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#12dic Jobs Act Domande e risposte Condividi

Con la riforma dell'art. 18, col decreto Poletti, e con la legge di stabilità il governo pensa di far crescere il Pil.

| Scritto da Redazione
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Ma il calo della protezione sociale determina più povertà, più precarietà e dunque meno crescita DI C.E. È tempo di favorire le politiche di occupazione, ma soprattutto è necessario ridare dignità al lavoro”. “Occorre coniugare la flessibilità del mercato con la necessità di stabilità e certezza delle prospettive”. A pronunciare queste frasi non è stato il “solito” Landini ma papa Bergoglio, davanti al Parlamento di Strasburgo. Un messaggio, chiaro e inequivocabile, rivolto a tutta l’Europa, che è stato lanciato proprio il giorno in cui la Camera dei deputati licenziava il disegno di legge sul lavoro, quello che ormai tutti chiamano Jobs Act, un provvedimento che muove nella direzione inversa a quella auspicata dal papa: non dà certezze per nuova occupazione perché non produce investimenti ma crea solo “sconti” alle imprese, non alimenta la dignità del lavoro perché sottrae diritti ai lavoratori, intensifica la flessibilità in uscita senza impegni per la stabilizzazione, non disegna prospettive perché non smonta il quadro delle possibili forme contrattuali ridisegnandolo con poche e certe fattispecie.

Per la Cgil è anche una questione di metodo: questo governo ha coinvolto Confindustria, ricevendone ampi lasciapassare, ma ha scientemente deciso di non fare altrettanto con i sindacati. Ma è anche e soprattutto una questione di merito. E allora proviamo a entrare nel merito, pur sapendo che gran parte di questo risiederà nella scrittura degli innumerevoli decreti applicativi.

Quando nel ddl del governo si dice della necessità di regolare l’accesso all’integrazione salariale solo dopo la ricerca preventiva di soluzioni alternative non c’è un riferimento al part-time che può essere valorizzato prima della cig, così come alla possibilità di collocare i dipendenti su altre mansioni e su posti vacanti, e neppure un accenno alla valorizzazione dei contratti di solidarietà difensivi per evitare le eccedenze. Va poi detto che i richiami al “superamento” del contratto di collaborazione coordinata e continuativa non possono essere scambiati con la sua abolizione, così come la semplice individuazione delle forme contrattuali esistenti, in ragione di una loro semplificazione, non può valere un reale disboscamento in favore di poche forme contrattuali (la Cgil ha proposto di limitarsi a cinque: a tempo indeterminato, a termine a causale, apprendistato, somministrazione e autonomo e professionale tipizzato).

E ancora. Cosa significa conseguire obiettivi di semplificazione in materia di igiene e sicurezza? Vuole forse significare il superamento del Testo unico pensando di renderlo semplice formalità? Perché il provvedimento, nella sua volontà di semplificare le procedure, per dare certezze alle manifestazioni di volontà di dimissioni non decide di ripristinare la legge 188/07 quale strumento ottimale di garanzia di un consenso sano e contro le dimissioni in bianco? In materia di demansionamento emerge l’azione unilaterale del governo: il richiamo al fatto che una nuova regolarizzazione “può”, anziché “deve”, definirsi in sede di contrattazione collettiva anche di secondo livello, la dice lunga sulla discrezionalità che il governo ha in mente e lo stesso vale per la revisione della disciplina dei controlli a distanza che, pur facendo cenno alla privacy, non fa alcun riferimento a una sua regolamentazione concordata.

Guardando poi più da vicino a come l’art. 18 viene svuotato dalle sue prerogative costitutive, fermo restando che rimane del tutto incomprensibile e inaccettabile, anche da un punto di vista “etico”, ritenere che una riduzione dei diritti produca più occupazione, richiamo alcune valutazioni di merito. La riforma così decisa si presenta senza che sostanzialmente sugli stessi temi sia stata fatta un’opportuna valutazione degli effetti prodotti dalla legge Fornero. Non solo, il provvedimento incrocia i temi di quella legge, tanto quanto il decreto Poletti, e apre palesi contraddizioni. Ad esempio: nel mettere in relazione tra loro i contratti a termine acasuali e il contratto a tutele crescenti, come si può ritenere che agli imprenditori convenga di più il secondo? E ancora, nel caso delle integrazioni salariali a seguito di procedure concorsuali, già previste dalla Fornero attualmente in vigore, non occorrerà forse abrogarle?

In occasione della presentazione dell’ultimo emendamento a firma del governo, il sottosegretario Bellanova, nel dichiarare che la riscrittura non crea vinti e vincitori, ha reso palese la volontà di sottrarre al dibattito l’insieme della riscrittura dell’art.18, demandando ciò alla responsabilità del solo governo in sede di definizione dei decreti di applicazione. Ma in modo più puntuale: quando per i licenziamenti per ragioni economiche si dice di un indennizzo “certo e crescente”, questo forse prelude all’esclusione dell'attuale possibile discrezionalità del giudice nello stabilire il giusto compenso e la sua congruità dentro un range che è ora definito? Oppure il “certo” sarà puntualmente declinato nei suoi valori? Quali? Sui licenziamenti di tipo disciplinare, i “tempi certi” a disposizione per impugnare il provvedimento (non definiti dal Jobs Act e che verranno chiariti dal decreto), nel rivedere gli attuali 60 giorni escluderanno il tempo zero, ovvero, l’immediatezza? E sempre la “fattispecie” per i “disciplinari”, che dovrebbe essere definita nel testo del decreto per il Contratto a tutele crescenti, come sarà declinata? Ovvero, quale sarà il confine tra le condizioni di reintegra e l’indennizzo?

Il rischio, giusto per riprendere le dichiarazioni di Sacconi, è che si produca una declinazione inaccessibile ai più e che tutti cadano dentro le condizioni d’indennizzo. E ancora, nel caso di una decisione del giudice per il reintegro da “disciplinare”, all’azienda rimane ancora aperta la possibilità dell’indennizzo oppure no? Con la riforma dell’art. 18, e prima con il decreto Poletti, e con larghe parti della legge di stabilità, il governo pensa di tornare a far crescere il Pil. Ma non si rende conto del fatto che il calo generalizzato della protezione sociale determina invece nel paese più povertà, più precarietà e dunque meno crescita.

di Corrado Ezio Barachetti

Area della contrattazione e mercato del lavoro Cgil nazionale

Fonte: rassegna sindacale

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