Venerdì, 26 aprile 2024 - ore 12.18

Cgil Il commento Il virus, la Cina e noi di Stefano Lucci

Si diffonde ammirazione per il modo in cui il gigante asiatico affronta l'emergenza Covid-19. Ma si tratta dello stesso paese che ha nascosto il virus e imprigionato il medico che lo ha scoperto. La democrazia, anche nelle sua fragilità, è un'altra cosa

| Scritto da Redazione
Cgil Il commento  Il virus, la Cina e noi di Stefano Lucci

Cgil Il commento  Il virus, la Cina e noi di Stefano Lucci

Si diffonde ammirazione per il modo in cui il gigante asiatico affronta l'emergenza Covid-19. Ma si tratta dello stesso paese che ha nascosto il virus e imprigionato il medico che lo ha scoperto. La democrazia, anche nelle sua fragilità, è un'altra cosa

Uno spettro si aggira per l’Italia. Quello del modello cinese. Sui social imperversa il “bisogna fare come in Cina”, perché gli italiani sono caproni, costituzionalmente disobbedienti e anarchici. Insomma: ordine e disciplina. Si dimentica, spesso, che la democrazia è un rischio, la società del rischio di cui parlava Ulrich Beck.

È fragile la democrazia, ma è proprio questa fragilità a rappresentare la sua forza: solo questa “debolezza” permette infatti di non schiacciare gli individui, di provare – obiettivo cui tendere più che meta pienamente realizzata – a conciliare i due poli della libertà individuale e della giustizia sociale. Insomma: la democrazia ha l’onere, ma anche l’onore, di gestire l’emergenza Covid-19 – e tutte le emergenze che la storia periodicamente propone – con gli strumenti che possiede: il rispetto delle regole, la persuasione, il dibattito pubblico, la corresponsabilizzazione nelle scelte. Non è facile, è rischioso: ma non può essere altrimenti.

D’altro canto, probabilmente, non sapremo mai il prezzo umano pagato dai cinesi per sconfiggere il virus. Le notizie che trapelano da Wuhan, con famiglie costrette a forza in casa, le difficoltà di approvvigionamento, i vecchi abbandonati senza cibo per giorni, vanno ovviamente verificate, ma non sono per nulla rassicuranti. E non bisogna neanche dimenticare che la pericolosità del virus è stata negata per un mese, che il medico che ne parlò per primo è stato arrestato e poi, come classicamente accade nei regimi, riabilitato. Non sono corollari, incidenti: lo stesso modello autoritario che pare permettere ora il severo confinamento del virus è, probabilmente, anche una delle cause che hanno ritardato interventi che forse avrebbero potuto rallentare la circolazione del morbo nel mondo.

Uno studio realizzato da Citizen Lab (un laboratorio interdisciplinare della Munk School of Global Affairs dell'Università di Toronto) ha dimostrato come la Cina a partire dal 31 dicembre ha iniziato a censurare sui social nazionali ogni informazione relativa al Coronavirus agendo in particolare sul servizio di messaggistica istantanea WeChat (1,1 mld di utenti) e sulla piattaforma video YY (più di 300 milioni di utenti).

Insomma: fosse pure accettabile – e non lo è –, un intervento autoritario ex post non lo si può separare dal vulnus iniziale della mancata tempestiva informazione. E la mancanza di un’informazione trasparente è uno dei buchi principali dei regimi autoritari e dei disastri che provocano per i propri popoli: Amartya Sen in La libertà individuale come impegno sociale (Laterza, 1997) ricorda ad esempio come la grande carestia che nei primi anni 80 ha ucciso milioni di persone in Etiopia abbia tratto alimento – quasi fosse un virus – proprio dalla costante negazione propagandistica della tragedia in atto effettuata dal governo dispotico del paese africano.

 

La tentazione di un modello decisionale autoritario si infila anche laddove non sembrerebbe, magari in forme più soft. Di qui il proliferare di proposte che caldeggiano la necessità di commissari o supercommissari, che magari diventano cavalli di Troia per metter mano – con la scusa di una semplificazione dettata dall’emergenza – a regole conquistate negli anni. È una tentazione, come abbiamo documentato qui su Rassegna, che fa capolino particolarmente nel settore delle costruzioni dove implicitamente si è arrivati a mettere in discussione uno strumento di civiltà, conquistato anche grazie alle lotte dei lavoratori, come il Codice degli appalti. Lo schema è sempre lo stesso: meno regole e un “sol uomo” per sciogliere lacci e lacciuoli e far partire i cantieri. Magari anche qui il riferimento non detto è alla Cina, ai mirabolanti ospedali costruiti in 10 giorni. E ancora una volta si dimentica di considerare l’insieme: e cioè che se si è costretti a costruire ospedali in 10 giorni – e non osiamo immaginare le condizioni di lavoro – è perché prima gli ospedali non c’erano o comunque non erano sufficienti per un’emergenza sanitaria.

Ma la stessa logica, quella dell’accentramento di poteri come via per decisioni e azioni più efficaci e rapide, si riscontra anche nell’idea di affidare a un supercommissario la gestione di questa fase di crisi assai delicata. Non sarà il dictator romano, ma siamo sicuri che la strada sia quella giusta?

La forza del modello sociale europeo – certo in difficoltà, certo non sempre ormai adeguato – sta proprio, all’opposto, nella partecipazione e nella condivisione degli obiettivi comuni. Non è una considerazione astratta: lo vediamo in questi giorni tra i lavoratori e nelle lavoratrici dei settori più esposti del sistema sanitario, ma anche nelle cassiere dei supermercati che con pazienza (e mascherine) sopportano carichi di lavoro inusuali, in chi opera nei trasporti pubblici, e più in generale in tutti i lavoratori che con le cautele del caso fanno sì che il sistema economico – mentre molti sono costretti a lavorare da casa – non tracolli. Ecco, questa è la nostra forza. Niente di più, ma neanche niente di meno.

Fonte rassegna sindacale

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