Giovedì, 28 marzo 2024 - ore 23.32

Riflessioni sulla Camusso | E.Vidali

| Scritto da Redazione
Riflessioni sulla Camusso | E.Vidali

Essì, diciamolo pure, avevo raggiunto il salone del Cittanova, storica location di mezzo secolo di dibattiti e di manifestazioni della sinistra cremonese, con una non ben definita aspettativa; dettata dall’attuale condizione di apolitude e da una parentesi di reciproca non frequentazione, durata più di vent’anni.
Per di più l’attesa di capire meglio cosa effettivamente ci fosse, al netto delle sovraesposizioni ad usum mediaticum dalle conseguenze sovente fuorvianti, nella testimonianza della maggiore centrale sindacale sull’art. 18 (ovviamente semplificando), mi induceva ad un sommario ripasso della materia.
Il mio contributo, essendo, più che una cronaca, uno sforzo di approfondimento spesso trascurato dagli attuali format editoriali, non poteva non alimentarsi degli incroci tra gli scenari contemporanei e quelli, sociali e politici, in cui “l’articolo 18” era diventato tale.
Una mente, così disordinatamente impegnata da sforzo mnemonico su dati, circostanze ed, inutile negarlo, emozioni, non riusciva a scalzare il folletto della messa fuoco della protagonista dell’evento: il Segretario Generale della Confederazione Generale del Lavoro.
Già, la Camusso Susanna, conosciuta a distanza qualche decennio fa in circostanze su cui appare preferibile una dissolvenza (nel timore di trovarci sottoposti alle sollecitudini di un esorcista!).

Ma eccoti servita la conseguenza dell’incoercibile triangolazione tra il profilo di una militante di trent’anni fa ed il personaggio di oggi: Camusso è il primo Segretario della CGIL di estrazione non comunista dopo Bruno Buozzi (al netto del poco significativo precedente rappresentato da Epifani, prevalentemente impegnato in un opaco collateralismo all’ulivismo).
Curiosamente, questa leader si trova oggi a guidare il maggior sindacato nella difesa di una legislazione del lavoro, che, giustamente, il giovane rappresentante della Fiom (presumibilmente non ancora nato all’epoca) ha definito (andando a memoria) una delle conquiste più significative della più avanzata stagione sociale e civile della Repubblica.
Repubblica, che, molti dimenticano ed altri non immemori vorrebbero annacquare, è, secondo Costituzione, fondata sul lavoro.
Quell’approdo di civiltà per le tutele della dignità del lavoro, propiziato dall’azimut mai più superato del riformismo progressista e rappresentato, politicamente, dall’incontro tra socialisti e cattolici, in realtà era il risultato di qualcosa più ampio dell’assetto parlamentare donde scaturiva.
Il ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini (scomparso quarantanovenne pochi mesi prima della definitiva approvazione), si era formato nell’esperienza sindacale della CGIL, di cui era stato segretario aggiunto.
Lo Statuto dei Lavoratori costituiva il compendio delle testimonianze civili e delle lotte (altri termini che arrischiano di farti trovare al 118 psichiatrico), saldamente ancorato ad uno degli aspetti nodali del diritto e della dignità del lavoro: la giusta causa dei motivi che te lo toglievano.
Ha un bel da dire la Confindustria di oggi a proposito di non malevola intenzionalità insita nella soppressione-modifica dell’art. 18.
Brodolini, la CGIL, i socialisti, la sinistra conoscevano bene le conseguenze delle mani libere nella facoltà di licenziare.
Quando era azzardato licenziare sic et simpliciter gli attivisti sindacali, si creavano, alla Fiat di Valletta, i lager in cui erano tradotti i cigiellini riottosi alle logiche del sindacalismo giallo.
Ma, oltre che nell’industria, anche nell’agricoltura, allora la maggior fonte di occupazione, non si scherzava: in un colpo solo a Cremona funzionò la tagliola di 19.000 disdette, prevalentemente dettate da pregiudizio politico.
Lo Statuto dei Lavoratori era (anche) la risposta a quelle aberrazioni (oltre che un fatto di civiltà e di completamento della Costituzione).
I comunisti si astennero sullo Statuto, ritenendolo troppo moderato.
Il PCI accusò il governo di centro-sinistra di allora di non aver riconosciuto nella legge i diritti politici oltre a quelli sindacali nelle fabbriche.
Gino Giugni, giuslavorista in quota CGIL e PSI, estensore del testo, negli anni più recenti Ministro del Lavoro dei governi ulivisti, obiettò allora che leggere il giornale è un diritto politico, ma non leggerlo in fabbrica.
I contesti sociali e politici, in mezzo secolo, sono profondamente cambiati: negli anni sessanta-settanta non c’erano la globalizzazione, il computer, il cellulare, gli immigrati (su quest’ultimi tornerò tra poco).

