyama, violino-Alessandro Copia, violoncello-Diego Maccagnola, pianoforte

 Musiche di F. Mendelssohn e A. Dvorák

 Felix Mendelssohn Bartholdy (1809-1847)

Trio per violino, violoncello e pianoforte N.2 in do minore op. 66

 I. Allegro energico e con fuoco

II. Andante espressivo

III. Scherzo. Molto allegro quasi presto

IV. Allegro appassionato

 * * *

 Antonín Dvoák (1841-1904)

Trio per violino, violoncello e pianoforte N.4 in mi minore op.90 “Dumky”

 Dumka 1. Lento maestoso - Allegro vivace, quasi doppio movimento

Dumka 2. Poco adagio - Vivace non troppo

Dumka 3. Andante - Vivace non troppo

 Dumka 4. Andante moderato (quasi tempo di Marcia) - Allegretto scherzando

Dumka 5. Allegro

Dumka 6. Lento maestoso - Allegro vivace, quasi doppio movimento

TRIO KANON

Il Trio Kanon (il nome, oltre ad avere assonanza con il Canone, è anche l'unione di due parole giapponesi: “Ka”, fiore e “On”, musica, quindi letteralmente “musica fiorente”) nasce nell’estate del 2012 dall’amicizia di tre musicisti che hanno deciso di condividere la loro passione per la musica da camera studiando sotto la guida del Trio di Parma (Ivan Rabaglia, Enrico Bronzi, Alberto Miodini), presso l’International Chamber Music Academy di Duino, fondata dal Trio di Trieste nel 1989.

Il Trio Kanon è vincitore di premi in concorsi nazionali (Primo Premio e Premio del Pubblico nel XXI Concorso di Musica da Camera Giulio Rospigliosi) e internazionali (XXII International Brahms Competition di Poertschach, in Austria e Schoenfeld International String Competition 2016 di Harbin, Cina).

Nel marzo 2014 è stato uno dei cinque gruppi finalisti (selezionati tra oltre 50 ensemble provenienti da Stati Uniti, Europa e Canada) a partecipare al Chesapeake Chamber Music Competition di Easton (Usa), seguito da un concerto nella Christ Episcopal Church di Cambridge (MD, US).

Nel 2015 ha vinto il “Chamber Music Award” come miglior gruppo da camera presso l’Internationale Sommer Akademie Prag-Wien-Budapest, prestigioso riconoscimento patrocinato dall’Haydn Institute di Vienna.

Il Trio si è esibito in numerosi concerti: in Italia presso il Teatro La Fenice di Venezia, il Palazzo Gromo Losa di Biella, gli Studi Rai di Trieste, l’Auditorium W. Walton di Ischia, il Teatro Giacosa di Ivrea, il nuovo Auditorium “G. Arvedi” di Cremona, Palazzo Ducale e Palazzo Te a Mantova durante il Mantova Chamber Music Festival 2016, all’estero in Inghilterra, Croazia, Austria, Norvegia, Cina e Stati Uniti, riscuotendo ovunque successo di pubblico e di critica.

Nel 2014 il Trio Kanon è stato ammesso ai corsi tenuti da Alexander Lonquich presso l'Accademia Chigiana di Siena; ha  inoltre seguito le masterclass di Robert Cohen presso Snape Maltings (UK); di Hatto Beyerle, Miguel da Silva e Annette von Hehn (Atos Trio) presso la Trondheim Chamber Music Academy 2014 (Norvegia) e di Avedis Kouyoumdjian, Johannes Meissl, Anita Mitterer, Péter Nagy, il Talich Quartet e gli altri insegnanti ECMA presso i corsi estivi di Semmering e Reichenau an der Rax (Vienna).

Nel febbraio 2015 il Trio è stato invitato come “gruppo in residence” a Snape Maltings (UK) per il prestigioso Festival “Aldeburgh Music 2015”, con due concerti per la stagione primaverile presso la Jubilee Hall.

Nell’estate 2016 il Trio è stato protagonista di una fortunata tournée in Cina, in cui ha potuto esibirsi presso il Parkview Green Museum di Pechino, in un concerto patrocinato dall’Istituto di Cultura Italiana.

Ha inciso per la rivista “Amadeus" musiche di L. v. Beethoven.

Felix Mendelssohn Bartholdy (1809-1847) - Trio N.2 in do minore op. 66

Felix Mendelssohn, enfant prodige che a 9 anni si era esibito per la prima volta in pubblico e a 15 aveva già scritto 14 sinfonie, si dedicò al trio con pianoforte relativamente tardi: infatti compose il trio N.1 op. 49 nel 1840 a 29 anni e il trio N.2 op. 66 nel 1845 a 36 anni.

Il motivo di tale ritardo è forse da ricercare nel ruolo che Beethoven e Schubert avevano avuto, a inizio '800, nel mutare radicalmente i connotati del Trio con pianoforte.

Già Beethoven aveva riequilibrato il peso dei tre attori sul palcoscenico, dando finalmente più risalto agli strumenti ad arco, che fino a Mozart erano un poco sacrificati rispetto allo strumento a tastiera.

Aveva inoltre portato il trio da genere disimpegnato qual era, ad essere forma musicale tra le più nobili, equiparabile al quartetto d’archi, dilatando anche la durata delle composizioni fino a raggiungere proporzioni sinfoniche (il trio dell’Arciduca op. 97 ne è un fulgido esempio).

Schubert si inserì sulla medesima strada, pur con esiti totalmente diversi: dove in Beethoven vi è una costruzione architettonica di stupefacente simmetria, in cui anche il singolo fregio ha un ruolo strutturale e non puramente decorativo, in Schubert si erge una cattedrale di uguale bellezza, in cui però è lecito anzi preferibile perdersi nella contemplazione delle cappelle laterali, in cui sono affrescati sempre gli stessi due o tre soggetti, ma dipinti in un caleidoscopio di tinte diverse e ripresi da differenti prospettive.

