Venerdì, 29 marzo 2024 - ore 07.49

L’EcoLibri LA TRADIZIONE DEL CIBO SALVATO di Agostino Melega

Un noto detto cremonese dice che:El Signùur l’è vegnìit zó de cavàl per catàa sö na brìiza de pàan (Il Signore è sceso da cavallo per raccogliere una briciola di pane), stante a significare che nulla deve essere sprecato.

| Scritto da Redazione
L’EcoLibri  LA TRADIZIONE DEL CIBO SALVATO di Agostino Melega

Tale è (e lo riproduciamo, protetto dalle virgolette) l’incipit della ricerca con cui l’autore, riportando in emersione importanti spezzoni di lingua, cultura e tradizioni locali ne spiega la mission. Abusato termine anglofilo cui ricorriamo, quasi con un intento di sfregio, per significare uno stacco radicale tra la semantica di tutti i giorni e quello che dovrebbe essere il retroterra della nostra quotidianità.

Il sovvertimento degli ultimi decenni non è stato solo linguistico (l’interiezione e gli intercalari aventi valore rafforzativo e normalmente corsivati, che l’inclita esprimeva con la lingua di Virgilio ed il volgo, non raramente, in dialetto, hanno ceduto all’impari appeal della lingua planetaria), ma è anche e soprattutto di costumi.

Solo gli stravaganti penserebbero di esprimersi unicamente nella lingua locale; il cui impianto appare vieppiù inadeguato a rappresentare concetti e significati che il vecchio e non aggiornato impianto semantico non riuscirebbe a tradurre.

Tale impianto, infatti, era funzionale ad una comunicazione incontrovertibilmente archiviata, per non dire travolta, dai cambiamenti.

Com’è facile capire, non si tratta solo di un fatto tecnico. La lingua ufficiale (e materiale) è sempre più chiamata a rispondere ad una domanda di modi espressivi e di neologismi, correlati ai nuovi costumi.

Può la new age dell’iperconsumismo servirsi di un linguaggio non esattamente tarato sui nuovi comportamenti sociali?

Solo recentemente è entrata nel radar delle percezioni e del confronto la questione dell’enorme spreco di cibo (ed, aggiungiamo noi, di beni strumentali!) sacrificati sull’altare di una distruzione di risorse che non mette conto interrogarsi mai sulla sostenibilità di un modello così poco virtuoso e lungimirante.

Tutto ciò, ovviamente, in un equilibrio consumistico di cui beneficiano solo fasce limitate della popolazione mondiale.

I morsi del depauperamento, però, interessano, oltre che i tradizionali portatori di indigenza, anche i cosiddetti “nuovi poveri”.

Fino a qualche decennio fa l’essere poveri comportava qualche rinuncia, prevalentemente a livello di ostentazione del superfluo. Oggigiorno essere poveri significa essere privi dell’essenziale; a cominciare da un’alimentazione sufficiente e corretta.

Ma che c…zzo di sistema può essere quell’organizzazione della produzione dei beni, della destinazione delle risorse, della garanzia di una certa giustizia sociale che preveda, come l’attuale, l’impossibilità per tutti, almeno, di cibarsi accettabilmente!?

Certo, in aggiunta ad un siffatto sistema ingiusto e distratto ci sono la cinica indifferenza e la perdita di contatto con la realtà.

Ma, temo, stiamo arrivando al capolinea. Al redde rationem. Dovremo rifare i conti nelle nostre abitudini. Cibare gli oltre 7 miliardi di individui dell’umanità di oggi non sarà, nonostante i fecondi progressi, più come si provvedeva a nutrire e far vivere (anche allora in modo assolutamente ingiusto) il miliardo e mezzo di mezzo secolo fa.

Non si arriva alla terza settimana del mese? Se non si prenderanno nuove misure dovremo, per conciliare il pranzo con la cena, rinculare facendo finta di…

La questione è indubbiamente sistemica. E ciò è un punto di partenza incontrovertibile!

Ma alla storiella incipitaria di Gesù bambino che raccoglie la briciolina di pane (per di più scomodandosi con la discesa da cavallo), totalmente escomiata dal radar educativo dell’infanzia, dovremo fornire virtuosi aggiornamenti didattici. E non solo a beneficio delle nuove generazioni!

Lo confesso: non mi è mai mancato niente (del necessario e, a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, anche del voluttuario). Ma a casa mia Gesù bambino si sarebbe risparmiato di venire. Perché, guidato dalla sua onniscienza, poteva essere certo che di briciole buttate non ne avrebbe rinvenute. A casa mia, ma, presumibilmente, in quasi tutte le case del mio borgo natio.

Mi sento onorato dei frequenti interpelli, da parte dell’amico Agostino Melega, motivati dalla necessità di approfondire il percorso comparato della mia lingua celtica e di quella aulica del Capoluogo.

