“Tutto in guerra si basa sull’inganno. Se il tuo nemico è superiore eludilo, se è irato irritalo, se è di pari forza lotta, altrimenti sparisci e riconsiderati”. La massima de ‘L’Arte della guerra‘ di Sun Tzu sembra ben stampata nella mente dei vertici della Cina.
Di conseguenza la firma della ‘Fase 1’ dell’accordo commerciale con Washington è visto solo come una necessità da parte cinese. Pechino firma di buon grado e sa che sta semplicemente guadagnando ulteriore tempo per gli adeguamenti economici strutturali che gli consentano di ottenere il primato economico globale in una quindicina d’anni. L’economia cinese è infatti molto più vulnerabile a tensioni protezionistiche rispetto a quella americana.
Fierezza contro mire elettorali
Il presidente cinese Xi Jinping ha rinunciato a mettere la faccia e la firma sotto il documento siglato a Washington dal vicepremier Liu He. Il leader cinese ha solo spedito un messaggio nel quale si dice che “l’intesa è buona per la Cina, per gli Stati Uniti e per il mondo”. Xi non vuole passare in patria come un capo che si piega. Per Xi, non c’è nulla di glorioso nell’accordo commerciale; preferirebbe che l’opinione pubblica cinese si dimenticasse al più presto della questione.
Gli impegni quantitativi e i meccanismi punitivi di attuazione stabiliti nella ‘Fase 1’ sono ancora grandi incognite per la Cina. Delegando la firma dell’accordo al suo negoziatore Liu He, Xi si libera da qualsiasi associazione con il ‘secolo dell’umiliazione’ della Cina, quando il Paese fu costretto a firmare trattati con potenze straniere. In effetti, 200 miliardi di dollari di importazioni in beni e servizi sembrano una concessione se non un cedimento di fronte alle richieste americane.
Un bel regalo pre-elettorale del presidente statunitense Donald Trump agli agricoltori e agli industriali di casa. L’inquilino della Casa Bianca ha subito dichiarato che si tratta di un accordo storico e che al più presto si recherà in Cina, senza che da Pechino siano arrivate conferme.
Il Quotidiano del Popolo avverte che per quanto riguarda i 32 miliardi in più di prodotti agricoli “i prezzi dovranno essere competitivi e le forniture seguiranno gli standard di qualità e sicurezza cinesi; se la Cina non potrà importare abbastanza a causa di restrizioni dell’export americano, la responsabilità ricadrà su Washington”. Se questo accordo funzionerà dipenderà da chi prenderà le decisioni in Cina.
Nel frattempo, Trump potrebbe finire per rimangiarsi le sue stesse parole. Le due maggiori potenze del mondo rappresentano lo yin e lo yang dell’arte di governare: gli Stati Uniti provocano per continuare a vincere, la Cina si restringe per stabilizzarsi. La firma di Liu sull’accordo consente diverse possibilità: dalla sospensione o revoca dell’accordo all’escalation della guerra commerciale.
L’invincibile capitalismo di Stato
La Cina ha una serie di vulnerabilità strategiche, di carattere economico e politico: aprirsi al mondo conquistandolo e difendere caratteristiche tutte nazionali rappresenta una sfida quasi impossibile. L’obiettivo cinese per il 2020 sarebbe di un Pil compreso tra il 5,5 e il 6%. Una crescita stabile offre un’occupazione stabile, che rafforza la legittimità del Partito comunista, ossessione costante dei vertici del Paese del dragone.
Ma se l’intento della guerra commerciale a stelle e strisce era di cambiare il capitalismo di Stato cinese non sembra aver sortito il risultato sperato da molti. La Cina sta facendo tesoro dalla guerra dei dazi e si concentra ancora di più sul controllo statale e su un sistema economico disancorato dagli Stati Uniti. Che il settore pubblico continuerà a dominare l’economia cinese è diventato chiaro al quarto plenum del Comitato centrale del Partito comunista ad ottobre. “La Cina renderà la sua economia statale più forte, migliore e più grande”, ha scritto il negoziatore commerciale cinese Liu in un articolo pubblicato sul People’s Daily.
Primato economico e tecnologico cinese
I vecchi propositi di una riforma radicale sembrano quindi accantonati. L’era di Xi si basa sempre più su ‘caratteristiche cinesi’. Nessuna marcia indietro su aiuti di Stato, limiti agli investimenti stranieri o rispetto della proprietà intellettuale. Il piano di quest’anno anticipa in primo luogo un Paese tecnologicamente e strutturalmente sganciato dall’Occidente.
Agli uffici governativi e alle istituzioni è stato ordinato di rimuovere tutti i computer e software americani entro il 2022. È stato creato un fondo statale da 29 miliardi di dollari per investire nello sviluppo di semiconduttori domestici per ridurre la dipendenza del Paese dai chip stranieri, in vista di una futura superiorità tecnologica. Il contrasto tra i toni trionfalistici di Trump e la prudenza di Pechino la dice lunga sulla poca fiducia che si respira ad Oriente.
L’anno scorso, Trump voleva solo un ‘buon affare’ o nessun accordo. In ottobre, ha ceduto alla proposta a doppio binario fatta dalla Cina che traccia una linea tra i negoziati sul commercio e tutto il resto. L’approccio pragmatico e attendista della Cina ha vinto sull’insistenza di principio degli Stati Uniti nel discutere globalmente le questioni di contrasto tra le due economie nella sua globalità.
“La più alta arte della guerra è vincere senza combattere”, afferma sempre Sun Tzu. La Cina non vuole affrontare gli Stati Uniti né aumentare le ostilità. Pianifica semplicemente il suo percorso verso il primato economico, sperando che il treno non deragli.
fonte https://www.affarinternazionali.it