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27 Gennaio giornata della memoria Auschwitz di Francesco Guccini

Auschwitz è indubbiamente una delle più celebri canzoni di Guccini, simbolo della sua partecipazione ai drammi umani e del suo intendere la musica non solo come diletto, ma come strumento di denuncia anche se non necessariamente apportatore di rivoluzioni.

| Scritto da Redazione
27 Gennaio giornata della memoria Auschwitz di Francesco Guccini 27 Gennaio giornata della memoria Auschwitz di Francesco Guccini 27 Gennaio giornata della memoria Auschwitz di Francesco Guccini 27 Gennaio giornata della memoria Auschwitz di Francesco Guccini


"Guccini scrive e canta la storia terribile ed emblematica di un anonimo bambino morto e bruciato nel famigerato campo di sterminio nazista (il 27 gennaio, data della liberazione dei prigionieri di Auschwitz, è stato proclamato universalmente e perennemente giorno del ricordo e della memoria). Una storia-simbolo delle altre sei milioni di vittime dell'orrore hitleriano, ma è da rimarcare che Guccini non si limita alla condanna del nazismo ma allarga la sua condanna a ogni guerra e allude probabilmente al dramma della guerra in Vietnam, allora in corso." [P. Jachia, Francesco Guccini, Editori Riuniti, Roma 2002, p. 25].

Auschwitz è indubbiamente una delle più celebri canzoni di Guccini, simbolo della sua partecipazione ai drammi umani e del suo intendere la musica non solo come diletto, ma come strumento di denuncia anche se non necessariamente apportatore di rivoluzioni (vedi L’avvelenata). Egli prende in esame il tema dell’olocausto, ma la seconda parte della canzone trascende tale contesto per abbracciare una più estesa riflessione sulla ferinità umana. 

La prima strofa presenta la situazione in termini molto schematici: il narratore è un personaggio morto da bambino in una condizione strana, "passato per il camino". L’insistenza sul termine morto in apertura dei primi due versi crea l’atmosfera cupa e nostalgica che accompagna tutto il brano. Da notare è la durezza di quel "con altri cento" che evidenzia l’impersonalità del massacro, sottolineandone allo stesso tempo la dimensione. La prima strofa si chiude poi con la presentazione della situazione attuale; il narratore si trova nel vento.

La seconda strofa, invece, tratteggia la scenografia del dramma ponendo subito in rilievo un nome terribile, evocatore di sofferenza e paura, Auschwitz: l’inverno, il freddo e la neve, che potrebbe essere la gioia di ogni bambino, ma non di colui che si trova lì a morire; c’è poi l’ambiguità del fumo e del camino, che ricordano scene di tranquillità domestica, ma sono qui ben altri segni. La terribile fine è solo accennata, con gusto per così dire classico, senza insistenza su macabri particolari, ma, semplicemente, con l’immagine di un fumo che sale e la presenza di persone che scompaiono, però, per ritrovarsi nel vento.

La terza strofa funge da collegamento tra le due parti del pezzo opponendo alla massa il suo silenzio. L’antitesi crea un efficace sensazione di vuoto, di freddo e morte: questi uomini, ma sono ancora uomini?, non osano più parlare, sono spogliati della propria dignità e individualità, sono tra quei cento o lo saranno presto. Il tempo non cancella quei ricordi nel bimbo morto, egli non riesce a sorridere e si chiede invece, ingenuamente e forse infantilmente, il perché di quelle stragi. E’ questo il momento il cui la prospettiva si amplia e si universalizza quell’esperienza di morte divenendo paradigmatica dell’umana crudeltà. Guccini sembra pessimista, non ha fiducia nell’uomo e nella sua perfettibilità, lo coglie solo nel suo atto crudele: fantastica intuizione quella di porre alla fine di due versi consecutivi i termini uomo e fratello legati dal crudo realismo del verbo uccidere. Al bimbo, e indubbiamente la scelta come narratore del simbolo dell’innocenza e della purezza non è casuale, sembra assurdo che tutto questo sia potuto accadere, ma è costretto a costatare l’evidenza del fatto: "siamo a milioni/in polvere qui nel vento". Ancora un numero enorme, come il cento iniziale, rende l’idea dell’ampiezza del fenomeno esasperandone la gratuità.

