Intervento di G.Bozzolini, Direttore della Fondazione ECAP, al Convegno “Il modello sociale europeo alla prova della crisi”, organizzato dall’Associazione Lavoro&Welfare e dal PD
Zurigo, 23.06.2012
Cari e care partecipanti al Convegno
Ringrazio innanzitutto l’Associazione Lavoro&Welfare ed il PD per aver chiesto l’intervento della
Fondazione ECAP a questo convegno.
All’inizio di giugno Christine Antorini, la Ministra dell’Educazione della Danimarca,
socialdemocratica, aprendo in rappresentanza della Presidenza di turno dell’UE, il Forum Europeo
dell’economia dedicato per la prima volta alla formazione dei lavoratori e delle lavoratrici, Forum a
cui l’ECAP ha avuto il piacere di rappresentare la Svizzera, ha detto alcune cose importanti.
Innanzitutto ha ricordato come sia necessario mettere in campo rapidamente strategie per uscire
dalla crisi, crisi che sta colpendo non solo alcuni paesi dell’UE, ma che sta rimettendo in
discussione l’intero modello sociale europeo, che è l’oggetto di questo convegno. Subito dopo ha
aggiunto che per uscire dalla crisi non basta promuovere la crescita, bisogna bensì realizzare le
condizioni per una “crescita intelligente”.
Cos’è una crescita intelligente?
E’ una crescita inclusiva, che non segmenti la società tra chi ha accesso e chi non ce l’ha!
Non basta cioè rimettere in moto il processo di accumulazione e la crescita del PIL, bisogna farlo
attraverso una dinamica che includa tutte le fasce della popolazione e non aumenti ulteriormente le
distanze, ma anzi le riduca, tra chi ha accesso a tutte le forme di ricchezza, non solo a quella
monetaria, ma anche al sapere e alla mobilità. Nella moderna società della conoscenza e nel
processo di costruzione europea, l’accesso al sapere da un lato e l’acceso alla mobilità dall’altro,
sono ormai infatti una discriminante fondamentale per poter esercitare liberamente i propri diritti di
cittadinanza.
E’ un’idea profondamente diversa da quella che determina non solo le azioni del governo Monti,
ma spesso anche le riflessioni di parte del centro sinistra italiano, ovvero che innanzitutto vadano
rimesse in moto la crescita purchessia e l’accumulazione, e poi, a goccia, la ricchezza ricadrà
anche sugli strati meno abbienti della società. Tra parentesi: è una critica che già Rossana
Rossanda fece alle politiche dell’ultimo governo Prodi. Il meccanismo di ricaduta a goccia della
ricchezza, da anni infatti non funziona più, anzi. Al contrario da alcuni decenni in Europa la parte
più ricca della popolazione continua ad accaparrarsi una parte sempre più consistente dei redditi e
la forbice nella distribuzione della ricchezza continua ad allargarsi.
Perché si definisca “crescita intelligente” è presto detto: è più giusta, più equa e costa meno,
perché l’esclusione sociale e la marginalizzazione costano!
Due sono quindi i concetti centrali di questo ragionamento: inclusione e accesso!
Accesso al sapere e alla conoscenza ma anche alla mobilità.
Sul tema della formazione per l’inclusione e formazione contro l’esclusione tra l’altro l’ECAP ha
fatto un grande convegno a Lucerna nel 2010.
Costruire una crescita inclusiva nell’economia della conoscenza vuol dire, puntare non solo, io direi
anche non tanto, alla formazione delle élite di punta, dai professori universitari a manager ai
ricercatori delle grandi imprese, quanto alla crescita del sapere diffuso e alla formazione continua
dei lavoratori e delle lavoratrici. Non serve cioè la retorica dell’eccellenza se non c’è l’investimento
nella formazione di base, non servono la LUISS e la Bocconi (ammesso che siano davvero delle
buona università) se le scuole elementari e medie non sono di qualità, se la formazione
professionale non funziona e solo 11% della popolazione raggiunge la formazione terziaria.
Basta fare due esempi per spiegare cosa intendo:
? Più della metà della popolazione italiana non ha accesso regolare a Internet, non sa cosa
sia o comunque non lo usa mai e grande parte del territorio ancora oggi non è cablato ad
alta velocità. Quale possibilità di dislocazione di piccole o medie imprese dell’economia
avanzata ci sono in questo contesto e se anche si insediassero, come potrebbero
assumere, cioè “includere”, lavoratori e lavoratrici senza le conoscenze fondamentali dei
principali strumenti di lavoro?
? Questo problema non riguarda però solo i settori della cosiddetta economia avanzata.
