Domenica, 19 maggio 2024 - ore 10.04

Puarèt tà’ me Sàant Quintìin | Maria Pola

Dire che eravamo poveri come “Sàant Quintìin*” è poco: non si trattava di non poter comperare cose, ma di avere fame.

| Scritto da Redazione
Puarèt tà’ me Sàant Quintìin | Maria Pola

Bisognava darsi da fare per rimediare qualcosa da mettere sotto i denti e poco importava se si era bambini: tutti in famiglia collaboravano. Avevo sette anni, nessun problema ad andare in giro per la città. Alle sei di mattina, in Piazza Sant’Angelo, al mercato della frutta e della verdura, i venditori avevano quasi fi nito di togliere la loro merce dai carretti che arrivavano dalla campagna e di esporla. Davano una ripulita alle  verdure eliminando qualche foglia appassita, scartando qualche frutto che aveva perso freschezza. Gironzolavo intorno a quelle bancarelle ed ero svelta a raccogliere una gamba di sedano, qualche patata non del tutto sana, prima che qualcun altro mi precedesse. Era una vera fortuna, quando riuscivo a mettere nel mio involucro una mela e un’arancia. Ormai i venditori mi conoscevano, perciò capitava che, per primi, mi regalassero qualcosa, invece di gettarla per terra. Erano davvero giornate intense, perché, a giorni fissi, incurante anche del freddo, avevo posti dove andare per racimolare ciò che serviva in casa. Ad esempio, al bar “Flora” e ai “Granatieri”, nelle vicinanze dell’attuale Banca d’Italia, potevo trovare dei fondi di caffé oppure, verso sera, tra via Manini e via Giordano, andavo alla SNUM. In questo deposito di immondizie, io e mia mamma giravamo in lungo e in largo alla ricerca di qualcosa che altri avevano eliminato, ma che a noi poteva essere utile. Trovavamo spesso delle assi di legno: l’addetto era gentile, ce le portava a casa. Ne traeva un piccolo vantaggio perché mia mamma gli regalava un pacchetto di sigarette: le Popolari. Di domenica, se non andavamo lungo l’argine Panizza alla ricerca di legna, tagliavamo quella della discarica garantendoci, almeno per alcuni giorni, un po’ di caldo in cucina.

Ero abituata a lavorare, infatti dai sette ai dieci anni, le mie vacanze trascorsero in campagna, a Torre Picenardi, nella cascina che si trovava proprio davanti al castello e dove viveva mia nonna. Quelle non erano vacanze: si lavorava dalla mattina alla sera. Noi ragazzine, verso la fi ne di agosto, dovevamo “pelàa* e simàa*”. Il sole scottava ancora e le mani che si tagliavano a causa delle foglie del granoturco, facevano male. C’era anche chi, in quell’atmosfera afosa, trovava la forza di fare la corte a qualcuna. Mentre scartocciavo una pannocchia e non avevo altro pensiero che stare attenta a come muovere le mani per non farmi male, uno mi diceva che gli piacevo, che voleva sposarmi. Mia mamma mi liquidava in fretta quando le raccontavo le mie conquiste: “Ma va là…da grande, ne troverai di stupidi a Cremona…” In quelle estati faticose ed assolate, tuttavia, non mancavano momenti di allegria, quando tutti insieme mangiavamo nel campo polenta e cotechino e cantavamo sempre le stesse canzoni al suono di una chitarra suonata da non so più chi.  Prima di rientrare in cascina, preparavamo i “minòt*”, misure in ferro che riempivamo di granoturco da dare ai contadini e al vaccaro. Tutto sommato, ero contenta di quel lavoro perché sapevo che mia nonna, per ricompensa, mi avrebbe regalato un vestito ed un paio di scarpe che comperava da due ambulanti di Isola Dovarese e di Asola. Non si smetteva mai di lavorare. Al rientro dai campi, in cascina facevamo il pane: erano il pan biscotto, i deliziosi “pirlìin*” e le “chisóole*”, lunghi pani all’olio o all’uovo e quando nel campo non restava più nemmeno una pannocchia, era già ora di pigiare l’uva, di preparare il mosto. Ai primi di ottobre, le mie vacanze terminavano. Mio padre arrivava a Torre Picenardi con una specie di diligenza, un carretto con panche trainato da un cavallo di cui si liberava in via Buoso da Dovara, dove c’era uno stallo. Allora salivo sulla canna della sua bici fi no a casa. Se da bambina ho dovuto lavorare, da giovane non è stato diverso e nemmeno più facile: mi aspettavano i tempi diffi cili della fi ne della guerra, quando in Largo Pagliari uccisero il “primo” fascista, mi aspettava il caos del 25 aprile, quando tutti i fascisti diventarono comunisti, mi aspettava la ricerca di un lavoro stabile. 

da un racconto di Maria Pola Cremona, 11 ottobre 2005 

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