Giovedì, 25 aprile 2024 - ore 04.20

Dal welfare state universalistico al welfar residuale

| Scritto da Redazione
Dal welfare state universalistico al welfar residuale

Gentile Direttore,
le scrivo per raccontare come cambia il lavoro anche per i professionisti. Non le scrivo per lamentarmi, d’altronde non ne avrei motivo, quanto piuttosto per condividere un’analisi che magari potrebbe essere utile anche ad altri professionisti.
Siamo in una fase di transizione da un modello di welfare state universalistico ad un modello di welfare state residuale, che punta ad uno stato minimo che si occupa delle emergenze e dei bisogni più urgenti dei cittadini.
La questione interessante, dal punto di vista di chi compie un’analisi di tipo socio-antropologico, è che siamo in mezzo al guado, siamo cioè in quella situazione in cui “non siamo più”, ma “non siamo ancora”.
Per molti anni ho studiato e ho condotto ricerche socio-antropologiche in loco relativamente alla transizione dal modello socialista al modello di libero mercato occidentale che è avvenuto a seguito della caduta del muro di Berlino nei paesi dell’Est Europa.
La transizione tra quei due modelli di organizzazione dello stato così profondamente diversi, anche da un punto di vista di concezioni e di valori di riferimento, oltre che economico politiche ha portato molte difficoltà.
La transizione è avvenuta molto velocemente e non è stata accompagnata da una transizione di crescita culturale; così i cittadini spesso non hanno avuto modo di essere pronti al cambiamento che li attendeva.
Questo ha comportato un arretramento dell’intervento dello stato, a cui non ha corrisposto una maggiore intraprendenza imprenditoriale dei cittadini.
Molti cittadini si sono persi.
Sono aumentate moltissimo le situazioni di persone che hanno perso tutto, compresa la casa.
In molti casi, il vuoto di potere e di Stato è stato occupato da persone e attività senza troppi scrupoli, anche a stretto contatto con la criminalità che contemporaneamente si è strutturata e organizzata per andare a gestire gli spazi di mercato rimasti liberi.
In altri casi, il socialismo di Stato è stato sostituito da una sorta di mercato sociale e comunitario, in cui nei piccoli villaggi ogni persona e nucleo familiare ha incominciato ad essere risorsa per l’altra, non tanto in termini assistenziali e di supporto, quanto piuttosto in termini di micro-mercato, di micro-economia, spesso in situazioni di legalità border-line.
Faccio qualche esempio, per rendere comprensibile il fenomeno che si è verificato.
Nei villaggi al confine con la Russia, ci sono persone riconosciute dalla comunità locale che oltrepassano legalmente il confine russo, con tanto di visto, acquistano beni che oltre confine costano meno (come nel caso della benzina) e tornano al proprio villaggio, rivendendo alla comunità locale la merce ad un prezzo significativamente più conveniente del prezzo di mercato e tenendo una parte come provvigione. Un altro caso è quello della piccola produzione agricola. Ogni famiglia ha una piccola produzione di verdura e frutta che utilizza per sé e in parte vende al vicinato, che ricambia con altra merce o altri servizi.
Ad Aluksne, piccolo paese in Lettonia al confine con la Russia e l’Estonia, a circa 200km dalla capitale Riga, nel corso degli studi e delle ricerche che ho svolto lì, ho avuto modo di conoscere una persona che una volta alla settimana va a Riga. Questi va in auto e, nei giorni precedenti, fa sapere a tutto il paese che andrà a Riga, così se qualcuno ha necessità può utilizzare questo viaggio, come se fosse quasi un servizio pubblico pagando in maniera “informale” (in Italia diremmo in nero, ma quante volte i giovani che vanno a divertirsi il sabato sera dividono i costi della benzina?) un contributo equivalente al biglietto del bus che è più scomodo, più lento e magari in orari non utili.
In questa maniera, la persona che prende la macchina si ripaga interamente il viaggio e, se l’auto è al completo riesce anche a ritagliare una parte per sé.
È fare impresa? Certamente no. Senz’altro è un tipo di micro-economia che a seconda delle scuole di pensiero possiamo ipotizzare primitiva o molto avanzata.
Anche noi in Italia siamo in una fase di transizione.
Senz’altro le generazioni a seguire saranno più attrezzate di strumenti culturali, sociali e di approccio alla vita rispetto alle generazioni che oggi si trovano “in mezzo al guado”, le generazioni dei 30enni, 40enni e 50enni.
