Risolto, con l’aiuto d’internet e di dizionari, il mistero del titolo del romanzo che la ragazza gli aveva portato, gli rimaneva da scoprire cosa si nascondesse dietro quell’insieme di lettere e numero
al quale, la ragazza autrice, gli pareva riservasse una certa affettuosità. Ormai non più giovane, aveva ritrovato in quel tràtto la stessa attenzione che lui riservava ai vecchi oggetti, quelli che lo avevano accompagnato negli anni: una medaglia vinta ad una gara di canottaggio, un organetto che girando una manovella suonava vecchie canzoni proletarie, un invito ad un congresso giovanile ed altre cose del genere. Già due volte aveva incontrato quell’insieme di lettere d’alfabeto e numero,, e l’una e l’altra era stato costretto ad una ripetuta attenta rilettura. Iniziava con la riga che lo precedeva, passava a quella successiva per poi, via via, allargarla all’intero brano, senza cavarne un ragno dal buco. Lui era certo che a lungo andare l’arcano alfanumerico si sarebbe svelato, forse in modo non palese, ma sicuramente nel dipanarsi dell’intrico del racconto l’enigma si sarebbe sciolto. Sola, da capire, sarebbe allora rimasta l’affascinante origine dell’ iniziatica preveggenza del sogno.
E’ probabile, pensava lui, che quella sigla avesse a che fare con le facoltà della pietra che si dicevano magiche, o, magari, con quel grumo di sangue solido racchiuso al suo interno che in qualche modo si palesava anche nel nome del romanzo. Doveva essere proprio così! Quell’insieme di lettere e numeri aveva sicuramente a che fare con il sangue, lui ne era convinto. Quelle nove lettere d’alfabeto, che potevano essere anche un acronimo che non gli era interamente sconosciuto, lo riportavano indietro nel tempo, in un aggrovigliato e confuso sovrapporsi di ricordi di cose accadute in epoche diverse e distanti. Questo essere spinto a ritroso da un insieme di lettere usate da una persona giovane, molto più giovane di lui, gli procurava qualche psicologico disagio. Lei, la giovane autrice del romanzo, certamente non aveva ricordi nella profondità del tempo e quel “mio”, del quale scriveva quasi con affetto, non poteva che essere una cosa di questo e di un momento futuro.
SE così era, si chiedeva lui, perché veniva spinto a cercare la soluzione del mistero alfanumerico solo in un passato che cominciava ad essere di pochi?.Quelle nove lettere lo riportavano, vagamente, ad un aggeggio ed ad una mattina di tanti anni fa. Quel giorno,con quell’aggeggio fra le mani, aspettando che il caporalmaggiore gli dicesse cosa doveva fare, se ne stava sdraiato sopra quella terra che i racconti dicevano come fosse stata di rosso partigianato. Dove questa finiva, da santo Stefano fin oltre la cascina e sulle alte colline della Langa che s’intravedevano, era stata la terra degli “azzurri”, quelli di “Nord” il gran capo, ed il confine fra i partigiani “rossi” ed i partigiani “azzurri” seguiva il solco del Belbo. Ma nel paese di santo Stefano la piazza era di tutti; degli “azzurri”, che sembra taroccassero con più successo le ragazze e dei “rossi”, dove vi cantavano quella canzone “tremenda che loro avevano e che noi non avevamo”. Forse sarà stato per quella lenta e solenne cadenza slava del motivo e per i toni bassi e potenti dei rossi cantori partigiani, ma quel canto dava i brividi anche agli “azzurri” che glielo invidiavano ed intimoriva i “neri” fin dentro il loro fortificato estremo avamposto di Canelli. “Fischia il vento, urla la bufera / scarpe rotte, pur bisogna andar / per conquistare la rossa primavera / dove sorge il sol dell’avvenir!”
Era passato più di mezzo secolo da quando lui aveva finito il servizio militare. Ora la leggenda di quel grumo di sangue solido contenuto all’interno della pietra lo riportava a quel giorno sulla collina del Monferrato e a quell’aggeggio che si rigirava fra le mani. Ripensava,a tantissimi anni di distanza, che quell’aggeggio, se correttamente usato, avrebbe causato ferite e sangue vero. Pensò alla ragazza che aveva scritto dell’emmepitrè nel suo romanzo e si disse certo che lei, che si era commossa della sua commozione mentre gli raccontava antiche storie personali, non avrebbe mai usato quell’arnese di offesa. LO lasciavano intendere le lacrime che discreta, tentando di non farsi vedere, cercava di arginare con un più volte ripiegato fazzolettino, perché non le bagnassero gli zigomi. Lui aveva distolto lo sguardo da quegli occhi pensando che non ne aveva il diritto e smise di raccontare. Lui, quell’aggeggio, si chiamasse emmepitré od altro, l’avrebbe certamente usato. D’altronde, molto tempo prima dei tiri al poligono militare di Ottiglio sulla collina del Monferrato, che il caporalmaggiore Ceglie, un pugliese che parlava d’anarchia e della brigata Durruti, aveva fraudolentemente annotato come andati tutti a segno, procurandogli un premio, da quell’aggeggio era già stato affascinato. Oltre al marchingegno l’aveva attratto il modo come Lui, in quegli anni risorgimentali, in visita alla città di Cremona, affacciatosi ad una delle finestre del palazzo dei marchesi Trecco che l’ospitavano (questo lo ricorda ancora un epitaffio) incitasse il popolo ad impararne l’uso “per i futuri destini della patria”. Glielo fece notare la sarta del secondo piano un giorno che tornavamo dall’essere andati a fare la spesa alimentare alla “Provvida”. Era, questa, uno spaccio di generi alimentari a lato della stazione ferroviaria, forse erede di quella rossa cooperativa dei ferrovieri con sede nel primo tratto di via Palestro, che nel 1921 venne assaltata, incendiata e distrutta dalle “squadre d’azione” fasciste.
