Sabato, 27 aprile 2024 - ore 09.41

L'Eco Nonostante gli attentati terroristici A Cremona é tornata Heidi

A dispetto di scenari poco incoraggianti, a qualcuno sorridono i monti e le caprette gli fanno ciao. La storia passa anche da qui, ma non si ferma per ammonire. Anzi, non degna neppure di uno sguardo gli ermeneuti di ciò che sta avvenendo nel mondo e che potrebbe, presto o tardi, avvenire anche qui. Questa è la sensazione tratta dal surreale sit in di ieri come risposta agli attentati della capitale belga.

| Scritto da Redazione
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Il Prof. Galimberti, chiudendo una testimonianza volonterosa ma per molti versi appunto surreale, constata, come vedremo con finalità retoriche, “In un anno è la terza volta che ci incontriamo.”

Già, a che fare? Se l’è chiesto anche lui e s’è risposto: “A fare nulla”.

E’ passato un anno dall’attacco a Charlie Hebdo e quindici dall’attentato delle Torri Gemelle, ma non possiamo obiettivamente sostenere che in questo non breve lasso sia maturata una strategia per difenderci da quello che più che un pericolo è una guerra.

Eppure i conducenti del vapore leggono eventi che, pure, dovrebbero indurre anche i più neghittosi a darsi (almeno concettualmente) una registrata, secondo una griglia interpretativa, che definire incongrua appare assolutamente generoso.

Ieri, nel tardo pomeriggio, il Comune si è fatto interprete dell’esigenza di raccogliere la comunità cremonese attorno all’orrenda strage di Bruxelles.

Sarà stato perché in poche ore non si raccolgono masse, sarà perché di masse disposte a farsi raccogliere in poche ore non esiste più traccia nell’attuale radar antropico, sarà perché da tempo sono venuti a mancare gli idealismi ed i corpi intermedi che un tempo li testimoniavano a livello di massa, sarà per tutto ciò ed anche per altre considerazioni, ma attorno al Sindaco si sono raccolti meno di una cinquantina di volonterosi.

Ora, almeno sui presupposti bisogna essere chiari.

E’ fatto lodevole che il giovane Sindaco avverta l’impulso di chiamare a raccolta la sua comunità attorno a fatti tanto orribili e di renderla il più possibile coesa nelle percezioni e nei propositi.

Ma, quando uno schieramento, che comprende la Civica Amministrazione, le tre centrali sindacali, l’associazionismo resistenziale, l’associazionismo giovanile e la rappresentanza studentesca, i massimi vertici dell’ordine pubblico, la comunità ecclesiale con il Vescovo, l’associazione islamica, chiama a raccolta e mette insieme qualche decina di manifestanti qualcosa non funziona.

Ai tempi della Prima Repubblica, di fronte a circostanze analoghe, i Sindaci Zanoni o Zaffanella e i Presidenti della Provincia Manfredi o Dolci avrebbero imboccato ben altro percorso di quello che Galimberti continua ad inforcare in solitudine, per affermare una testimonianza ed una lettura, legittima, ma inequivocabilmente soggettiva.

Per una testimonianza di questo valore il Sindaco ha avvertito l’opportunità di interpellare almeno le minoranze consigliari? Evidentemente no, visto che, tranne uno (da osservatore, mi ha confidato), nessuno dei consiglieri d’opposizione, era presente. Ma il punto non sarebbe neanche questo, considerato che i banchi della maggioranza erano rappresentati in Cortile Federico II da cinque o sei consiglieri. Per carità di patria, non parliamo della quasi totale diserzione dei componenti la Giunta Comunale.

Per essere stringati: un flop.

Ma anche questo non è il punto. Il vero punto, infatti, indurrebbe ad interrogarsi circa l’opportunità o forse la correttezza istituzionale di una mobilitazione fatta in solitudine e senza una mission dichiarata e chiara.

