Giovedì, 18 aprile 2024 - ore 21.16

CR Pianeta Migranti. Racconto di Omizzolo infiltrato bracciante sotto i caporali.

Marco Omizzolo ha parlato a Cremona di caporalato, sfruttamento e agromafie attraverso la sua toccante esperienza tra i braccianti nei campi dell’Agro Pontino.

| Scritto da Redazione
CR Pianeta Migranti. Racconto di Omizzolo infiltrato bracciante sotto i caporali.

CR Pianeta Migranti. Il racconto del sociologo Omizzolo infiltrato come bracciante sotto i caporali.

Marco Omizzolo, sociologo Eurispes, docente all’Università La Sapienza, studioso di migrazioni internazionali e di tratta lavorativa, ha parlato a Cremona di caporalato, sfruttamento e agromafie attraverso la sua toccante esperienza tra i braccianti nei campi dell’Agro Pontino.

 

Il mio racconto cerca di farvi indossare i panni dei lavoratori in una terra dove sono fortemente sfruttati. La mia è un’esperienza di vita prima che di ricerca che ha cercato di fare sintesi anche prendendo esempio dai personaggi che abbiamo ricordato prima: don Mazzolari, Danilo Dolci, Paolo Freire con la sua pedagogia degli oppressi, e tanti altri. Tutti dicono di mettersi accanto, non sopra o davanti agli sfruttati; ciò significa scendere in campo, incontrare uomini e donne in povertà, in disagio, per provare sulla propria pelle cosa vuol dire essere vittime di caporalato e di tratta a scopo lavorativo. Io l’ho fatto in un’esperienza che dura da tanti anni e nello specifico, ho lavorato e abitato un anno e mezzo con la comunità indiana di Latina prevalentemente fatta di braccianti; ho vissuto H24 con loro nei ghetti, nelle baracche, nel retro di vecchi magazzini agricoli adibiti a residenza. In una stanza non troppo grande, abitavamo in 12, con 12 armadi, un bagno, una doccia e solo una lampadina al soffitto. Fuori, appoggiate al muro, 11 biciclette che prendevamo alle 5 del mattino per fare 20 km per andare a lavorare dal padrone, alle condizioni imposte da lui, condizioni non solo economiche ma anche sociali e che definiscono l’antropologia e l’identità delle persone. Sotto padrone  non sei un uomo ma un oggetto, non una persona con dignità, ma un arnese. Devi produrre nei tempi stabiliti, devi vivere con ciò che ti retribuiscono, lavorare 14 ore al giorno, anche per 50 centesimi all’ora, il che significa che due ore di lavoro nelle serre, al caldo soffocante in estate  e al gelo d’inverno, valgono il prezzo di un caffè.

Dopo un anno e mezzo di questa vita ho lavorato nel caporalato presso diverse aziende sotto padroni italiani, a volte anche legati alla mafia come il fratello di Reina, gli Schiavone, fondatori del clan dei calabresi che gestivano -come hanno dimostrato in maniera evidente alcune sentenze passate in giudicato- il mercato ortofrutticolo di Fondi, il quarto mercato più grande a livello europeo.

Il presidente del senato Grasso, quando era procuratore capo a Palermo, aveva individuato un traffico di ortaggi prodotto attraverso gravissime forme di schiavitù tra Vittori, in Sicilia, il mercato ortofrutticolo di Fondi e l’ortomercato di Milano. Gli ortaggi transitavano da un mercato all’altro, ogni volta con il prezzo aumentato, per portare più guadagno nelle casse dei padroni, e quando i camion erano svuotati,  nella pancia degli stessi venivano inserite armi pesanti e droga.

Questa è l’agromafia: un rapporto di potere e di interessi di altissimo livello, che partendo dallo sfruttamento di uomini e donne arriva a forme di business criminali potenti. L’ultimo dato Eurispes  sulle agromafie ci dice che ogni anno il pil di questo sistema è di 25 miliardi di euro; la finanziaria pre-covid era di 30 miliardi. Ciò significa che ogni anno, il valore di una finanziaria di un paese come il nostro, resta nelle tasche di padroni e padrini che lo gestiscono aprendo nuove aziende, in attività di riciclaggio, nella finanza internazionale e nel settore delle sofisticazioni alimentari.

