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Ispra, i rifiuti speciali crescono 24 volte più velocemente del Pil e gli impianti non bastano

L’export segna +13,4%: i due terzi sono scarti dell’economia circolare che non vogliamo gestire

| Scritto da Redazione
Ispra, i rifiuti speciali crescono 24 volte più velocemente del Pil e gli impianti non bastano

Nell’ultimo anno prima della pandemia, ovvero il 2019, i rifiuti speciali generati in Italia sono cresciuti del 7,3% – mentre il Pil saliva di un misero +0,3%, oltre 24 volte meno – assestandosi a quota 154 milioni di tonnellate.

Si tratta di scarti provenienti da attività industriali, commerciali, sanitarie, ecc. Tutti rifiuti di cui generalmente neanche ci accorgiamo, perché diversi da quei rifiuti urbani che generiamo ogni giorno nelle nostre case e raccogliamo in modo differenziato. Eppure i rifiuti speciali sono oltre il quintuplo degli urbani, che si fermano a 30 mln di ton annue: quell’incremento del 7,3% in un solo anno, documentato dall’Ispra all’interno del Rapporto rifiuti speciali 2021 appena pubblicato, basta ad aggiungere 10,5 mln di ton. Ovvero come se in tutte le case italiane fosse stato generato un terzo dei rifiuti in più.

Come sempre, il rapporto elaborato dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale rappresenta il migliore strumento a disposizione per indagare questa oscura quanto importante spaccato dell’economia circolare italiana, ma non è esente da approssimazioni. La produzione di rifiuti speciali viene infatti quantificata a partire dalle relative dichiarazioni ambientali (Mud) compilate dalle imprese, ma a causa della «carenza di informazioni derivanti dalle esenzioni previste dalla norma» la quota stimata da Ispra arriva a quasi la metà (47,2%).

Quanto basta comunque per intuire che il Programma nazionale di prevenzione dei rifiuti adottato nel 2013 (in attesa che il nuovo Piano previsto dal recepimento delle direttive Ue venga stilato) sta miseramente mancando gli obiettivi: rispetto ai valori registrati nel 2010 dovremmo ridurre del 10% la produzione di rifiuti speciali pericolosi per unità di Pil e del 5% quella dei non pericolosi, mentre la performance effettiva risulta in «progressivo allontanamento dagli obiettivi». In particolare, se nel 2019 il Pil era in aumento dello 0,8% rispetto al 2010, dai rifiuti pericolosi è arrivato un +21,8%.

Ma da dove arrivano tutti questi rifiuti speciali? Come sempre il maggior contributo alla produzione (con il 45,5% del totale) arriva dal settore delle costruzioni e demolizioni, mentre al secondo posto (25,1%, con 38,6 mln ton) restano stabili le attività di trattamento dei rifiuti e di risanamento – a ricordarci che anche la migliore economia circolare produce scarti, come ogni attività industriale – e al terzo le attività manifatturiere (18,9%).

Nel complesso, le attività di gestione di questi rifiuti si mostrano virtuose. Il 68,9% dei rifiuti speciali è avviato a recupero di materia, il 10,9% ad operazioni di smaltimento e in particolare il 7,3% in discarica; residuali il coincenerimento (1,2%) e l’incenerimento (0,7%), mentre una quota consistente di rifiuti speciali (18 mln ton) è rimasta semplicemente in giacenza negli impianti di gestione o nei siti produttivi, in attesa della propria destinazione.

Un attesa che però rischia di essere molto lunga. Nonostante una crescita vertiginosa dei rifiuti speciali generati nel 2019, i relativi impianti di gestione (10.839 lungo lo Stivale) sono infatti solo 26 in più rispetto al 2018 e soprattutto 370 in meno sul 2017, peraltro con ampie disparità regionali: come mostra l’Ispra «la maggiore concentrazione di impianti risiede nelle regioni del Nord e in particolare in Lombardia (2.180), Veneto (1.130) e Piemonte (992). Tra le regioni del Centro si distingue la Toscana (755) seguita dal Lazio (532). Nel Sud, si evidenziano Campania (767) e la Puglia (596)».

Il 42,6% di questi impianti è dedicato al recupero di materia, il 16,2% allo stoccaggio, il 13,5% all’autodemolizione mentre gli impianti produttivi che effettuano il vero e proprio recupero di materia all’interno del ciclo produttivo sono pari al 12%.

Impianti largamente insufficienti, a giudicare dal dato sulle giacenze e soprattutto da quello relativo all’export, in crescita del 13,4% a quota 3,9 mln ton, finiti prevalentemente in Germania (soprattutto rifiuti pericolosi) con l’Austria a seguire. A stupire è soprattutto la composizione dell’export, per il 64% costituto da “rifiuti prodotti da impianti di trattamento dei rifiuti” e “impianti di trattamento delle acque reflue”, gli scarti appunto dell’economia circolare che preferiamo non vedere e affidare ad altri Paesi, profumatamente pagati per gestirli al posto nostro.

Ben diversa la logica dei rifiuti importati, che sono invece costituiti essenzialmente da rifiuti metallici, oltre 5,5 milioni di tonnellate (il 78,4% del totale) destinati principalmente alle acciaierie localizzate in Lombardia e in Friuli Venezia Giulia.

Un modo manicheo di guardare all’economia circolare che ci condanna anche a crescenti ritardi su altri fronti, come quello delle bonifiche da amianto, che producono inevitabilmente rifiuti speciali che sarebbe corretto smaltire in discarica. Solo che a fronte di 108.000 siti interessati dalla presenza di amianto stimati dall’Inail, le discariche operative in grado di gestire i rifiuti contenenti amianto sono solo 19 in tutto il Paese.

È ovunque difficile realizzarne di nuove, ostacolate da varie sindromi Nimby e Nimto che bloccano la costruzioni di impianti per gestire in sicurezza i rifiuti, lasciando così paradossalmente l’amianto all’aria aperta. E così i rifiuti d’amianto complessivamente gestiti nel Paese si sono fermati a quota 275mila ton nel 2019, cui si aggiungono 28mila ton esportate (di cui 26mila ton sono finite ancora nelle discariche tedesche). Ma a questo ritmo le bonifiche non finiranno mai: secondo l’Ona in Italia «ci sono ancora 58 milioni di mq di coperture in cemento-amianto, oltre a 40 milioni di tonnellate di materiali contenenti amianto, con conseguente condizione di rischio».

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