Che non fosse (lo si è percepito senza troppi equivoci) quella di fornire al Sindaco e ai suoi corifei la tribuna per esprimere, senza contraddittorio e sfumature, rispettabilissime ma cionondimeno soggettivissime interpretazioni di fatti, è assolutamente pacifico. Fatti che, invece, per la loro gravità pretenderebbero, o almeno consiglierebbero, un approccio ed un intento di condivisione; non già com’è successo ieri e come succede ormai ogniqualvolta il Prof. Galimberti inforca un microfono.

L’aveva già fatto qualche settimana fa in occasione della giornata della memoria; quando aveva tracciato un parallelo un po’ azzardato tra i lager destinati ai discriminati dal nazi-fascismo ed i muri che respingono i flussi migratori.

Evidentemente questo timbro deve essere talmente radicato nel suo pensiero da costituire format da dispensare, con una sicumera che non ammette eccezioni, in ogni occasione. Quasi più attento e misurato è apparso il breve intervento del Vescovo, che, pure, in materia di misericordia, avrebbe qualche titolo in più per insistere.

Oltre a non ammettere minimamente scostamenti, la linea del Sindaco, più adatta ad un comizio di parte che non al contributo di una persona investita di una rappresentanza non partisan, punta decisamente a colpevolizzare tutti coloro che idealmente non condividono i suoi dogmi, stimabili ma appropriati per altre circostanze.

Ma ciò che indispettisce ancor di più è quel profilo di perentorietà al limite del dogmatismo e, diciamolo pure, della maleducazione istituzionale.

L’aveva azzardato, prima di lui, un collega sindaco di sinistra, destinato a lasciare ben altre impronte nella storia civile e del costume. Il Sindaco Peppone, sempre lacerato dall’incertezza dell’opzione dogmatica o dell’opposta pragmatica, di tanto in tanto sbottava. Ad esempio, di fronte alla difficoltà di veicolare la linea del partito nelle coscienze popolari, se ne uscì con un bel “se il popolo non capisce il partito, allora cambiamo il popolo!”

Facendo le debite proporzioni di levatura, sarebbe un po’ quell’esortazione galimbertiana a  “cambiare le nostre teste e a lavorare perché la nostra comunità sia più giusta”.

Il suo collega Peppone si inalbererebbe protestando “Non barare: i comunisti siamo noi” (aggiungendo, noi: tu sei, per ispirazione e timbro effettivo, un democristiano).

Del tutto inaccettabile, perché illogico e scorretto, è, infine, il combinato assiomatico, secondo cui chi chiede più controlli per la sicurezza è da iscrivere d’ufficio nella pagina dei distruttori d’anime e nella categoria dei razzisti xenofobi.

Con quel criptico (o forse solo inconsiderato) richiamo al peccato laico della rassegnazione, rassegnato sarai Lei, saranno i corifei che la seguono sul terreno dell’indefettibile certezza riposta in “pace, pace!” come unica risposta al terrorismo.

Nessuno rivendica l’opzione dell’intervento armato come unica alternativa. Ma, consentirà, il pacifismo di maniera non appare certamente una panacea per le criticità degli attuali contesti.

Atteniamoci ai fatti.

Almeno 400 Jihadisti stazionano in Europa, dopo essere stati addestrati per eseguire stragi.

Chi colpisce è una parte estrema dell’Islam.

Formalmente non hanno dichiarato guerra all’Europa, ma hanno portato in Europa le loro guerre. Qui si nutrono di disperazione esistenziale, di scontro di civiltà, di rabbia generazionale. Si sono auto-ghettizzati rifiutando di imparare e di parlare la lingua degli ospitanti e di rispettarne le leggi, imponendo alle loro donne di continuare a vivere come nei contesti da cui provengono.

E’ vero che non tutti gli islamici sono terroristi; ma è del tutto evidente che i terroristi usano la religione come collante ideologico motivazionale sia per le azioni che per il mantenimento di quell’area grigia di complicità e coperture nel retroterra sociale e culturale che, nella migliore delle ipotesi, di fronte agli effetti del terrorismo non si schiera. Almeno fin tanto che l’Occidente non sarà totalmente tracollato.

