Giovedì, 25 aprile 2024 - ore 23.35

Racconto L'UOMO NERO di Agostino Melega

C’è un’ombra che attraversa come un grifo lo spazio della cultura popolare italiana: è l’ombra dell’Uomo nero.

| Scritto da Redazione
Racconto L'UOMO NERO di Agostino Melega

L'UOMO NERO di Agostino Melega

C’è un’ombra che attraversa come un grifo lo spazio della cultura popolare italiana: è l’ombra dell’Uomo nero.

Egli è lì, assiepato dietro l’angolo della mente infantile, con il suo sacco, il cappellaccio ed il mantello a larghe falde, pronto a ghermire il bambino come il rapace fa con l’agnello.

A fronte di tale infido atteggiamento, abbiamo l’enigma presente in una ninna nanna conosciuta dalle Alpi alla Sicilia, nella quale la mamma consegna il bambino all’Uomo nero per un anno intero.

Nel canto di una dolce chiusa fra il giorno e la notte, vediamo proprio la mamma affidare il figlio allo spauracchio per antonomasia, a colui che rappresenta, in forma analogica, il pericolo, il margine da non superare, il castigo, e il non esserci più.

Abbiamo qui due piani di significato, relativi alla stessa personificazione, apparentemente in contrasto tra loro. Ma bisogna considerare che l’Uomo nero è un alleato dei genitori, ed è in questo rapporto che si risolve pure la sua ambivalenza.

Tant’è vero che, superata la fase evolutiva segnata dal timore dei babau, il bambino trasferisce i termini dell’obbedienza alle ragioni del padre e della madre. Il cucciolo d’uomo si viene a trovare allora al di là della favolistica e dell’immaginario magico e viene a toccare il territorio psicologico in cui egli inizia a persuadersi che il possibile e l’impossibile sono divisibili, l’uno dall’altro. Non sono un tutt’uno!

Il bambino, sganciato o restituito alla mamma dall’Uomo nero dopo un anno intero, si è già accorto che non sempre al desiderio può seguire l’attuazione,  e che il rischio è un elemento che tutti gli esseri, sprovvisti dell’onnipotenza, devono valutare.

Ed è allora che il bambino nell’avvicinarsi al pericolo: affacciarsi ad un pozzo, salire su un fienile, scendere in cantina, camminare sulle rive di un fiume o di una palude, non ha più bisogno delle forme umane di un essere <> che gli faccia paura. L’Uomo nero è stato come assorbito dalle azioni che il bambino cresciuto fa ora con accortezza e discernimento.

Il bambino, insomma, non ha più bisogno che gli dicano che nel bosco, nella grotta, nel cunicolo, nel camino, in soffitta, c’è l’Uomo nero chiamato Ombrone (1); oppure che nel fosso asciutto  può giungere da un momento all’altro, insieme alla piena per l’irrigazione dei campi, Acquone (2)  che lo avvolgerà sicuramente nel suo mantellaccio per condurlo nella terra del mai. Oppure, ancora, che dietro i lineamenti di uno zingaro, di un venditore ambulante, di uno spazzacamino, dell’arrotino ambulante (il muleta padano), si nasconde il Chiapparino (3), o Ciapino o Sciapino , come lo chiamano in Toscana.

Così come, l’avvicinarsi ai luoghi di lavoro del fabbro, del carbonaio, del mugnaio, non significa più per il bimbo cresciuto avvicinarsi alla casa dell’Uomo nero abituato, come si sa dalla fiabistica, a mettere i fanciulli nella fucina, nel forno o nella macina. Il bambino divenuto grande non crede più a queste cose. L’Uomo nero alleato dei genitori non c’è più, è svanito. Inizia, invece, il confronto con l’Uomo nero nemico, con l’Uomo nero che sta dietro la mente d’ogni persona di questo mondo. Ma è tutta un’altra storia. Una storia senza fine.

Agostino Melega (Cremona)

(1)Di Ombrone non mi ricordo chi me ne diede notizia

(2)Acquone è la traduzione italiana del dialettale Aquòon. Me neparlò trenta anni fa Marino Feroldi, originario di Cella Dati, già fabbro in quel paese.

(3)Chiapparino è il modo col quale lo definiscono in Toscana. Del Ciaparéen cremonese me ne parlò nel 1982 Aldo De Micheli, già segretario del Collegio Imprese edili di Cremona, che aveva trascorso l’infanzia presso una cascina alla periferia della città del Torrazzo.

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