E Mendelssohn? Egli, meraviglioso organista oltre che pianista, convertito al protestantesimo dopo un’educazione ebraica, aveva sempre ricercato nella sua musica la purezza degli autori classici: Bach e Mozart erano i suoi modelli, l’uno riscoperto e amato per l’uso sapiente del contrappunto, l’altro invidiato per l’inesauribile vena melodica.

Cresciuto in un ambiente felice, senza problemi economici e incentivato dal successo, Mendelssohn sviluppò uno stile che rientra pienamente nel periodo biedermeier della produzione musicale tedesca, intriso da somma sapienza tecnica ma anche da un certo grado di disimpegno e leggiadria, se confrontato con lo sturm und drang di inizio secolo.

Questo vale per gran parte della sua produzione soprattutto giovanile, le prime sinfonie, le Romanze senza parole per pianoforte e anche molta musica da camera.

Nei due trii però, e in particolare nel secondo, Mendelssohn non può ignorare il contributo di Beethoven e di Schubert, infatti la profondità e l’epos drammatico dell’op. 66 si colgono già dall’incipit del primo movimento.

L’allegro energico e con fuoco è caratterizzato da un primo tema inquieto, in cui i tre strumenti danzano come una zattera su un mare in tempesta attraverso frenetici arpeggi di do minore, e da un secondo tema lirico e più consolatorio, in tonalità maggiore.

Il tutto, attraverso uno sviluppo che toccherà tonalità molto lontane (re maggiore), porta a una coda molto articolata e spettacolare per virtuosismo e sonorità.

L’andante espressivo e lo scherzo sono forse i due movimenti più biedermeier del trio: il primo è una tranquilla e soave barcarola in 9/8, che rappresenta forse la calma di mare che segue il fortunale; il secondo è una pagina abbastanza simile al terzo tempo dell’op.49, ritmo velocissimo, tocco leggero puntellato da accenti, sforzati e ribattuti incalzanti.

L’ultimo movimento, l’allegro appassionato, riprende il carattere austero e drammatico del primo.

In più, Mendelssohn inserisce il tema di un corale luterano (“Gelobet seist du, Jesu Christ”), enunciato prima dal pianoforte poi dal violino in pianissimo. E’ senz’altro il momento più toccante dell’intero trio.

Dopo la ripresa, Mendelssohn ripropone il corale nel finale, stavolta in veste di grande fanfara e in tonalità di do maggiore, per chiudere l’ultimo suo lavoro da camera con tono di grande giubilo e speranza.

Antonín DvoÅ™ák (1841-1904) - Trio N.4 in mi minore op.90 “Dumky”

La parola dumka (dumky al plurale), è un termine di origine ucraina che si ritrova in tutte le lingue slave e significa letteralmente “pensiero” (dal verbo dumati, pensare, meditare, riflettere).

E’ attestata anche come diminutivo di duma, una ballata epica slava dal carattere malinconico che i Cosacchi intonavano accompagnati dalla kobza, strumento simile al liuto.

A metà del XIX secolo la “dumka” come forma musicale è diventata popolare in Europa grazie ad uno studio etnologico del pianista e compositore Mykola Lysenko, che durante una delle sue dissertazioni invitò un suonatore di kobza ad eseguire alcuni di questi canti.

Antonin Dvorak nacque in Repubblica Ceca e visse a Praga per gran parte della sua vita, prima di trasferirsi negli Stati Uniti nel 1892. La musica della sua terra era parte fondamentale del suo background culturale (il padre era anche un suonatore di zithar); fu quindi naturale che, negli anni ’80, nel pieno della sua maturità artistica come compositore e sotto l’influenza del suo caro amico e sostenitore Johannes Brahms, i ritmi e le armonie boeme iniziassero a fare capolino nelle sue opere.

Nella “dumka” Dvorak vedeva concentrati tutti gli aspetti della musicalità slava, l’origine di quel misto di malinconica serenità e gaiezza ritmica di cui la musica di quella terra è impregnata.

Il trio op. 90 è il quarto e ultimo lavoro di Dvorak per questa formazione strumentale e la scelta di costruire un brano di circa mezz'ora su una successione di danze slave, quasi sul modello di una suite barocca, è sicuramente innovativa e indice della volontà di superamento degli schemi formali classici-romantici.

La sapienza con cui il compositore ceco dipana il discorso musicale attraverso sei episodi diversi, sottilmente connessi da rimandi tematici e tonali, è sbalorditiva.

Vi sono temi eroici, epici, addirittura furiosi, contrapposti a momenti più malinconici e ad altri più sereni.

Tutte le melodie sono originali di Dvorak, che non si affida a temi folcloristici conosciuti per trascriverli, ma  riesce ad assimilare a fondo lo spirito popolare e a tradurlo in nuovi motivi ricchi di pathos e fantasia.

Ogni dumka è caratterizzata da un episodio in tempo lento contrapposto ad uno in tempo più vivace, vi sono però mille sfumature dinamiche ed agogiche che è impossibile descrivere a parole.

Il compositore sfrutta la sua maestria e la profonda conoscenza degli strumenti ad arco, da violinista e violista qual era, per tessere un vero e proprio romanzo, fatto probabilmente di 4 capitoli principali (i primi tre brani, collegati tonalmente, si potrebbero pensare come un primo tempo di sonata) e la cui conclusione, la sesta famosissima dumka, sull’onda dell’ultimo grandioso tema del violoncello, forse fonte di ispirazione  per colonne sonore Spielberghiane, ci accompagna trasognanti tra le stelle.

 Diego Maccagnola

 

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