Durante la mia esperienza di immersione, che si chiama ‘osservazione partecipata’ ho lavorato 14 ore al giorno con gambe e schiena piegate sulla terra per raccogliere ortaggi. Immaginate cosa vuol dire raccogliere i ravanelli in questo modo o i cocomeri! Si camminava in ginocchio d’estate  e d’inverno, come dimostra un video. Bisogna immedesimarsi per capire cosa si prova! Avevamo solo due pause di 10 minuti l’una. Durante quelle pause c’era chi, come me, svuotava i cassoni di plastica e ne faceva un letto per riposare, c’era chi si allontanava un po’ di metri  e chiamava col cellulare la sua famiglia per rassicurarla. Parlavano con un tono sereno: “va tutto bene, vi manderò i soldi per curarvi, per mandare i bambini a scuola!” Sfuggiva anche qualche risata… ma nello stesso tempo vedevo quegli uomini piangere perchè davanti a loro stavano le serre dove poco dopo sarebbero tornati a lavorare da schiavi.

Non sono io a usare il termine ‘padrone’ ma questi stessi imprenditori -che io definisco ‘criminali’ per distinguerli da quelli seri e onesti- ci obbligavano a utilizzare questo termine che definisce una chiara subordinazione: là dove c’è un padrone c’è un servo, uno schiavo, e se c’è un padrone e uno schiavo, di conseguenza c’è la violazione dei diritti umani. Lo dice anche l’Onu, con cui ho lavorato attraverso l’Altro Commissariato per il diritti umani sul tema della schiavitù e il diritto al cibo; lo dice Amnesty Italia di cui sono consulente e Medici senza frontiere con cui collaboro. Tutti, con indagini su campo nel Sud e nel Nord del paese, hanno documentato la violazione quotidiana e sistematica dei diritti umani perché là dove c’è mafia e caporalato non c’è democrazia, ma sfruttamento e violazione della dignità umana. Di fatto, non solo dovevamo dire ‘padrone’ ma anche indietreggiare di tre passi da lui e chinare la testa prima di parlargli, se per esempio dovevamo chiedere come raccogliere gli ortaggi o accatastare le cassette. Questo succedeva a 100 Km da Roma, la capitale, e a 100 km da uno dei mercati ortofrutticoli più grande d’Europa che trasporta ortaggi sui mercati internazionali!

Ho fatto una ricerca con una Ong di Bologna ed ho scoperto la vicenda di donne sfruttate sul lavoro e violentate e poi obbligate a non parlare di questo. Nello specifico, ho scoperto un’azienda che fatturava 20 milioni di euro l’anno il cui padrone, legato a un circuito politico internazionale, obbligava le donne a parlare tra di loro in italiano durante i 10 minuti di pausa per controllare se dicevano di voler rivolgersi alle forze dell’ordine, a un giornalista, o al sindacato per le violenze subite. Infatti, il controllo dei lavoratori sotto padrone si estende a tutta la loro esistenza.

Ho presente il caso di una donna bulgara: aveva lavorato un anno e mezzo senza mai staccare, per 14, 15, 18 ore al giorno e, giunta al collasso, mi diceva di volersi suicidare, ma era bloccata dal pensiero del suo bambino. Bene, dopo un anno e mezzo di lavori ‘forzati’ questa donna ha chiesto una mezza giornata per andare dal dottore a causa di una malattia esantematica legata alle sostanze utilizzate nei campi. Durante il percorso per l’ambulatorio, si è fermata un momento a farsi un selfi con il mare sullo sfondo e l’ha postato su facebook. Il padrone l’ha visto (il controllo non è solo sul lavoro ma anche su tutta la vita), le ha subito intimato di tornare in azienda se non voleva essere licenziata, così lei ha disertato il medico.

Ho dovuto assistere anche dei lavoratori a cui avevano spezzato le gambe perché si erano rivolti al padrone senza quel vincolo che impone di passare prima dal caporale, per chiedere un mese di retribuzione dopo 6 mesi di lavoro in cui avevano percepito solo 200 euro lavorando 14 ore al giorno. In alcuni casi, hanno buttato anche delle taniche di benzina addosso ai lavoratori. E questi fatti succedono ancora. In questo momento, sotto una pioggia battente, ci sono uomini che lavorano nelle serre o stanno pedalando sulle biciclette per tornare alle baracche. Anch’io ho pedalato su quelle biciclette, e ogni giorno, il caporale mi diceva in quale azienda dovevo andare. Lungo il percorso si veniva investiti di tutto: acqua, freddo, sole, macchine. In provincia di Latina, in un anno, sono morti almeno 30 braccianti per incidenti sulla strada per il lavoro. In 4 anni, 15 braccianti si sono impiccati dentro le serre, e questo gesto fatale risuona come un grido di denuncia: “Io vivo uno stato di inferno che non finisce mai”. Queste sono persone che hanno lavorato dentro le serre o nei campi per 10-15-20 anni, non tre mesi come me, sia pure con estrema fatica e stress.

