Mercoledì, 24 aprile 2024 - ore 03.47

"Emmepitrè" di Ennio Serventi

| Scritto da Redazione

 Risolto, con l’aiuto d’internet e di dizionari, il mistero del titolo del romanzo che la ragazza gli aveva portato, gli rimaneva da scoprire cosa si nascondesse dietro quell’insieme di lettere e numero
al quale, la ragazza autrice, gli pareva riservasse una certa affettuosità.   Ormai non più giovane, aveva ritrovato in quel tràtto la stessa attenzione che lui riservava ai vecchi oggetti,  quelli che lo avevano accompagnato  negli anni: una medaglia vinta ad una gara di canottaggio, un organetto che girando una manovella suonava vecchie canzoni proletarie, un invito ad un congresso giovanile ed altre cose del genere.   Già due volte aveva incontrato quell’insieme di lettere d’alfabeto e numero,, e l’una e l’altra era stato costretto ad una ripetuta attenta rilettura.  Iniziava con  la  riga che lo precedeva, passava  a  quella  successiva per  poi, via via,  allargarla    all’intero brano, senza cavarne un ragno dal buco.  Lui era certo che  a lungo andare  l’arcano alfanumerico si sarebbe svelato, forse  in modo non palese, ma sicuramente nel dipanarsi dell’intrico del racconto l’enigma si sarebbe sciolto. Sola, da capire, sarebbe allora  rimasta l’affascinante origine dell’ iniziatica  preveggenza del sogno.

E’ probabile, pensava lui, che quella sigla avesse a che fare con le facoltà della pietra che si dicevano magiche, o, magari, con quel grumo di sangue solido racchiuso al suo interno che in qualche modo si palesava anche nel nome del romanzo. Doveva essere  proprio così! Quell’insieme di lettere e numeri aveva sicuramente a che fare con il sangue, lui ne era convinto.  Quelle nove lettere d’alfabeto, che potevano essere anche un acronimo  che non gli era  interamente sconosciuto, lo riportavano indietro nel tempo, in un aggrovigliato e confuso sovrapporsi di ricordi  di cose accadute in epoche diverse e distanti. Questo essere spinto a ritroso da un insieme di lettere  usate da una persona giovane, molto più giovane di lui,  gli procurava qualche psicologico disagio. Lei, la giovane autrice del romanzo, certamente non aveva ricordi nella profondità del tempo e quel “mio”, del quale scriveva quasi con affetto, non poteva che essere una cosa di questo e di un momento futuro.

SE così era, si chiedeva lui, perché veniva spinto a cercare la  soluzione del mistero alfanumerico solo in un passato che cominciava ad essere di pochi?.Quelle nove lettere  lo riportavano, vagamente, ad un aggeggio ed ad una mattina di tanti anni fa.   Quel giorno,con quell’aggeggio fra le mani, aspettando che il caporalmaggiore gli dicesse cosa doveva fare, se ne stava sdraiato sopra quella terra che i racconti dicevano come fosse stata di  rosso partigianato. Dove questa finiva, da santo Stefano fin  oltre la cascina e sulle alte colline della Langa  che s’intravedevano, era stata la terra degli “azzurri”, quelli di  “Nord” il gran capo,  ed il confine fra i partigiani “rossi” ed i partigiani  “azzurri” seguiva il solco del  Belbo. Ma  nel paese di santo Stefano la piazza  era di  tutti;  degli “azzurri”, che sembra taroccassero con più successo le ragazze e dei “rossi”, dove vi cantavano quella  canzone “tremenda che loro avevano e che noi non avevamo”.  Forse sarà stato per quella lenta e solenne cadenza  slava  del motivo e  per   i toni bassi e  potenti  dei  rossi cantori partigiani,  ma quel  canto dava  i brividi  anche agli “azzurri” che glielo invidiavano ed intimoriva i “neri” fin  dentro il loro fortificato estremo avamposto di Canelli. “Fischia il vento, urla la bufera / scarpe rotte, pur bisogna andar / per conquistare la rossa primavera / dove sorge il sol dell’avvenir!”   

Era passato più di mezzo secolo da quando lui aveva finito il servizio militare. Ora  la leggenda di quel grumo di sangue solido contenuto all’interno della pietra lo riportava a quel giorno sulla collina del Monferrato e  a quell’aggeggio che si rigirava fra le mani.  Ripensava,a tantissimi anni di distanza,  che quell’aggeggio, se correttamente usato, avrebbe causato ferite e sangue vero.  Pensò alla ragazza che aveva scritto dell’emmepitrè nel suo romanzo e si disse certo che lei, che si era commossa della sua commozione mentre gli raccontava antiche storie personali, non avrebbe mai usato quell’arnese di offesa.  LO lasciavano intendere le lacrime che discreta, tentando di non farsi vedere, cercava di arginare con un più volte ripiegato fazzolettino, perché non le bagnassero gli zigomi. Lui aveva distolto lo sguardo da quegli occhi pensando che non ne aveva il diritto  e smise di  raccontare.  Lui,  quell’aggeggio, si chiamasse emmepitré od altro, l’avrebbe certamente  usato. D’altronde, molto tempo prima  dei tiri  al poligono militare di Ottiglio sulla collina del Monferrato,  che il caporalmaggiore Ceglie, un pugliese che parlava d’anarchia  e della brigata Durruti,  aveva  fraudolentemente annotato come andati tutti a segno, procurandogli un premio, da quell’aggeggio era già stato affascinato.  Oltre al marchingegno l’aveva  attratto il modo come Lui, in quegli anni risorgimentali, in visita alla città di Cremona,  affacciatosi  ad una delle finestre del palazzo   dei marchesi Trecco     che l’ospitavano   (questo lo ricorda ancora un epitaffio)   incitasse il popolo ad impararne l’uso “per i futuri destini della patria”. Glielo fece notare la sarta del secondo piano un giorno che tornavamo dall’essere andati a fare la spesa alimentare alla “Provvida”. Era, questa,  uno spaccio di generi alimentari a lato della stazione ferroviaria, forse erede di quella rossa cooperativa dei ferrovieri con sede nel primo tratto di via Palestro, che nel 1921 venne assaltata, incendiata e distrutta dalle “squadre d’azione”  fasciste. 

