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Ogni anno, il 6 gennaio , arriva la Befana La Vécia Stréa di Agostino Melega (Cremona)

Un giorno, il compianto amico Renzo Bodana mi parlò di una filastrocca udita da bambino in quel di Torre Picenardi, suo paese d’origine:

| Scritto da Redazione
Ogni anno, il 6 gennaio , arriva la Befana  La Vécia Stréa  di Agostino Melega (Cremona)

Befana La Vécia Stréa  di Agostino Melega (Cremona)

 

Un giorno, il compianto amico Renzo Bodana mi parlò di una filastrocca udita da bambino in quel di Torre Picenardi, suo paese d’origine:

La Vécia Stréa

la gh’àa li gàambi stòorti,

la pìista li tòopi,

e la fà:

“Chirichichì!”

 

La Vecchia Strega

ha le gambe storte,

calpesta le talpe, e strombazza:

"Curucucù!". 

Se è vero quel che asseriscono i più qualificati studiosi del folklore, ossia che la tradizione popolare conserva nelle fiabe, nelle filastrocche, nelle ‘conte’, nei giochi infantili da cortile e da strada, le tracce, le reliquie, i fossili di antichi saperi, e di antichi modi di concepire la vita ed il creato, allora si può comprendere perché io sia rimasto così affascinato da quella formuletta, da quel reperto linguistico, che generazioni e generazioni di bambini di Torre Picenardi si sono passati di bocca in bocca a partire non si sa bene da quando.

La filastrocca, disegnata dalla semplicità scolpita e levigata dagli anni, ci propone le movenze e i comportamenti di una delle figure ricorrenti nelle ‘fiabe di magia’, la vecchia, la vécia, o vecchia strega o maga, posta a presidio, in quelle favole, della casetta nella quale i bambini, superate le prove di paura, della fame, del dolore e dell’inganno, diventano più grandi, misurando la loro crescita e dando inizio ad una nuova vita, ad una vera e propria rinascita.

Nella fiaba russa la casetta, detta pure ‘capannuccia’, sorge talvolta su zampe di gallina. Essa è posta dalla tradizione popolare nel bosco o nella foresta primeva, e rappresenta a livello etnologico l’animale totemico nel quale la tribù o tutto il clan familiare s’identificano. Infatti, nella fase storica precedente alla trasformazione di alcuni animali da selvatici in domestici, gli studiosi dicono che ogni clan venerasse un animale ritenuto un parente, un lontano progenitore. E’ la fase questa che è poi precipitata nella fiabistica, nella quale anche la gallina è considerata ‘fiera’ ed è oggetto di culto totemico.

Tracce e rimandi a questo segno di un tempo lontano si vogliono leggere anche nella figura della Befana austriaca, la Perchta, munita di becco e zampe di gallina, così come nei mascheramenti presenti nei carnevali arcaici moderni dove si propongono ancora travestimenti per mezzo di piume.

Si hanno pure testimonianze in Francia di uomini che si mascheravano spalmandosi di marmellata o di miele, per poi rotolarsi nelle piume di gallina. Stesso travestimento è usato anche dalla donna protagonista della fiaba padana che s’intitola La dóna la na sà vöna püsèe de’l diàavol (‘La donna ne sa una più del diavolo’). Infatti la donna, sotto le spoglie di penne e piumini di gallina, riesce persino ad ingannare il demonio.

Tracce di questa forma di mascheramento si hanno pure nella tradizione orale cremonese e mantovana a proposito della famosa Nòt de binél (‘Notte del vino fresco’), fra il 16 e il 17 di gennaio, vigilia di Sant’Antonio Abate, spazio nel quale il mondo si rovescia e le bestie parlano e le donne tacciono e véen fóora töti i màt (vengono fuori tutti i matti).

Ebbene, in quella notte, un altrettanto mitico contadino, per spaventare le donne che avevano infranto la consegna ed il tabù del silenzio, si fece passare per un essere dell’aldilà spaventando le malcapitate riunite nella stalla, con la messa in mostra, da una botola del soffitto, della propria gamba tutta ricoperta di piume di gallina.