Dietro queste tragedie c’è una dimensione che supera quella aziendale criminale, c’è un sistema di sfruttamento e di potere strutturato. Lo dimostra l’intervento di questi giorni dei carabinieri del foggiano che hanno arrestato la moglie del prefetto di Foggia, che lavora per il Ministero dell’interno sull’immigrazione e al cui interno  c’è una specifica commissione sul caporalato guidata da Maroni.

E’ assodato che il caporalato è un sistema che produce nuove forme di schiavitù e di morte. Lo riconosce l’Onu, lo sostengono personalità di prestigio come papa Francesco, Mattarella oltre che tanti organismi indipendenti.

Il  caporalato è anche un sistema che cerca di cancellare l’identità culturale dei lavoratori.

Ho trovato dei Sick che non portavano più il turbante e la barba lunga, una modalità che abbracciano quando ricevono il loro battesimo e che sono i segni di appartenenza ad una religione che è fondata sulla pace e sull’accoglienza. Ho scoperto che per lavorare in alcune aziende dovevano togliere il turbante e radersi la barba, non per un atto estetico ma per l’obbligo di cancellare la loro identità culturale e di fede e diventare sempre più oggetto nelle mani dei padroni.

Vivendo in queste realtà mi sono posto una grossa domanda: cosa fare e quale forma di emancipazione promuovere. Poco fa, ho citato l’esempio di don Mazzolari, Dolci, Freire. E’ a partire dalla loro pedagogia che ho deciso di spostarmi culturalmente e fisicamente accanto agli sfruttati.

Abbiamo così organizzato, di notte, (per motivi di sicurezza) nelle loro residenze, dei corsi di italiano funzionali a capire il significato delle parole del loro contratto, scritto in un italiano burocratico e difficile. Con noi, un mediatore culturale traduceva nella loro lingua e spiegava il valore che ogni parola poteva avere in materia di diritti, salario, salute, tessera sindacale, altro. Abbiamo così spiegato che quel 4, scritto sulla busta paga, indicava le 4 giornate lavorative registrate al posto delle 28 effettivamente lavorate. Da questo numero è partita la presa di coscienza dei loro diritti contrattuali: 6 giorni lavorativi, la settimana con un giorno di riposo, una paga di 9 euro lorde l’ora e, nel giorno di riposo, il diritto di tenere spento il cellulare. Sì, perché nel tempo del riposo dovevano restare reperibili e tornare in azienda, anche di notte, se il padrone li chiamava per caricare i camion di ortaggi che, se arrivavano per primi sui mercati, avevano un prezzo più alto e davano maggiori profitti al padrone.

 In questa nostra attività di coscientizzazione siamo stati ostacolati in ogni modo: ho ricevuto minacce dirette e per lettera, fotografie nella cassetta della posta per dirci che eravamo controllati, e perfino un attentato con bombole di gas sulla porta. Ma, resistendo nel tempo, questo processo di costruzione dal basso ci ha permesso nel 2016, di portare in piazza Libertà a Latina, davanti alla prefettura, più di 4000 migranti in sciopero, durante un giorno lavorativo.

Abbiamo giocato una partita grossa e rischiosa che mandava a dire ai padroni: “Oggi non veniamo a lavorare, ma scendiamo in  piazza coi nostri costumi per dire basta allo sfruttamento!”. Era un gesto forte, posto dentro un lungo processo di emancipazione che sulla piazza ha dato la parola a centinaia di persone che, col microfono in mano hanno raccontato nella loro lingua, la loro esperienza. Uno di loro ha detto in italiano: ”Siamo stanchi di essere chiamati pecore o maiali.” Non rivendicava un diritto economico, ma il diritto ad essere persone.

Lo sciopero è stato un evento rivoluzionario che ha portato alla legge 199 sul caporalato del 2016.

Io ho partecipato alla discussione di questa legge, ma ho sempre chiesto ai braccianti cosa chiedevano per la loro condizione. Hanno chiesto l’arresto dei padroni e hanno fatto 150 denunce tra caporali e padroni: si sono costituiti parte civile e hanno fatto arrestare tanti padroni e padrini. Durante l’udienza in tribunale, hanno avuto il coraggio di raccontare tutte le angherie subite puntando il dito davanti al padrone, ribaltando così il consueto rapporto di sudditanza. 

In quell’aula hanno chiesto allo Stato di fare lo Stato democratico, di garantire giustizia e libertà, e con questa richiesta hanno gettato una sfida anche a noi tutti. Loro, gli ultimi della fila, che noi abbiamo messo nel sottoscala della società decidendo di pagarli 2,50 euro all’ora o 50 centesimi chiedono di costruire una visione di paese più democratico, di stare accanto a loro per costruire una vita migliore mandando fuori gioco padroni padrini, trafficanti e sfruttatori di ogni tipo.

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