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Giovani.La staffetta non basta| P.Di Nicola

| Scritto da Redazione
Giovani.La staffetta non basta| P.Di Nicola

Giovannini ha proposto una "staffetta generazionale". Ma non esiste un'unica soluzione salvifica. Servono più interventi che agiscano in sinergia. Puntando tutti a un solo scopo: incrementare l'occupazione DI PATRIZIO DI NICOLA
di Patrizio Di Nicola
Il nuovo governo, non appena entrato in carica, ha deciso di prendere il “toro per le corna” e dedicarsi a quella che sembra essere l’emergenza del momento: il lavoro dei giovani. Le coordinate del problema sono state ampiamente studiate e commentate e sono quindi note anche ai non addetti ai lavori. Tra i giovanissimi, quelli della fascia di età tra i 15 e i 24 anni, il tasso di disoccupazione è del 38,4 per cento, a fronte di un dato medio di poco superiore all’11.
Se guardiamo invece alla fascia di età 18-29 anni, che esclude dal computo i giovanissimi, le cose vanno appena un po’ meglio: è disoccupata “soltanto” una persona su 4. Non solo. Essere laureati, aver studiato un discreto numero di anni in più rispetto ai propri coetanei, non premia più di tanto: i giovani disoccupati in questo caso superano il 20 per cento, un valore quasi due volte la media nazionale, a dimostrazione che, seppur siamo nell’economia della conoscenza, lo sgangherato substrato produttivo italiano non sembra essersene accorto.
Intanto, per i laureati si organizzano corsi per insegnare come servire ai tavoli o animare le vacanze dei turisti russi e cinesi: non sorprende quindi che nel 2011 circa il 18 per cento di giovani abbia deciso di interrompere precocemente gli studi. Così come non è un caso che l’Italia abbia un elevatissimo numero di Neet (Not in education, employment or training), giovani non più inseriti in un percorso scolastico-formativo, ma neppure impegnati in un’attività lavorativa retribuita. A fronte di una media europea del 15,4 per cento, da noi superano il 23 per cento.
A rendere ancora più fosco il quadro dell’occupazione giovanile vi è la predominanza del lavoro precario. La flessibilità è stata introdotta per ridurre la disoccupazione dei giovani, che nel 1990 sfiorava il 30 per cento (e solo questo numero basta a capire come non sia servita allo scopo: 20 anni dopo siamo tornati al punto di partenza), e soprattutto per ridurre il costo del lavoro delle imprese grazie a forme di lavoro atipiche, senza welfare e che sfuggivano ai contratti nazionali.
Le persone coinvolte in un lavoro atipico sono oggi circa 5 milioni: poco meno di 2,3 hanno un contratto da dipendente a tempo determinato; i restanti sono collaboratori, associati in partecipazione, tirocinanti, stagisti, praticanti, persone con partita Iva senza dipendenti e con l’intero reddito proveniente da un unico committente. Il lavoro atipico interessa circa il 20 per cento degli occupati – una quota non particolarmente più elevata di quella tedesca, francese o inglese –, ma con una specificità: in Italia la condizione precaria attiene soprattutto ai giovani scolarizzati: nel 60 per cento dei casi arrivano in azienda con un contratto a termine, e di rinnovo in rinnovo vi rimangono per molti anni.