La penultima strofa sembra un grido, un grido di rabbia impotente e disperato, la cui forza è ottenuta con sapienti scelte lessicali: il cannone tuona, terribile segno di morte, e il sangue scorre ininterrotto, per culminare con lo stridente contrasto tra questo sangue, l’aggettivo contenta e la connotazione di bestia umana assegnata a tutta l’umanità. Del resto l’impersonalità del termine uomo, usato due volte, sottolinea già da sola come le accuse e le domande siano rivolte all’umanità intera, tutta ugualmente colpevole se non dell’olocausto, di altri innumerevoli assassinii. Terribile è l’epiteto bestia, e ricorda pagine del Principe di Machiavelli, perché presenta l’uomo come bruto, come animale regolato solo da impulsi irrazionali e incontrollabili. Il rilievo conferito in questa sede all’ancora acuisce la durezza delle accuse all’umanità che, nonostante si sia accorta delle proprie scelleratezze, continua a commetterne di nuove ogni giorno.

Tuttavia Guccini non se la sente di chiudere così, vuole lasciare un varco, una via di scampo all’uomo, sperare che si possa ancora redimere: ecco il significato dell’uso del futuro nell’ultima strofa che si apre ancora con un "Io chiedo" che questa volta non è tanto una domanda o un’accusa quanto piuttosto un’accorata preghiera, una speranza che vuole a tutti i costi uscire e realizzarsi e che è tutta contenuta in quel verso "a vivere senza ammazzare", così semplice eppure tanto intenso e diretto.

Non si può ignorare nell’analisi di questo pezzo la presenza del vento, vero elemento costante nella chiusura di ciascuna strofa. Il vento che sembra leggero e spensierato è in realtà greve del peso di tutti quei morti, è un vento irrequieto che sembra schiacciare l’uomo gettandogli addosso le sue colpe, accusandolo con l’innocente, ma per questo più dura, voce di un bambino. In tutte le strofe esso è accompagnato da qui, ancora, adesso, a sottolineare come si stia parlando di qualcosa di presente e attuale su cui è necessario riflettere. Pensare, però, non basta, bisogna, è questo il significato delle ultime strofe, agire e cambiare, solo così "il vento si poserà" .

La canzone non presenta rime, se non occasionali (prima strofa), il suo ritmo è creato piuttosto dalla brevità dei versi, costituiti spesso ciascuno da una frase in sé compiuta, che crea brevi, gelide scene.

Sono tuttavia presenti in due punti cruciali degli enjambements: "non ho imparato/a sorridere" nella strofa centrale sottolinea il dramma che permane negli occhi e nel cuore, che non può e non deve essere dimenticato, un dramma che spezza e smorza il sorriso; "non è contenta/di sangue" indica invece piuttosto la lacerazione del pensiero che non osa immaginare che possa ancora succedere qualcosa di simile, ma è costretto a costatarlo nei fatti e, inoltre, rafforza il contrasto tra contenta e di sangue.

(Analisi collettiva svolta dal Liceo Alessandro Volta di Como)

Il testo della canzone Auschwitz 

Son morto con altri cento

Son morto ch'ero bambino

Passato per il camino

E adesso sono nel vento,

E adesso sono nel vento.

Ad Auschwitz c'era la neve

Il fumo saliva lento

Nel freddo giorno d'inverno

E adesso sono nel vento,

E adesso sono nel vento.

Ad Auschwitz tante persone

Ma un solo grande silenzio

È strano, non riesco ancora

A sorridere qui nel vento,

A sorridere qui nel vento

Io chiedo, come può un uomo

Uccidere un suo fratello

Eppure siamo a milioni

In polvere qui nel vento,

In polvere qui nel vento.

Ancora tuona il cannone,

Ancora non è contenta

Di sangue la belva umana

E ancora ci porta il vento,

E ancora ci porta il vento.

Io chiedo quando sarà

Che l'uomo potrà imparare

A vivere senza ammazzare

E il vento si poserà,

E il vento si poserà.

Io chiedo quando sarà

Che l'uomo potrà imparare

A vivere senza ammazzare

E il vento si poserà,

E il vento si poserà.

 

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