I migrati maghrebini, specie di seconda terza generazione, sono vittima, dicono taluni, della massima perdita di identità culturale. Tale constatazione, supportata dal rimando alle “gesta” concrete, rappresenta la metafora del completo fallimento dell’integrazione.

Alberto Solesin, padre di Valeria, massacrata a Parigi nel novembre scorso, afferma: “Dobbiamo mantenere la calma e non dobbiamo ascoltare i profeti di sventura. Chi usa queste tragedie per cavalcarle politicamente, a prescindere che lo faccia con le parole o con la ruspa, va ignorato. Non possiamo però rimanere impassibili a guardare come se fossimo inconsapevoli di un problema che invece esiste.

Incitare, come fa Galimberti con dichiarazioni pseudo-rassicuranti, la popolazione a non farsi prendere dalla paura è da incoscienti per un semplice cittadino, mentre è da irresponsabile per un “primo” cittadino.

Renzi incita gli italiani a non rimanere vittime del terrore. Ma che dovrebbero fare?

La gente non ha paura; ma pretende che vengano tutelate la propria sicurezza e la sovranità dei confini, in cui le porte-girevoli dell’accoglienza senza filtri non costituiscono condizione di sicurezza.

Blair sostiene che concediamo troppo, che non possiamo farci intimidire e che sarebbero le giuste alleanze dentro il mondo islamico. Chiediamo: quali?

L’Europa, con le sue divisioni, sgangheratezze, assurde fedeltà al politicamente corretto, è diventata un ventre molle, cui assestare didascalici colpi mortali.

I terroristi si muovono particolarmente bene dove le strutture statali sono deboli.

Sono ormai evidenti le colossali falle nella sicurezza, determinate dalla quasi totale assenza di una rete operativa che dia sostanza alle autodifese del continente. Che, per effetto della libera circolazione, ne è totalmente privo e si affida a gestioni che nel migliore dei casi sono volonterose.

L’Europa non solo è priva di esercito, o almeno di quella politica di difesa comune (CEAD) affondata nel 1954 dall’inettitudine delle quarte repubbliche e dall’opposizione di sinistre in evidente collusione con il sovietismo, ma continua ad essere priva di quel più elementare livello che dovrebbe cominciare da una comune analisi strategica del terrorismo.

Occorre assolutamente una struttura unitaria di difesa e sicurezza.

Certo che i confini della tolleranza finiscono quando si mettono in discussione i valori di base di democrazia, stato di diritto, parità di diritti e di opportunità per le donne

Certo che l’Occidente europeo deve trovare un equilibrio tra diritti, privacy e sicurezza (come da tempo fa Israele, da sempre in cima alla lista degli obiettivi di distruzione del fanatismo islamico).

Certo che insieme alla sicurezza si deve affrontare in maniera il profilo culturale della violenza e dell’intolleranza.

Ma la gente si chiede: Quando finirà?

La paura? Si esorcizza coi fatti, non con le rassicurazioni poco rassicuranti di un ceto politico, di cui, nel migliore dei casi, si può e si deve dire che non sa quali pesci pigliare.

Non ci sono difese. Tanto per dire, uno dei quattro miliziani operanti a Bruxelles era stato fermato in Turchia (il paese che, secondo la narrazione dell’establishment europeo, dovrebbe fare da filtro e barriera) ed estradato in Olanda. Le autorità belghe lo rimisero in libertà, certe che non avesse legami col terrorismo.

L’innocentismo è un atteggiamento diffuso nella giurisdizione, che, molto sovente, interpreta controfattualmente un pregiudizio favorevole, come recita la vulgata politically correct,  verso coloro che sono fuggiti dalle guerre e dalla miseria e che se fossero rispediti nei paesi d’origine arrischierebbero molto. Molto meglio, nell’incertezza, far correre rischi ai nostri cittadini.