Lo sono stato ancor di più in occasione dello sviluppo della ricerca di cui diamo qui conto. Perché, senza menarne vanto, sono stato ritenuto, se non proprio un’autorità, certamente una persona informata dei fatti. Vale a dire del “recupero” dei cibi avanzati; avanzati nel senso di non completamente consumati (circostanza molto rara nell’immediato secondo-dopoguerra) ovvero nel senso di una progressione temporale. Rispetto, non tanto ai tempi attuali dell’ostracismo “non consumare oltre…” (che già ho molto in odio avvertendo quell’impulso subliminale a buttare cibi ancora buoni sull’altare delle convenienze dei produttori e dei distributore). Quanto al fatto che difettando, a quei tempi, di apparati di refrigerazione e di conservazione, i cibi, avanzati in modeste quantità, lo erano sovente come timing di stato organolettico.

Ma mi onoro anche per essere stato parte di quella cultura da “albero degli zoccoli”, che mi ha fatto consapevole dell’etica dell’uso oculato e del riuso.

Vorrà ben dir qualcosa se Melega, che io ritengo un’autorità del sapere e delle tradizioni popolari (che, tanto per essere chiari, non sono sub-cultura) mi ha interpellato (presumo come soprannumerario in aggiunta ai suoi autorevoli riferimenti nel borgo pizzighettonese) in materia di riuso.

Senza ritenermi un tuttologo, mi difendo. Ho avuto la fortuna di avere alle spalle una famiglia educante (soprattutto con gli esempi sul campo). I miei nonni materni avevano imparato il mestiere a Milano (la nonna come badante ante litteram e poi come sartina; il nonno come garzone falegname-ebanista).

Ritornati nel borgo si sarebbero re-incontrati (perché a Milano non si incrociarono mai), avrebbero messo su famiglia e sarebbero stati chiamati ogni giorno a coniugare il mezzogiorno con la cena.

La nonna, fortunatamente, aveva avuto la possibilità, a contatto con le abitudini meneghine, di ampliare il know how culinario; col risultato di elevare l’appealing del risultato del riciclo.

Che, in alcuni casi (come la versione geraiola dei Kaisersmarren da minestra di riso avanzata) era migliore della versione originaria.

Insomma, non si buttava niente. Del cibo come dei materiali (al riciclo dei quali, forse per forza d’inerzia della narrazione autarchica ancora presente nelle percezioni popolari, provvedevano gli strasser door to door). Come dire, un’anticipazione della teoria dell’economia circolare! Che ci guardiamo bene dal proporre sistematicamente. Ma che, a ben guardare, non è del tutto strampalata (se proposta nel suo impulso di fondo)

In un’economia circolare il prelievo di materiali dalla natura è ridot¬to al minimo indispensabile. Ciò avviene grazie all’aumento della du¬ra¬ta, del riuso, dell’ammodernamento, della riparabilità, e del riciclo dei manufatti e dei materiali. Essi 'circolano' così nell’economia molto più a lungo, invece di attraversarla come merci effimere per uscirne presto come spazzatura e inquinamento.

C’era, in quegli anni, nell’impronta dei costumi il perno era rappresentato da un rigore (quasi quacchero) per la parsimonia, temperato dall’afflato di solidarietà.

Perché, diversamente dalla negazione anglossassone  del “piatto caldo garantito”, un gesto di umana comprensione non si negava a nessuno.

Poi, non doveva essere per abitudine. Perché in tal caso eri percepito come un lavativo.

Non casualmente chi scrive non ha un nitido e forte ricordo della rispondenza, nelle coscienze e nella pratica, della parabola del figliol prodigo.

Che, sempre per chi scrive, a parte la disparità di rating nel valore didattico (il Gesù bambino che scende da cavallo merita solo un generico sforzo di storytelling; mentre il soccorso al figlio dissipatore assurge al rango di parabola avente valore evangelico), si è di fronte ad una devastante didattica diseducativa. In ogni caso, non certamente correlata al ragionamento, che abbiamo voluto sviluppare, della parsimonia.

E, poi, poiché alle abitudini un po’ così ci si affeziona facilmente, ecco arrivare la retorica dell’aggiunta del posto in più a tavola. All’insegna dell’allegria conviviale, ma anche di uno slancio completamente avulso dalla percezione delle conseguenze.

Specialmente quando il messaggio implicito (un piatto non si nega a nessuno) deraglia sul terreno della sensazione che ci sia un inviolabile diritto ad occupare il posto a tavola in più.

Lo ammettiamo, ci siamo fatti prendere un po’ la mano da un’interpretazione un po’ estrema del profilo etico-comportamentale implicito nel bel lavoro di AgostinoMelega.

Ne pubblichiamo qui la sintesi. Qui nella rubrica “Eco Libri” destinata ai lavori che libri sono diventati. La ricerca di Agostino, pur non essendola ancora, ne ha tutte le caratteristiche. Ma si sa, oggigiorno, il libro, pane della sapienza, tende, per i costi inabbordabili a chi è privo di paracadute e per la conseguente rarefazione della domanda, a sparire dalle “tavole”.

L’inserimento della recensione nella rubrica Libri suona quanto meno come auspicio che la ricerca diventi, con l’aiuto degli amici e degli estimatori di questo filone, veramente un libro.