Del resto, i recenti dati Isfol sugli avviamenti al lavoro mostrano con chiarezza che nel 2012 le nuove assunzioni realizzate attraverso contratti a tempo determinato sono state il 66,8 per cento del totale. Per dirla in valori assoluti: su quasi 2,5 milioni di contratti stipulati dalle aziende, solo 430.000 lavoratori sono stati assunti con un contratto standard a tempo indeterminato. Ai giovani, quando si presentano per la prima volta nel mercato del lavoro o non si offre nulla, oppure si prospetta un lavoro senza nessuna garanzia per il futuro (e a volte, come per gli stage, senza neanche una retribuzione). In queste condizioni pensare di progettare una famiglia diventa un miraggio.
Come mostrano i dati Istat, i giovani vivono sempre più a lungo nelle famiglie di origine. Di conseguenza, costruiscono sempre più tardi una propria famiglia e rimandano la decisione di avere figli, contribuendo al nostro disastro demografico. Alle famiglie di origine è stato demandato il ruolo di ammortizzatore sociale del precariato e della disoccupazione giovanile e il welfare pubblico ha ceduto il passo a quello privato, garantito da genitori e nonni, ma con la crisi che incalza sino a quando potrà durare? In questo contesto difficile, il nuovo governo sembra avere una ricetta tutto sommato abbastanza semplice: ripartire il lavoro per darne un po’ ai giovani togliendolo a chi ne ha di più, gli anziani. La riforma Fornero delle pensioni, infatti, se da un lato, allungando l’età pensionabile (anche a scapito dei cosiddetti esodati, lavoratori che avevano stretto un patto con lo Stato per andare in pensione anticipatamente e dare ossigeno alle proprie aziende in difficoltà e si sono poi trovati privi di stipendio e pensione), ha portato consistenti risparmi all’erario, dall’altro ha sottratto ai giovani i posti di lavoro che si sarebbero liberati grazie ai pensionamenti.
Con la “staffetta generazionale” il ministro Giovannini punta, almeno in parte, a riequilibrare la situazione. Non è certo una ricetta innovativa: fu tentata da ben tre ministri del Lavoro: nel 1991 da Franco Marini, poi da Tiziano Treu nella legge 196 del 1997 e infine da Cesare Damiano nel gennaio del 2007. Naufragò sempre nel nulla, in quanto questo strumento ha sempre previsto forti penalizzazioni per il lavoratore e solo pochi occupati sono propensi ad accettare una decurtazione (dello stipendio o della pensione) se non a fronte di un forte incentivo personale, come – lo ha fatto notare di recente l’ex senatore del Pdl Giuliano Cazzola – quello di poter lasciare il proprio lavoro non a un giovane disoccupato qualsiasi, ma “al proprio giovane”, figlio o nipote che sia. Una prospettiva francamente inaccettabile, dopo il tanto parlare che si fa di merito e superamento delle logiche familistiche, che in Italia contano sin troppo nella ricerca di un lavoro.
Il fatto che lo swap tra giovani e anziani non abbia funzionato in passato, non significa ovviamente che non può funzionare in futuro. Bisogna prestare tuttavia attenzione a come attuare un bilanciamento tra l’interesse dei lavoratori ad anticipare la pensione o a decidere per il part time senza essere colpiti eccessivamente nel reddito (tra l’altro, dopo una serie di riforme che hanno ridotto enormemente potere d’acquisto di salari e pensioni). L’idea che un lavoratore adulto e un giovane siano intercambiabili e sia possibile attivare un rapporto di “padrinaggio” tra il primo che insegna e il secondo che impara è sicuramente suggestiva, ma irrealistica.
Tra le competenze di un sessantenne e quelle di un ventenne esiste, nell’era di Internet, una distanza abissale, e non sempre a favore dell’anziano. Senza contare che non è detto che qualsiasi adulto sia in grado di trasmettere correttamente quel che sa; mentre non è neppure scontato che l’azienda prenda un giovane per fare le cose che faceva l’anziano. Quindi, un’eventuale legge si dovrebbe guardar bene dal tentare di giustificare “moralmente” il costo della staffetta, obbligando a un improbabile trasferimento di competenze: per questo esistono i contratti di apprendistato, che vanno incentivati e usati meglio, riconoscendo all’impresa il massimo dei benefici dopo l’assunzione, e non durante i tre anni di formazione. Per funzionare, una staffetta tra anziani e giovani deve tenere anche in considerazione il fatto che un lavoratore sessantenne non è certo da rottamare, ma potrebbe prestare – nel tempo liberato dal lavoro – la sua opera a favore di progetti di pubblica utilità, che in funzione della sua competenza possono spaziare dalla manutenzione e sorveglianza delle scuole o dei giardini sino all’insegnamento universitario.
La staffetta potrebbe così essere l’occasione per dedicare tempo agli altri, avendo dallo Stato una penalizzazione minore per la scelta fatta. A chi potrebbe obiettare che in questo modo si rinnoverebbe l’esperienza fallimentare dei Lavori socialmente utili, va risposto che in questo caso si supera la criticità principale di quella stagione: il lavoro a favore della collettività si offre a un anziano a due passi dalla pensione, non a un giovane che cerca un lavoro stabile per i prossimi 40 anni. In definitiva, lo scambio di lavoro tra le generazioni potrebbe anche funzionare, a patto che si adotti una visione laica di tale strumento. Al quale non si può chiedere di sostituirsi alle politiche di crescita produttiva e di redistribuzione dei redditi tramite la leva fiscale. Il problema italiano sta proprio qui: finché le tasse sul lavoro e sull’impresa saranno tanto sbilanciate in termini di aliquote e di capacità impositiva, il sistema sarà a rischio, i consumi si ridurranno e le imprese soffriranno, riducendo l’occupazione e i redditi delle famiglie, in una spirale perversa. Per uscire da questa situazione bisogna smettere di sperare in una soluzione salvifica, ma mettere in campo molte soluzioni che operino in maniera sinergica. Non è vero che abbiamo un solo colpo da sparare. Ne abbiamo molti, e non dobbiamo sbagliarne nessuno

fonte: http://www.rassegna.it/articoli/2013/05/23/100744/giovani-e-lavoro-la-staffetta-non-basta

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