Questa premessa mi è utile per raccontare i cambiamenti che nel mio ambito professionale ho cercato di governare.
Da oltre 15 anni mi occupo di Sviluppo di Comunità, sia come project manager, che come formatore, consulente e valutatore degli interventi. Sono stato consulente di diversi pubblici amministratori del nord Italia, nella progettazione e pianificazione delle politiche che in diverso modo declinano lo sviluppo locale. Lo Sviluppo di Comunità è una scienza relativamente recente che trova applicazione all’interno delle comunità locali per promuoverne una crescita da un punto di vista psico-sociale, antropologico e culturale.
Molte delle applicazioni più significative di questo approccio sono state realizzate soprattutto negli Stati Uniti e in Italia le esperienze con maggiori risultati sono state realizzate nel Nord Est.
Lo Sviluppo di Comunità è un insieme di metodologie e strumenti che danno vita ad interventi che hanno la finalità di far crescere e sviluppare una comunità locale (composta dalle persone che condividono l’abitare in uno stesso quartiere, territorio, paese) dal punto di vista dell’appartenenza e della partecipazione responsabile dei cittadini alla risoluzione diretta dei problemi che vivono all’interno del proprio contesto di vita.
In particolare, all’interno del più ampio Sviluppo di Comunità, io mi occupo specificatamente dell’attivazione, dell’alimentazione, della manutenzione e della valutazione della partecipazione.
Negli anni, ho avuto modo di mettere a disposizione le mie competenze come consulente di pubblici amministratori per la definizione delle politiche di sviluppo locale, ma all’interno dei Contratti di Quartiere per la riqualificazione partecipata delle città, piuttosto che nelle politiche per la sicurezza, l’inclusione sociale o lo sviluppo e il benessere organizzativo.
Da alcuni anni, si è verificato un qualificarsi e ad un selezionarsi delle richieste da parte del settore pubblico, cioè sono diminuite le richieste, soprattutto generiche ed “esplorative” da parte dei soggetti pubblici e si sono meglio definite.
In altre parole, hanno iniziato a cercarmi solo più enti e istituzioni realmente interessati ad avvalersi della mia consulenza e con la disponibilità economica pronta a sostenere gli interventi e le politiche volte allo sviluppo locale, micro-socale, psico-sociale e di comunità atteso dall’amministrazione, mentre sono drasticamente calate quelle richieste “esplorative” utili a comprendere che tipo di lavoro si potrebbe fare e a quali costi.
Questo fenomeno è senz’altro un bene, perché consente di non sprecare tempo prezioso dietro a lavori che poi non portano a nulla e consente anche agli enti di risparmiare su ipotesi di progetti che poi non hanno il supporto economico per poter essere realizzati ed ottenere dei risultati concreti.
D’altro canto i privati, le aziende e le organizzazioni hanno iniziato a cercarmi per svilupparsi e crescere dal punto di vista dei funzionamenti organizzativi, della responsabilizzazione e motivazione del personale e per tutte quelle attività che afferiscono alla manutenzione, riparazione e sviluppo dell’organizzazione, non solo in termini di benessere organizzativo.
Questo mi ha portato a commutare e declinare le competenze che ho, al fine di utilizzarle all’interno di contesti organizzativi.
Oggi accanto alle richieste selettive del pubblico, molto del mio lavoro è proprio quello di “meccanico delle organizzazioni”.
Spesso vengo chiamato quando ci sono organizzazioni che si trovano di fronte ad un momento di ristrutturazione o di transizione organizzativa, che necessita un sistema impresa-azienda più compatto e pronto nel suo insieme ad affrontare le sfide di una competitività che richiede sempre più di essere squadra ai lavoratori che fanno parte di un’impresa e di affrontare con responsabilità diffusa un lavoro che richiede sempre più di essere realizzato con una logica per obiettivi più che per compiti.
Oggi, forse, le categorie classiche di una analisi marxista della società, capitale e proletariato, si trovano sulla stessa barca e se “affonda” una delle due componenti, inevitabilmente anche l’altra va giù.
Spero che questa mia lettura e questa mia testimonianza possa essere utile anche per altri professionisti o lavoratori, nello sprone a comprendere come rideclinare e rimodulare le proprie competenze finalizzandole al soddisfacimento di nuovi bisogni o nuove richieste.
Simone Deflorian
deflorian@studiokappa.it

 

 

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