Che, oltre ad un messaggio etico, veicola un compendio di istruzioni per l’uso. Destinato a chi dovrà tornare, come gli avi di un secolo fa, a fare di necessità virtù.

e.v.

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PROFILO DELL’AUTORE  Agostino Melega, nato a San Giovanni in Persiceto (BO), il 16 febbraio 1948, è giunto con la famiglia nel Cremonese nel 1951; conclusi gli studi superiori col diploma di geometra, si è iscritto alla Facoltà di Magistero di Parma, dove si è laureato in pedagogia presso l’Istituto di Storia del Teatro con una tesi dal titolo:<>. Relatore: chiar.mo prof. Luigi Allegri. Melega ha iniziato ad occuparsi di tradizioni popolari e di dialetto come ideatore, organizzatore ed animatore di eventi popolari quali I Màascher, I dé de la fümàana, L’Autosbüürla, Bidibibodibibù, La Festa del Torrone, e di molteplici altre manifestazioni, fra le quali pure rappresentazioni di teatro in dialetto cremonese. Come esperto di tradizioni popolari e di dialetto ha collaborato con Rai 1 (Dialettologo in ‘Piacere Rai 1’), Rai 2 (‘Bell’Italia’), Rai 3 (Servizi sui Giorni della Merla e lettura di Dante tradotto in dialetto cremonese) e con televisioni e radio regionali e locali. All’inizio del 2012, egli è stato intervistato da Radio Colonia, la radio degli Italiani in Germania. sui canti rituali padani di fine gennaio.

Ha collaborato per vent’anni alla pagina dedicata al dialetto e alle tradizioni del settimanale locale “Mondo Padano”; per tre anni ha curato la pagina sul folklore di “Cammino”, periodico nazionale dell’Ordine dei Cappuccini; per due anni ha redatto il paginone settimanale su dialetto e folklore del quotidiano “La Cronaca” di Cremona. Suoi articoli sulle tradizioni popolari padane sono usciti pure sui quotidiani “Il Resto del Carlino” di Bologna, su “La Provincia” di Cremona, sul settimanale “La Vita Cattolica” di Cremona.

Ha pubblicato inoltre saggi di taglio antropologico e folklorico sulla “Strenna dell’Adafa”, a partire dal 1989 fino al 1997, e poi nel 2000 con  la ricerca su Le radici storiche della furba cagnolina.

Una originale leggenda di sua invenzione, dal titolo I rubini miracolosi, è stata pubblicata in I marubini di Cremona di Carla Bettinelli Spotti e Ambrogio Saronni, Cremona Books, Cremona 2004 (II ed.)

Ha studiato i segni della presenza culturale di Matilde di Canossa nel territorio cremonese, con una ricerca in gran parte pubblicata dal settimanale della Diocesi di Cremona “La Vita Cattolica”. Melega è stato invitato a tenere conferenze, per ventotto anni consecutivi, compreso il  2016, presso l’Università della Terza Età di Cremona e presso varie biblioteche del territorio; ha fatto inoltre parte delle giurie in concorsi di prosa e poesia indetti dal Gruppo culturale “Al Dodas” di San Daniele Po (CR), e dalle Biblioteche di Gussola (CR) e di Offanengo (CR). Dal 2001 al 2006, ha approfondito lo studio della storiografia della sinistra rivoluzionaria ed anarchica confluita nel movimento dei fasci. Dal 2006 al 2009, si è impegnato in uno studio sulla simbologia iconica dell’arte romanica, con pubblicazioni, conferenze e viaggi.

Fra questi vari percorsi culturali, ai quali Melega ha dedicato il tempo libero, festivo e feriale, vanno pure inseriti il decennio di teatro, quale attore, presso il Gruppo Studio di Teatro di Cremona, il decennio contestuale di animatore,  drammaturgo e di regista. Un lavoro, questo, approdato alla messa in scena di sei commedie in dialetto a favore di bambini ed anziani, patrocinate dal Quartiere 9 del Comune di Cremona, ed al recital in italiano dal titolo “Il pupazzo di Neve”, proposto dal Circolo culturale Fodri di Cremona e presentato al pubblico dal palcoscenico del Teatro Ponchielli della stessa città, il 24 maggio 1980.

Va aggiunto, successivo a questi impegni, l’incarico dal 1989 al 1999, di presidente della Corale lirica “Ponchielli-Vertova” di Cremona, così come l’incarico per tre anni di tesoriere, dal 2006 al 2009, del Comitato cremonese della Società Dante Alighieri. Nel tempo del lavoro retribuito,  è stato impegnato: 1)  per due lustri come educatore-animatore presso il Centro di formazione professionale gestito dall’Anffas di Cremona a favore di giovani ‘diversamente abili’; 2) per quattro lustri alla direzione della Scuola edile di Cremona; 3) dal luglio 2000 al dicembre 2008, alla direzione del Collegio delle Imprese Edili ANCE Cremona. Agostino Melega è in quiescenza dal 1° gennaio 2009. Da allora ai nostri giorni ha coordinato varie iniziative culturali, sul piano storico politico e letterario. Tuttora egli studia e scrive.

In allagato LA TRADIZIONE DEL CIBO SALVATO 

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