Lei, la sarta del secondo piano, non aveva ascendenze risorgimentali né tanto meno patriottiche. A volte gli parlava di una non dimenticata antica predicazione socialista ma poi ci fu la guerra ed il predicatore smise di predicare la fratellanza fra gli uomini ed andò volontario. Pur non di chiesa lei, la sarta del secondo piano, si era trovata in sintonia con quel papa che diceva che la guerra non fosse che “una inutile strage”. Cominciò a pensare che quell’aggeggio, oggetto dell’incitamento di Garibaldi ai cittadini perché ne imparassero l’uso, si potesse usare non per fare la guerra ma un'altra cosa. Era necessario toglierlo dalle mani dei generali e metterlo fra quelle del popolo, dei cittadini appunto, come diceva l’epitaffio. Lo diceva anche quel ritornello che a lui piaceva tanto, che ogni tanto, fra se e se, canticchiava sottolineandone la marzialità con decisi e ripetuti movimenti della testa: aux armes, citoyens! / formez vos bataillons!
Andava, come piaceva a lui,lento in bicicletta sull’argine maestro quel pomeriggio ed ad un tratto capì: quell’emmepitré doveva essere qualche cosa di simile all’emmeuno! Certo, sicuro l’emmepitré aveva qualche cosa in comune con l’emmeuno, quella degli spari al poligono militare di Ottiglio in rossa terra partigiana. Era arrivata da noi dopo l’ultima guerra a sostituire, con altri fucili forestieri, i cremonesi ’91 lungo ed il moschetto’91/38 e la fabbrica di via Castelleone, “ l’armaguerra,” dovette chiudere. Gli altri si chiamavano Garand od Enfield. Lei, l’ emmeuno, era la carabina semiautomatica Winchester emmeuno arma d’élite e di corpi speciali.
L’ emmepitré , pensava lui, doveva essere un’ arma successiva come indicava chiaramente il crescendo della numerazione. Mentre sempre lentamente pedalava verso casa, cercava di ricordare il contesto letterario nel quale la ragazza l’aveva collocata e trovare conferma di quella ipotesi che cominciava a considerare una sua geniale intuizione
Ritrovò la pagina rilesse la riga “mi sedevo su un muretto con il mio MP3 e mi godevo il tepore del sole” incredibilmente simile al racconto di Johnny che, sull’argine della Bormida, aspettava che i fascisti tentassero di riattraversare il fiume per riprendersi Alba: “le ore del primo pomeriggio erano ancora tiepide, buone per crogiolarsi…” ed i partigiani aspettavano in armi. Similitudini letterarie ma la conferma che l’emmepitré fosse un arma non saltava fuori. Sentì che il tempo per una lettura ordinata, che seguisse pagina dopo pagina lo srotolarsi del racconto fino allo svelarsi dell’arcano era ormai totalmente esaurito. Si decise e fece come faceva con i libri gialli quando diventava preda dell’ansia di scoprire l’assassino. Prese a sfogliare velocemente le pagine mentre gli occhi, abituati alla lettura, frugavano rapidamente, senza soffermarsi, fra righe e parole. Scorrevano i nomi : Gengis, Altan, Ogon, Tumor,Tuishir,Naran ed altri, lo tentavano di andare con loro in una terra di pianure e di cavalli.
Lui resisteva a quei richiami ma pensava che a tracolla di quegli indomiti cavalieri mongoli non poteva mancare la carabina, fosse l’ emmeuno o un modello successivo più moderno, forse l’emmepitrè. RIprese l’ansiolitica lettura ma venne interrotto. Cristina, la ragazza del pianerottolo, lo chiamava dal cortile. Si affacciò. Lei era giù e felice agitava verso l’alto una cosa dalla quale gli sembrò che si dipartissero dei fili.
“Cos’è” ? chiese lui, più per cortesia che per interesse.
“Ma non vedi” rispose lei.
Le si fece più ampio il sorriso mentre fra le mani alzate tendeva un filo ed una cosa che, ancora, lui non riusciva a distinguere.
“ Ma che cos’è”?, ripeté lui.
Lei, che intanto si era appesa al collo una specie di sacchetto ed armeggiava attorno al padiglione auricolare destro come se volesse infilargli dentro qualche cosa, gridò a viva voce:
“E’ l’EMMEPITRE’ ,….. l’EMMEPITRE’ l’EMMEPITRE’ hai capito?. “L’ho comprato, così potrò ascoltare la musica senza disturbarti”!
Lui rientrò chiuse il libro e, per quel giorno, non andò più avanti con la lettura
ENNIO SERVENTI