                                                                            

La galìna pirulìna

Un altro rimando nel folklore cremonese alla ‘gallina totemica’, che s’identifica ed è un tutt’uno con la vecchia, quasi come a voler certificare le parole del grande folklorista russo Vladimir Propp quando questi asserisce che la maga del mito è ‘a un tempo una vecchia e un animale’, si può cogliere in una seconda filastrocca, quella della galìna  pirulìna, la ‘gallina pirulìna’

La galìna pirulìna

la fa ‘l óof in de la tìna,

la fa l’óof in de ‘l tinàs,

ciàpa la Vécia per el nàas,

ciàpela per la cùa

mèenela a càaza sùa.

 

La gallina pirulìna

fa l’uovo nel tino,

fa l’uovo nel tinaccio,

prendi la Vecchia per il naso,

prendila per la coda,

portala a casa sua.

E’molto utile sottolineare che il termine pirulìna, in questo caso, riguarda il naso: è il diminutivo di piróola, che significa ‘naso voluminoso’. Da subito, con galìna pirulìna, si presenta il sembiante di una gallina che cela una delle caratteristiche prime della vécia della tradizione: il naso pronunciato; naso che viene poi afferrato insieme alla coda posticcia per cacciare la vécia stessa dalla cantina, luogo dove essa viene collocata dall’immaginario collettivo popolare a guisa di spauracchio, al fine d’impaurire i bambini che non devono assolutamente entrare là dove magicamente l’uva sta fermentando, e dove pure i pütéi possono, sbadatamente o volutamente, entrare nella tìna o nel tinàs e trovarvi la morte.

I processi di caduta culturale e di significato di epoca in epoca

Detto ciò, è giunto il momento d’identificare il personaggio della ‘vécia stréa’ della prima filastrocca con l’ausilio di un percorso filologico e di diverse stratificazioni concettuali.

Infatti, il termine dialettale stréa vede già compiuta una precisa metamorfosi linguistica, a partire dal latino classico strix ( uccello notturno, gufo), al latino volgare striga (strega).

Questo passaggio d’immagine parte dalla positività del gufo, fantasticato dagli antichi addirittura provvisto di mammelle ed offerente il latte ai bambini, per precipitare verso una dimensione denigratoria nella quale striga viene concepita come uno stridulo uccello notturno assetato del sangue dei lattanti, una sorta di arpia o vampiro.

Ma il termine strix viene riferito dai classici latini anche alle donne che, al pari delle maghe degli Sciti descritte da Ovidio, sono in grado di trasformarsi in uccelli.

Ora, dopo averla percepita con tutta la repulsione che si è trascinata nei secoli, ci viene precisato, dalla prima filastrocca cremonese, che la Vecchia Strega la gh’àa li gàambi stòorti. Ed è veramente sorprendente che simile descrizione venga indicata pure in leggende caucasiche a proposito di un personaggio mitico degli Osseti, Soslan, una specie di sciamano capace di andare vivo nell’aldilà e di tornarne, il quale viene schernito brutalmente con il riferimento dispregiativo di  ‘mago dalle gambe storte’.

Georges Dumézil, in Storie degli Sciti, riferisce che pure il corrispettivo di Soslan , fra i Circassi,  viene deriso con il medesimo riferimento alle gambe sghembe, dal movimento deambulatorio asimmetrico, proprio di personificazioni che si muovono fra i due mondi, quello dei vivi e quello dei morti. Altrettanto dicasi per lo sciamano dalle gambe storte di un mito georgiano, così come del greco Efesto, il dio fabbro dai piedi storti.

Gli studiosi parlano di prestiti e di influenze fra il mondo greco ed il mondo caucasico attraverso il Mar Nero. Né possiamo dimenticare i rapporti millenari fra queste aree e la Valle del Po testimoniate dalla storia, dalla letteratura e dall’archeologia.

Ne sono una consistente testimonianza gli Argonauti greci di Apollonio Rodio che entrano dall’Adriatico nel grande fiume, immerso fra fitti boschi di pioppi; e poi il mito di Fetonte precipitato nell’Eridano-Po; così come i reperti attici del museo archeologico di Adria, antica porta del Po sul mare, Fra  il  Mar Nero e le terre padane i rapporti si sono ulteriormente  vivificati con i Romani, con i Goti e soprattutto con i Bizantini.

Certo l’areale mediterraneo ha pure avuto altri contatti col mondo slavo ed uralico, e questo incontro è andato ad incidere i propri segni, con scambi e trasmigrazioni di correnti culturali, negli intrecci delle fiabe e dei miti.