Secondo i dati della Società Svizzera degli impresari costruttori, nella Confederazione
Elvetica nel 1988, si costruivano edifici per un volume di 12 Miliardi di Franchi, impiegando
180'000 addetti, nel 2010 il volume dei lavori è salito a 20 Miliardi Franchi, con soli 44'000
addetti. Questo esplosivo aumento della produttività è dovuto certamente anche
all’aumento dello sfruttamento, chi lavora sui cantieri sa che i ritmi sono terribili, ma anche
ad un elevatissimo investimento in tecnologie e quindi ad un forte aumento delle
professionalità richieste, non solo ai quadri ma anche ai lavoratori.
Senza quindi accompagnare i processi di crescita economica da un investimento forte nella
formazione di tutte le fasce della popolazione, questi stessi processi si trasformano in espulsione e
sostituzione della manodopera, ovvero in esclusione sociale.
Anticipo subito l’obiezione di chi, in un’ottica tutta italiana dirà che ci sono già troppo laureati
disoccupati, senza prospettive d’impiego, ecc. Sono due lati della stessa medaglia, sono il frutto
non dell’inadeguatezza delle nostre università, i più di 2000 ricercatori italiani inseritisi nell’area di
Zurigo lo dimostrano, ma di una società che non investe in qualità, che non punta sul sapere e la
conoscenza, di imprese che scelgono di competere sulla compressione dei diritti e dei salari,
pensando ingenuamente di inseguire la Cina in una competizione verso il basso, mentre la Cina
aumenta continuamente il numero di ingegneri e nel 2025 ne avrà di più di tutto il resto del mondo.
Se non vogliamo costruire una società a due velocità in cui da una parte ci siano gli inclusi, coloro
che competono sul mercato del lavoro internazionale con lauti salari e prospettive di carriera e
dall’altra disoccupati, precari e working poor, sempre più impossibilitati a uscire da una spirale di
esclusione, come moderni servi della gleba, dobbiamo costruire le condizioni per allargare
l’accesso alla conoscenza e al sapere. Che sono nello stesso tempo diritti e nuove forme di
ricchezza e quindi devono essere al centro di una visione moderna dello stato sociale, che è tale
perché redistributivo e teso a garantire l’esercizio materiale dei diritti. Lo stato sociale infatti
storicamente non è solo pensioni, ma redistribuzione indiretta della ricchezza e garanzia dei diritti
attraverso i servizi sociali e la tassazione progressiva.
Di questo binomio “stato sociale” sono importanti tutte e due le parole. Sociale perché da un’idea
immediata di cosa si intenda, sia in termini evocativi che concreti (la società). Stato, perché sono
proprio le fasce più deboli della popolazione che hanno bisogno dell’azione di governo e di
indirizzo, regolativa, normativa e redistributiva dello stato, nelle sue espressioni democratiche. Non
c’è stato sociale senza stato, lo dico anche a tutti coloro che tra noi, anche in questa sala, pensano
che la società civile, anche nelle sue forme migliori, si possa sostituire ad esso, in particolare nel
settore dell’educazione e della scuola. Non è così.
Accesso al sapere e accesso alla mobilità, dicevo all’inizio.
La mobilità della manodopera è un tema molto discusso in Svizzera in questi anni. Come sa
chiunque militi nel sindacato, sono stato e sono un assoluto sostenitore della libera circolazione dei
lavoratori e delle lavoratrici. La libera circolazione delle persone è infatti contemporaneamente un
diritto fondamentale senza il quale non esisterebbe alcuna idea democratica di Europa e l’unica
forma di governo efficace dei processi migratori.
Si tratta quindi di lavorare affinché sia davvero un diritto e non si crei anche qui una
segmentazione, una spaccatura tra chi come i moderni nomadi della conoscenza, gira da un
paese all’altro o da un continente all’altro in jet e vive in un élite internazionale, con proprie scuole
e servizi, proprie enclavi e proprie reti di relazioni, e chi invece ancora “emigra”, per fare
professioni diverse ma in condizioni sempre più simili ad un tempo e si vede involontariamente
coinvolto in spirali di dumping e sfruttamento.
Si tratta di mettere in campo le politiche per garantire che la mobilità costituisca un processo di
crescita complessiva della società europea e per garantire l’inclusione sociale e l’accesso ai diritti
dei e delle migranti.
Su questo terreno è necessario lavorare a fondo anche in Svizzera. Bisogna ricordarci sempre,
anche in Svizzera, che non esiste difesa né delle condizioni di lavoro, né dello stato sociale,
attraverso la chiusura delle frontiere. L’unica difesa è l’universalizzazione dei diritti.
Zurugo.Welfare e società della conoscenza
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