Già, si è notato che nella narrazione del primo cittadino e della compagnia di giro del pacifismo non c’è mai un accenno al contesto locale. Quasi che Cremona fosse un’entità extraterritoriale, da cui il terrorismo islamico si è auto-bandito.

A dimostrazione del fatto che nel nostro territorio, non ancora interessato da azioni terroristiche ancorché manifestamente minacciato già dai tempi delle indagini sulle cellule operanti nella moschea di Via Massarotti, l’insediamento islamista era ed è profondo e che la repressione non ha reciso completamente il retro-terra, un nipote di uno degli indagati, un marocchino adolescente studente di scuola media, ha esultato durante le lezioni all’indirizzo degli attentati di Bruxelles. E’ stato sospeso. Tutto qui? Quanti sono gli esultanti sotto copertura?

Corroboriamo questi interrogativi di un rimando ad alcuni precedenti che, in verità, sollevano fondate inquietudini.

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La cellula islamista della moschea di Via Massarotti RICORDARE GIOVA

Nel ’98 prendono consistenza le prove sull’esistenza e sull’estensione di una fitta rete internazionale del  fondamentalismo islamico.

Cremona, comodo crocevia di collegamenti e, per l’abusato stereotipo di territorio tranquillo ed al riparo da ossessionanti attenzionamenti, diventa un naturale centro logistico della rete; per ospitare clandestini e  per fornirli di documenti falsi e danaro, prima del balzo verso il Centro-Europa o le guerre d’Oriente.

Forse anche sollecitati dall’indotto di polemiche politiche, gli inquirenti, con molta perspicacia e determinazione, avviano l’operazione Atlante.

Si parte con l’umile lavoro investigativo delle perquisizioni; che dà buoni frutti. Saltano fuori video e opuscoli dedicati alle tecniche di guerriglia e tecniche di combattimento, manuali clandestini, documenti di identità alterati, passaporti arabi, italiani, inglesi contraffatti come pure carte di identità italiane, rubate e perfino codici fiscali, falsi certificati di pagamento e denaro in valuta europea ed orientale.

La moschea costituisce epicentro della rete che si appoggia ad una comunità, impegnata localmente in un ragguardevole indottrinamento a base d’odio e, non viene escluso dalle indagini, in concreti progetti di attacco anche a Cremona.

Il prezioso lavoro investigativo inaugura una delle prime e più importanti indagini sul terrorismo islamico. Che porta la Commissione parlamentare sui servizi a ritenere fondatamente Cremona meritevole di stretta  e costante osservazione.

Partono così i primi arresti, dopo che emergono prove per reati minori come la ricettazione per cui vengono ristretti l’imam Ahmed El Bouhali, il cognato Laagoub Abdelkader e Mourad Trabelsi, poi rilasciati. Negli stessi giorni presso la moschea viene sequestrata una gran messe di materiale. Nel luglio del 2001 scompare da Cremona l’imam El Bouhali, che, si dice, cadrà in Afghanistan, nelle file talebane. Il 16 ottobre 2002. Un tunisino, arrestato ed interrogato a Milano, ammette che per il mese successivo la cellula islamica ha progettato un attentato al Duomo di Cremona

Gli sviluppi portano ad importanti arresti: il 1 aprile 2003 l’imam Trabelsi e il suo collaboratore Kamel, il 15 maggio 2003, Drissi Nourredine, alias Abou Ali, ex bibliotecario della moschea, reduce dai campi di addestramento nelKurdistan iracheno; il 18 ottobre 2003, l’imam itinerante di Firenze Rafik, coinvolto nelle stragi di Casablanca. Nel febbraio 2004 la Procura distrettuale di Brescia dispone L’arresto di Trabelsi, Khalid Khamlic, responsabile amministrativo della moschea, Faycal Boughanemi,Abdelkader e Najib Rouass.

Corollario di questi importanti sviluppi investigativi e giurisdizionali, che clamorosamente contraddicono la versione tenacemente fornita dall’ambiente politico-istituzionale secondo cui la moschea sarebbe stata solo un luogo di preghiera, emergono parallelamente fatti inquietanti riguardanti il premuroso afflato con cui la comunità maghrebina è stata accolta ed assistita.