Un comune sottofondo di queste linee porta comunque a prendere in considerazione l’ancestrale figura della ‘Signora degli animali’, presente nel mondo dei cacciatori paleolitici e nelle religioni dei popoli artici e nord-asiatici sotto la forma di ‘madre degli animali’.

Simili a questa sono le dee madri delle civiltà agricole euro-asiatiche, come quella della grande dea antropomorfa di Catal Huyuk, in Anatolia, città di mattoni,  che i recenti studi datano a circa novemila anni da noi e che si può dire abbia costituito il nucleo primario della nostra stessa civiltà.

Il predominio di queste figure sul mondo animale ci porta a leggere allo stesso modo le indicazioni che ci forniscono i ‘fossili del dialetto’, ossia quelli della donna attempata della filastrocca, la Vécia, custode delle antiche arti magiche e della capacità di comunicare con il regno sotterraneo degli antenati, definita in seguito Stréa, la quale porta ancora il segno sfumato e deriso di quel potere.

Infatti essa la pìista li tòopi, calpesta le talpe, ma nel contempo lascia trasparire un residuo del suo antico dominio su questi animaletti che portano in sé il simbolo della cecità; di una cecità mitica che è propria anche della vecchia del mito, così come è propria di tutti coloro che avvertono la dimensione della profezia, della sapienza, del canto e della poesia.

La Vécia ha dominato questi animaletti-guida, le talpe, che sono i corrieri consueti e più conosciuti col regno che è presente sotto le zolle del campo, là dove riposano gli avi, là dove alberga il mondo precluso ai vivi.

Presso i nativi americani, quali gli Zuni ad esempio, la talpa è ritenuto ancora un animale guardiano, signore degli inferi, ‘robusto di cuore e forte di volontà’. 

Nel ribaltamento dei valori avvenuto lungo i secoli, riassunto dalla trasformazione della vecchia colma di saggezza in strega, anche la talpa, la tòopa, è stata declassata. Tant’è che il termine ‘talpa’, nel mondo moderno, viene applicato ai traditori, alle spie o alle persone che forniscono informazioni segrete dall’interno.

Ma nel vecchio dialetto del Cremonese, la tòopa, al pari della mèerla, conserva un contorno fascinoso, venendo a rappresentare per antonomasia il genere femminile, la donna, ed il suo sesso.

In questa analisi non possiamo nemmeno dimenticarci dei processi d’identificazione della Vecchia con un animale presenti nella mitologia.

Ad esempio, nelle leggende dell’America settentrionale si parla di una ‘vecchia donna’ che è un sorcio, en sorèch, o ‘n sùrech direbbero i Soresinesi che si ritrovano, pure loro,  il topo o la topina, la sureghìna, in un antico stemma, allorquando la città veniva chiamata, appunto, ancora in ‘modo totemico’ Sorexina.

Si ha pure il caso che la vécia sia un’anatra, na nàadra. Oppure si ha il caso che l’alter ego della Vécia sia una grande aquila rossa.

La Vécia Cucùna che la pìca a le pòorte

A Cremona, invece, in una variante della prima filastrocca proposta, abbiamo una importante conferma, ossia che la Vécia del mito, in una ipotetica e congetturata primordiale tribù padana,  abbia avuto a che fare, in qualche significativo rituale, con una grande gallina:

La Vécia Cucùna

la gh’àa le gàambe stòorte,

la pìca a le pòorte,

e la fà:

<<‘Curucucù!>>

 

La vecchia gallinona

ha le gambe storte,

bussa alle porte, e si presenta con un cupo:

‘Curucucù!’

 

La Vécia Stréa, che qui viene definitita Vécia Cucùna, mantiene le gambe storte, ma anziché pistàa li tòopi (pestare le talpe) bussa alle porte, proponendo il suo avvicinarsi oscuro al pari di quello del Lupo verso le casette della fiaba dei tre  porcellini, e nel modo analogo a quello della Vécia Pezèera, la Befana cremonese arcaica che s’avvicinava alle porte per la vigilia di Natale.

Tant’è che all’interno delle case, al suo avvicinarsi, si diceva con preoccupazione:

Sàara so ‘l ös

che rìiva la Pezèera

che la fà:

<< O l’àsa o la fiulàsa

o ‘l fióol o ‘l masóol…>>.