Questi profondi cambiamenti, che, semmai, reclamerebbero passi meno incerti da parte dei due campi sociali in materia di (fermate l’esorcista!) corresponsabilità etica, non giustificano assolutamente la frontale o semplicemente surrettizia abrogazione, di cui si fa interprete il riformismo dei professori della scuola renana.
Nelle ascendenze, donde deriva l’impulso deregolatore, non solo non sono sparite o conculcate le tutele. Ma resiste prepotentemente quella Mitbestimmung, che è alla base del consolidato progresso-benessere germanico e che, come ha giustamente osservato Camusso, consente a Merkel di praticare tutte quelle ricette (aumento contrattuale dei salari pubblici del 6%; bonus straordinario di 7.500 euro ai lavoratori del gruppo VW) che la kanzlerin nega ai partners europei.
In conclusione, non v’è chi non veda la pretestuosità e la strumentalità del giuslavorismo controriformista.
Certo, la CGIL, per troppi decenni frenata dalla cinghia di trasmissione del conservatorismo del PCI e, più recentemente, da quel tana liberi tutti! rappresentato dall’assenza di una sinistra di stampo europeo, ha molti colpevoli ritardi culturali. Su cui si stanno sedimentando grossolane improvvisazioni.
Ma, chi tutelerebbe il lavoro dei regolari provenienti da altri paesi, se il Sindacato non avesse promosso, da tempo, l’inclusione nei posti di lavoro come nell’assistenza legale e del patronato?
Anche se può sembrare una nota di colore, nella sala gremitissima del Cittanova si coglieva, nella presenza di qualche coloratissimo turbante e nell’intervento di un delegato (che il Cavaliere avrebbe stupidamente definito abbronzato) il segno di un cambio di passo del Sindacato.
Ma, se è permesso un suggerimento, un conto è assecondare l’inclusione e contrastare beceri egoismi populistici, altro conto è accodarsi ad irrealistici afflati.
Se non ricordo male, Camusso ha osservato che con un rinforzino di 2 miliardi pareggerebbero i conti del fabbisogno dell’intero pacchetto.
Consideri la CGIL, che la metà di quel fabbisogno è già impegnata dalla pratica dei clandestini sbarcati a Lampedusa da gennaio-febbraio 2011 e malamente parcheggiati in situazioni senza sbocchi (Euro 47 pro die cadauno x 57000x365=977835000).
Ma, al netto di queste mende, più o meno vistose, la CGIL dimostra, non già una propensione di segno conservatore, ma una continuità da sindacato europeo e riformista.
Nell’illustrarla, oltretutto, Camusso ha concesso il dovuto ai richiami ideali e culturali di una grande organizzazione di lavoratori, che sa mediare tra gli interessi dei propri organizzati e le compatibilità generali.
Se, come si spera, il mondo del lavoro italiano potrà risparmiarsi, con il positivo approdo della vertenza dell’art. 18, testimonianze più energiche, potranno ripercuotersi benefici effetti anche su altri versanti.
A cominciare dal ritrovato bandolo della matassa dell’unità con le altre centrali sindacali, la cui convergenza non poco ha indotto a più miti consigli le posizioni dei professori.
E, per finire, alle conseguenze sulla politica.


Si è tentato di esorcizzare, criminalizzandola, la sinergia, tra sinistra politica (e parlamentare) e sinistra sociale (e sindacale).
Ma che accidenti di pretesa è quella che pretenderebbe, morta e non rimpianta la cinghia di trasmissione, l’assenza, su tematiche così rilevanti e sensibili, di un minimo di reciproca lobbyng tra entità che, sia pure su piani diversi, operano, se è permessa, l’espressione, sul medesimo pezzo.
Il risultato farà bene anche alla sinistra “politica”, che vede il leader del suo maggior segmento (per non far nomi, Bersani) fortemente sotto schiaffo da parte della componente liberal (il cui profilo sembra evocare più Malagodi che i democrats nordamericani) .
Che comprende, notoriamente, Veltroni, il quale, non essendo mai stato comunista, si trova perfettamente a proprio agio (si sarebbe astenuto quarant’anni fa sulla legge 70, coerentemente la cambierebbe oggi).
Ma liberal è massicciamente la pattuglia ex-democristiana, che paralizza l’evoluzione del PD in senso euro-socialista e, per non farsi mancar niente, pretenderebbe l’allineamento di Bersani alla canea revisionista.
Ma che razza di testimonianza cattolica è questa, se postula una legislazione, i cui effetti in termini di minore tutela della dignità del lavoro si assommerebbero alla rarefazione del lavoro, alla riduzione del potere d’acquisto, all’assottigliamento del welfare?
Per pura cronaca, all’esito della battaglia per lo Statuto dei Lavoratori concorse in modo determinante la solidarietà riformatrice dei socialisti, dei laici, dei cattolici della sinistra sociale. La legge 70, infatti, sarebbe stata firmata dal democristiano Donat Cattin, succeduto al socialista Brodolini.
Speriamo bene! Se i non grossolani cenni di intesa tra sinistra sindacale (riformista) e sinistra politica daranno frutti, molti (tra i partecipanti all’Attivo) potranno, senza compiacere la terribile Kanzlerin di Berlino e parafrasando Kennedy, auch Ich bin Bersaner.

Enrico Vidali

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