Lei, la sarta del secondo piano, non aveva ascendenze  risorgimentali né  tanto meno patriottiche. A volte  gli  parlava  di una non dimenticata antica predicazione socialista ma poi ci fu la guerra ed il predicatore smise di predicare la fratellanza fra gli uomini ed andò volontario. Pur non di chiesa  lei, la sarta del secondo piano, si era trovata in sintonia con quel papa che diceva che la guerra non fosse  che “una inutile strage”. Cominciò a pensare che quell’aggeggio, oggetto dell’incitamento di Garibaldi ai cittadini perché ne imparassero l’uso,  si potesse usare non per fare la guerra  ma un'altra cosa. Era necessario toglierlo dalle mani dei generali e metterlo fra quelle del popolo, dei cittadini appunto, come diceva l’epitaffio.  Lo diceva anche  quel  ritornello che a lui piaceva tanto, che ogni tanto, fra se e se, canticchiava sottolineandone la marzialità con  decisi  e ripetuti movimenti della testa: aux armes, citoyens! /  formez vos bataillons! 
 Andava, come piaceva a lui,lento  in bicicletta  sull’argine maestro quel pomeriggio ed ad un tratto capì: quell’emmepitré doveva essere qualche cosa di simile all’emmeuno! Certo, sicuro l’emmepitré  aveva  qualche cosa in comune con l’emmeuno, quella degli spari al poligono militare di Ottiglio in rossa terra partigiana. Era  arrivata da noi dopo l’ultima guerra  a sostituire, con altri fucili forestieri, i cremonesi ’91 lungo ed il moschetto’91/38  e la fabbrica di via Castelleone, “ l’armaguerra,”  dovette  chiudere. Gli altri si chiamavano Garand od Enfield.  Lei, l’ emmeuno, era la carabina semiautomatica Winchester emmeuno arma d’élite e di corpi speciali.

L’ emmepitré , pensava lui, doveva essere un’ arma  successiva come indicava chiaramente il crescendo della numerazione. Mentre sempre lentamente pedalava verso casa, cercava di ricordare il contesto letterario nel quale la ragazza l’aveva collocata e trovare conferma di quella ipotesi che cominciava a considerare una sua geniale intuizione
Ritrovò la pagina  rilesse la riga “mi sedevo su  un muretto con il mio  MP3 e mi godevo il tepore del sole” incredibilmente simile al racconto di Johnny  che, sull’argine della Bormida, aspettava che i fascisti tentassero di riattraversare il fiume per riprendersi Alba: “le ore del primo pomeriggio erano ancora tiepide, buone per crogiolarsi…” ed i partigiani  aspettavano in armi. Similitudini letterarie ma la conferma che l’emmepitré fosse un arma  non saltava fuori. Sentì che il tempo per una lettura ordinata, che seguisse pagina dopo pagina lo srotolarsi del racconto fino allo svelarsi dell’arcano era ormai totalmente esaurito. Si decise e fece come faceva  con i libri gialli quando  diventava preda dell’ansia di scoprire l’assassino.  Prese a sfogliare velocemente le pagine mentre gli occhi, abituati alla lettura, frugavano rapidamente, senza soffermarsi,  fra righe e parole.  Scorrevano i nomi :  Gengis, Altan, Ogon, Tumor,Tuishir,Naran ed altri, lo tentavano di andare con loro in una terra di pianure e di cavalli.
Lui resisteva a quei richiami  ma pensava che a tracolla di quegli indomiti cavalieri mongoli non poteva mancare la carabina, fosse l’ emmeuno o un modello successivo più moderno, forse l’emmepitrè.  RIprese l’ansiolitica lettura  ma venne interrotto. Cristina, la ragazza del pianerottolo, lo chiamava dal cortile. Si affacciò. Lei era giù e felice agitava verso l’alto una cosa  dalla quale gli sembrò che si dipartissero dei fili.
“Cos’è” ?   chiese lui, più per cortesia che per interesse.
“Ma non vedi”  rispose lei.
Le si fece più ampio il sorriso  mentre fra le mani alzate tendeva un filo ed  una   cosa che, ancora, lui non riusciva a distinguere.
“ Ma che cos’è”?, ripeté lui.
Lei, che intanto si era appesa al collo una specie di sacchetto ed armeggiava attorno  al padiglione auricolare destro come se  volesse infilargli dentro qualche cosa, gridò a viva voce:
 “E’ l’EMMEPITRE’ ,….. l’EMMEPITRE’ l’EMMEPITRE’ hai capito?.   “L’ho comprato, così potrò ascoltare la musica senza disturbarti”!
Lui rientrò chiuse il libro e, per quel giorno, non andò più avanti con la lettura                                                                                                         
ENNIO SERVENTI

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