 

Chiudi l’uscio

che arriva la Pezèera

che dice:

<o il figlio o la fascina di legna…>>.

*l’asse era quello pieno di vivande o di avanzi di cibo nel cantinetto in terra battuta.

Questo personaggio mitologico, al pari di tutte le creature del mondo ‘altro’, ha fame e ha freddo, e chiama i fanciulli per un finto rapimento rituale.

Questa dimensione scenica rimanda a quella riportata sul libro Cenalora dai resoconti di Oskar Eberle a proposito del teatro dei popoli primitivi.

Ma la cosa più sorprendente è che, fino a pochissimi anni fa, la signora Gina Mazzolari, di San Martino in Beliseto, nella sua cascina verso Casalbuttano, recitava la parte della Pezèera, fuori dall’uscio di casa, la sera della Vigilia di Natale. Era quella una ‘parte teatrale’ dettata evidentemente dalla forza straordinaria della tradizione, e che veniva proposta per il divertimento dei nipotini, i quali ricevevano per l’occasione frutta e dolciumi.

In modo inconsapevole quella messa in scena era simile a quella della Vecchia della filastrocca, o pari, in una sorta di globalizzazione folklorica, a quella ben più impegnativa recitata dalle vecchie sagge dei popoli fermi all’età del legno nei loro riti e giochi teatrali tribali.

I segni della gallina che canta da gallo

Ed ora veniamo al verso finale della prima e della terza filastrocca, a quel chichirichì e a quel curucucù che abbiamo letto, ossia alle due parole onomatopeiche che rappresentano il suono del canto del gallo.

Qui ci soccorrono le ampie testimonianze della cultura contadina padana, raccolte anche nel mantovano e nel bolognese, dove si dice che la gallina che canta da gallo, o meglio “in gallesco”, predice la morte del padrone di casa, o potremmo pensare all’annuncio, nei primordi paleolitici, della sospensione temporanea della sua vita terrena, per una sorta d’invito ad un viaggio sciamanico, o dantesco ante-litteram, nell’aldilà.

Evidentemente nel gioco dell’inversione del rito, ossia del capovolgimento e rovesciamento in negativo di quanto un tempo lontanissimo aveva un significato altamente positivo, è stata cristallizzato in un canto di gallo recepito come variante del presagio di morte, come faccia della medaglia rovesciata dell’annuncio di vita, o di rinnovo della vita in un rito d’iniziazione  dall’adolescenza all’età adulta.

La trasposizione di senso, che rimanda agli stessi effetti che la superstizione (galassia di detriti di religioni scomparse) attribuisce al richiamo notturno del gufo e della civetta, ha voluto ribaltare il significato allegorico della vita che si rinnova al risveglio del giorno annunciato dal gallo, al suono di quel chicchirichì che nel sentire comune riapre il sipario ad ogni giorno che viene e ad ogni speranza nel cuore.   

E questa è pure la speranza che viene postulata dalle parole di una tiritera raccolta a Casalmaggiore:

 

Vècia, mé ad do an dént vèc

tè dàman vón nóf.

Dàmal tànt fòrt

Ch’al düra fìna a la mòrt                          

                     

Vecchia, io ti do un dente vecchio

tu dammene uno nuovo

dammelo tanto forte

che mi duri fino alla morte

 

Certo anch’io ricordo da bambino la vecchina del mito che, attraverso la non rivelata complicità di mio padre William, mise un soldino al posto del mio primo dente da latte caduto, messo sotto una pietra appoggiata ad un pilastro del portico; un soldino che trovai la mattina dopo con grande sorpresa e meraviglia, vicino all’uscio di casa, nella magica cascina dei conti Donati, ad Annicco.

Allora non ero consapevole, come lo sono oggi, di aver vissuto da bambino in una sorta di paradiso terrestre, dove l’incantesimo era quotidiano, e dove era logico pensare che gli uccellini parlassero e che la Vecchina fosse vera.

Ogni mattina, in quel cortile,  sorpresa fra le sorprese, la luce del sole veniva annunciata da una sveglia che non sbagliava mai: dal canto vigoroso e sempre risorgente e vivificante del chicchirichì.

AGOSTINO MELEGA (Cremona)

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