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Un nome: Pinelli di Andrea Ermano

Che cosa ne sappiamo noi oggi di tutto ciò? Che cosa ne sappiamo degli infiniti depistaggi risalenti a quella lunga notte della Repubblica? Che cosa sappiamo di Piazza Fontana, dopo quasi mezzo secolo?

| Scritto da Redazione
Un nome: Pinelli di Andrea Ermano

Un nome: Pinelli di Andrea Ermano

Dopo l’ennesima polemica sul “Caso Sofri”, in tema di carceri e torture è doveroso ricordare la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli avvenuta il 15 dicembre 1969 a Milano, dove Pinelli precipita misteriosamente nel cortile interno della Questura. Per tre giorni egli è stato trattenuto illegalmente con la falsa accusa di essere coinvolto nella strage di Piazza Fontana. Dopo tre giorni di “fermo” e di “interrogatorio” (cioè, in realtà, di “tortura”), l’anarchico cade dalla finestra e muore.

Nella stanza cui quella finestra appartiene sono presenti «il commissario Luigi Calabresi, i brigadieri Panessa, Mucilli, Mainardi, Caracutta e il tenente dei carabinieri Lograno», si legge sul sito Anarcopedia.

Poco dopo il tragico episodio il questore Guida – uomo dai trascorsi mussoliniani – tiene un’affollata conferenza stampa cui partecipano anche il dott. Antonino Allegra (responsabile dell'ufficio politico della Questura) e il predetto dott. Calabresi. A sentire Guida, la vittima si sarebbe suicidata in preda al rimorso: «Improvvisamente il Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra che per il caldo era stata lasciata socchiusa e si è lanciato nel vuoto».

La finestra socchiusa per il caldo decembrino… Il balzo felino… Ma la versione del questore Guida fa acqua da tutte le parti. Il povero corpo esanime di Pinelli non segue una traiettoria “a parabola”, ma viene giù “a candela”, urtando contro il muro e il cornicione. Questo confuta la versione del “balzo felino”. A essa seguiranno le versioni della “caduta accidentale” e del “malore attivo”. Inutile approfondire.

Che cosa ne sappiamo noi oggi di tutto ciò? Che cosa ne sappiamo degli infiniti depistaggi risalenti a quella lunga notte della Repubblica? Che cosa sappiamo di Piazza Fontana, dopo quasi mezzo secolo?

Sappiamo che la strage avvenne, come scrive Benedetta Tobagi, «quando la repubblica italiana era 23enne, una ragazza con molte ingenuità, moltissime speranze e le spalle gravate dal peso dell’eredità del Ventennio fascista a soffocarne gli slanci: poliziotti, magistrati, questori, burocrati ministeriali… gli apparati dello Stato sono ancora innervati di uomini del vecchio regime». Piazza Fontana è il primo sanguinario anello di una lunga catena di stragi «realizzate con l’intento di destabilizzare il Paese e promuovere una svolta autoritaria, o almeno una stabilizzazione conservatrice, contro l’avanzata delle sinistre».

Della strage vennero subito accusati gli “anarchici” – i Pinelli, i Valpreda e gli altri – i quali anarchici erano però completamente estranei ai fatti.

Furono egualmente trasformati nei “mostri” da chiudere in galera e sbattere in prima pagina affinché la colpa della strage neofascista ricadesse sulle sinistre.

Ne seguì una grande lotta senza quartiere: nelle piazze, nelle redazioni dei giornali e dei telegiornali, nelle scuole e nelle parrocchie, nelle fabbriche e nei cinema, nei teatri e in ogni casa d’Italia si discusse per anni, animatamente, della “Morte accidentale di un anarchico”, come recitava il titolo di una famosa pièce tragicomica di Dario Fo, che gli è poi valsa il Nobel per la Letteratura.

Alla fine la verità riemerse, emersero sia l’innocenza degli anarchici sia il marchio neofascista della strage. E vennero alla luce anche i vari tentativi di golpe accaduti in quegli anni. Questo sul piano storico, mentre la Giustizia segnava il passo.

Poi, improvvisamente ma non troppo, nel 1972, la violenza nera iniziò ad reduplicarsi nella violenza rossa e la prima vittima fu proprio il commissario Luigi Calabresi, ucciso da un commando terrorista.

Molti anni dopo quel barbaro omicidio venne condannato come “mandante” Adriano Sofri.

 Poi venne assolto.  E poi ancora condannato.

All’epoca dei fatti Sofri era stato uno dei giovani leader della sinistra radicale. Il suo “caso”, il lungo e controverso Caso Sofri, iniziò nel 1988 e giunse, dopo 15 sentenze e 8 processi, alla condanna definitiva: 22 anni di galera furono comminati all’ex leader di Lotta Continua.

Sul piano del giudizio storico Sofri non appare essere stato il “mandante” di nulla. E nondimeno la virulenza giornalistica e politica della campagna da lui condotta contro Calabresi comporta un certo grado di corresponsabilità etica e politica. Quella campagna era stata eccessiva. In essa Sofri e gran parte della sinistra italiana, sottostimando la potenza delle parole, che sono pietre, commisero un serio errore di valutazione, innescando un clima di odio personale da cui gli assassini del Commissario devono avere tratto il movente, o la giustificazione, del loro crimine.

Sofri ha pagato tutto il prezzo stabilito dalla giustizia italiana, scontando completamente una lunga pena detentiva, nonostante un atto di grazia firmato dal Presidente Ciampi, atto non richiesto da Sofri e che un guardasigilli legista, per altro, bloccò, rifiutando la controfirma.

E veniamo ai giorni nostri.

Sofri è stato di recente invitato dal governo a intervenire a una conferenza tematica sullo stato delle carceri italiane e sulla grave condizione dei detenuti in esse. Il che ha provocato varie reazioni, tra cui quella dell’attuale direttore del quotidiano La Stampa, Mario Calabresi, figlio del Commissario ucciso: «Sentire pareri diversi è sempre giusto ma non comprendo la scelta di far sedere Sofri al tavolo della riforma. Spero che Orlando lo spieghi», ha dichiarato.

Ora, l’insurrezione del sentimento di pietà filiale è umanamente comprensibile, e ciò sia detto con il più profondo rispetto per il dolore di chi ha subito in tenera età la perdita cruenta di un genitore, ma nell’ambito del dibattito sulla riforma carceraria e sulla tortura in Italia il ministro Orlando non ha certo sbagliato a interpellare chi ha visto e detto e scritto cose profonde sul tema, sempreché il concetto di Stato di diritto possegga ancora qualche significato nel nostro disgraziato Paese, nel quale un anarchico di nome Pino Pinelli fu accusato ingiustamente, fu sottoposto a sevizie di Stato e morì innocente in circostanze a tutt'oggi poco chiare.

Fonte: La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu

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