Venerdì, 26 aprile 2024 - ore 20.57

Agostino Melega e ‘Gli spauracchi dell’acqua’, leggende della tradizione locale

Il testo approfondisce i personaggi che incarnavano le paure dell’“àaqua fùunda”, l’acqua profonda

| Scritto da Redazione
Agostino Melega e ‘Gli spauracchi dell’acqua’, leggende della tradizione locale

Fra le figure di paura dell’immaginario infantile della tradizione popolare cremonese, intendiamo qui parlare di alcune di esse che hanno avuto per riferimento il pericolo dato da l’àaqua fùunda, dall’acqua profonda. Ossia dall’acqua fùunda dei fiumi, delle paludi, dei pozzi, dei canali. Sono figure, queste, definite oggi “babau” o “spauracchi pedagogici”, strettamente alleate dei genitori per impedire vere e proprie tragedie, ossia gli annegamenti dei loro figli bambini.

In questo ambito, fra i fossili fantastici che abbiamo “spigolato” parlando con persone che oggi hanno novant’anni e più, significative sono le creature mitiche della Peterlèenga di Robecco d’Oglio e della Vécia Gòoza di Scandolara Ravara, oltre a quella del Lùlo di Cumignano sul Naviglio.

La Peterlèenga ha fortissimi riferimenti con quanto la mitologia popolare ha tramandato lungo le valli solcate dal fiume Oglio, a partire dalla Valle Camonica, e ben inciso sulla roccia istoriata di Naquane, sulla quale l’antico popolo dei Camuni ha riportato, nell’età del ferro, ottocentottanta stilizzazioni: guerrieri, cervi, cani, telai verticali, un labirinto, palette rituali, danze, la caccia al cervo.

La seconda, la Vécia Gòoza, immaginata fra le paludi attorno a Scandolara Ravara, ha forse qualche riferimento con la dea celtica Mefite, poi romanizzata con tanto di tempio a Cremona, presente fra gli stagni pantanosi e puzzolenti creati dal fluire multiforme del Po lungo i secoli.

Ad aiutarci a capire l’origine di queste due prime figure è stato il linguista Mario Alinei, che ha messo in relazione la roccia di Naquane della Valle Camonica con il culto delle Aquane, ossia con personificazioni collegate all’acqua presenti nell’immaginario di molte popolazioni indoeuropee, in un variegato pantheon popolato spesso da ninfe, ondine o melusine. Queste ultime personificazione sono state ricordate dai poeti dell’antichità come stupende femmine molto pericolose, perché ammaliavano i curiosi facendoli innamorare, per poi tirarli giù fra i flutti, annegandoli. Accanto a tali creature, concepite perlopiù con il busto umano e la parte inferiore del corpo a pinna di pesce, abbiamo invece figure di vecchie bruttissime, e molto cattive, come le cremonesi Peterlèenga e Vécia Gòoza, utilizzate quali spauracchi dai genitori d’un tempo, per fissare nel pensiero dei bambini una regola molto semplice, ineludibile. Questa: i bambini, vicino all’acqua ferma degli stagni e dei pozzi, o in quella corrente dei fiumi e canali, non devono proprio andare da soli, pena avventurarsi in un incontro con la Morte.

L’avvertimento è stato palesato, con buona probabilità, sin dai tempi dei nostri antichi avi, abitanti sulle palafitte delle terramare del neolitico o ancor prima, con tutti gli adattamenti morfologici delle figure di paura avvenuti lungo i secoli. Allora poi, gli spauracchi erano creati nelle comunità delle tribù per mettere alla prova gli adolescenti nei riti d’iniziazione. Era il Bàarba-tùus, lo zio materno, travestito magari da Bàarba-gianni, che doveva mascherarsi in modo terrificante per intimorire i nipoti (i tùus o tùzan) all’inizio del rito di crescita, per abituarli poi a vincere il terrore del buio della notte, accompagnandoli nella capanna delle iniziazioni nel bosco, dove dovevano vincere anche le prove del dolore e della fame, in una loro temporanea permanenza nel regno degli antenati, per poi ritornare nelle loro case rinati.

La Peterlèenga e la Vécia Gòoza vengono da lì, sono figlie di quell’epoca lontanissima, al pari della vecchia strega, la Baba Yaga delle fiabe di magia, come ha supposto in modo magistrale il grande folklorista russo Vladimir Propp. La prima figura, la Peterlèenga, adattandosi a tempi nuovi, sbucava improvvisa non da una casetta di cioccolato e di marzapane, ma dai pozzi di Robecco d’Oglio, con il corpo di serpente e il viso, appunto, da vecchia strega. La seconda, la Vécia Gòoza, saltava fuori invece nelle paludi della Bassa cremonese, e portava via i malcapitati bambini. È probabile che essa saltasse fuori dall’alto e non dal basso delle acque limacciose. Scavando, infatti, in chiave etimologica su quel termine, gòoza, troviamo una congettura con un lemma europeo, l’inglese goose, che rimanda a un tipico uccello di palude e di passo: l’oca. È ipotizzabile, dunque, pensare a una Vecchia Oca, o, meglio, all’accalappiatore rituale travestito da oca mostruosa, a portar via i bambini nella Bassa cremonese.

La funzione della Vécia Gòoza rimanda a quella del Lùlo, l’oca gigantesca che rapiva tutti i bambini che si azzardavano ad avvicinarsi al grande canale di Cumignano sul Naviglio. Anche lo scavo etimologico e onomatopeico sul Lùlo rimanda a una dimensione internazionale: alla cultura babilonese, alla Mesopotamia e al rapimento iniziatico tipico degli archetipi storici di tali figure. Anche gli spauracchi dell’Uomo nero e della Befana fanno parte di quel mondo storico che la storia e la fantasia popolare hanno poi rielaborato in chiavi diversificate, al pari di quelle presenti nell’immaginario dell’antichità, quali Akko, Alphito, Gello, Lamia, Mormo, Gorgo, Mania, Empusa, Baubo ed Ecate, tutti fantasmi notturni o meridiani che rapivano i bambini.

Agostino Melega, Cremona

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