L’arrestato Nourredine Drissi avrebbe abitato per anni (per un canone mensile di 20 euro) un immobile dell’Aler destinato alle emergenze. Drissi, come emergerà nel dibattito in Consiglio Provinciale, avrebbe ospitato senza autorizzazione un altro tunisino, condannato a Brescia per terrorismo. Un altro imputato, Khalid Kamlick, beneficiava insieme al suo nucleo famigliare (ed anche in questo caso per un canone ridicolo) di una casa comunale, destinato ad anziani in difficoltà. A Trabelsi era stato, invece, assegnato un appartamento comunale, in via Geromini.

Scoppia anche il caso della locazione dell’immobile che all’inizio di Via Massarotti è sede della moschea.

La proprietà dà lo sfratto, la cui legittimità viene sancita in Corte d’Appello.

Prontamente, il Comune mette a disposizione la palestra di S. Felice.

Durante il processo deflagrano due circostanze clamorose: il Duomo viene blindato dalla polizia durante una funzione religiosa e la moglie di un imputato si presenta nell’aula del Tribunale indossando il burqa. Corada, succeduto a Bodini, è perentorio: “Vietare il velo islamico quando oscura il volto”.

Il processo in Corte d’assise ai componenti della cellula islamica cremonese si chiude con tre condanne per terrorismo internazionale, una per favoreggiamento e due assoluzioni.

Donde parte la diffusa convinzione che l’eccezionale lavoro investigativo ha portato, fortunatamente in termini tempestivi, in emersione un consistente pericolo alla legalità ed alla sicurezza di un contesto molto più vasto di quello in cui la cellula terroristica era da tempo insediata. Ma, come dimostra il progetto di attentato al Duomo, Cremona non ne era esente.

Innocentista, nonostante le evidenze, resterà l’ex sindaco Bodini (in procinto di lì a poco di approdare nell’aula di Palazzo Madama tra le fila del PD), che, nel processo, avrebbe testimoniato a discarico dell’imputato Khamlich. A sentenza pronunciata, avrebbe sostenuto: «Per Khamlich tornerei a testimoniare; sono contento che sia tornato in libertà e sia stata sancita la sua estraneità all’accusa di terrorismo internazionale», risponde l’ex sindaco di Cremona. «Naturalmente accetto e rispetto la sentenza, che però ritengo necessario approfondire con lo studio delle carte e la lettura delle motivazioni. Un parere ‘a caldo’?Non mi stupirei se il tempo, e il giudizio d’appello, finissero per offrire un quadro un po’ diverso da quello sul quale ci troviamo a discutere adesso. Chi ha parlato di processo mediatico, segnato da qualche elemento di enfatizzazione figlia anche di certo clima storico e politico, ha espresso considerazioni che meritano attenzione. Alla fine qualcosa doveva pur saltare fuori...Vedremo. Quanto a me, resto convinto che non ci sia mai stato nessun progetto di attentato al Duomo di Cremona »«Tornando a Khamlich, faccio molta fatica a dubitare della sua buona fede.

Ha solo aiutato conoscenti e correligionari. Ma non credo che l’avrebbe fatto se li avesse saputi implicati in vicende di terrorismo. Ne sono convinto, e ai giudici lo direi ancora».

Più abbottonato sarebbe stato il commento di Hassan El Sadiq, presidente del Centro culturale islamico cremonese ‘La Speranza’ (lo stesso che ieri è intervenuto alla manifestazione indetta dal Comune).

Richiesto dal redattore della cronaca giudiziaria del quotidiano locale di un commento, rispose: «Nessuno. Su questa vicenda non diciamo niente».  E’ stato più eloquente ieri. E questo, forse, è l’unico elemento positivo di uno scombiccherato evento comunitario.

E.V.

Nella foto n.4 L’ex sindaco Paolo Bodini stringe la mano a Khalid Khamlich

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