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PIAZZE, FONTANE E REMINISCENZE CITTADINE

La redazione della testata fondata da Bissolati si ritiene (nonostante i contesti a dir poco critici) ancora virtualmente in periodo sabbatico. Premessa questa che induce a dar spazio ad argomenti “leggeri”. Che tali, se si considerano l’incidenza sul decoro cittadina e sulla giustificata reattività dei cittadini di fronte alla noncuranza, non dovrebbero così essere percepiti e catalogati.

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PIAZZE, FONTANE E REMINISCENZE CITTADINE PIAZZE, FONTANE E REMINISCENZE CITTADINE

La redazione della testata fondata da Bissolati si ritiene (nonostante i contesti a dir poco critici) ancora virtualmente in periodo sabbatico. Premessa questa che induce a dar spazio ad argomenti “leggeri”. Che tali, se si considerano l’incidenza sul decoro cittadina e sulla giustificata reattività dei cittadini di fronte alla noncuranza, non dovrebbero così essere percepiti e catalogati.

D’altro lato, ci si dovrebbe aver fatto il callo all’incoercibile e consolidato trend gestionale che sembra essere assorbito da grandi questioni strategiche (discendenti dalla mission di fare nuova la città) mentre, nelle more, non è in grado di tener dietro alle più minute questioni di presentabilità del volto cittadino.

Si esce da una non breve temperie contraddistinta da una sorta di Comune “etico”, in cui le visioni assolutistiche del conduttore di turno ha imposto, almeno in materia di mobilità e di decoro, provvedimenti non sempre ben ponderati e, soprattutto, ascrivibili ad un tratto gestionale che lasciava poco spazio non tanto alla mediazione quanto all’inderogabile dovere di non fare strame dell’opinione pubblica.

Va aggiunto, da tale punto di vista, che il ripristino dei Comitati di Quartiere, dalle “giunte anomale” del 1990 in poi caduti (meglio, surrettiziamente lasciati cadere) in disuso (nella logica del “lasciateci lavorare”) sta, da qualche anno (grazie all’impegno dell’assessora Viola), significativamente contribuendo al recupero della risorsa civile della partecipazione dei cittadini.

Già: “a cuntentà en Cümón gh’è bon nissón!”. Perché frequentemente l’occhio di certe fasce di cittadinanza si sofferma sui particolarismi, per non dire sui miniaturismi. Che, da un lato, prescindono dalle reali capacità del pubblico di far fronte a tutto e, dall’altro, rinviano all’aforisma Kennedyano del “non chiederti cosa può fare la comunità per te, chiediti cosa puoi fari tu per la tua comunità”.

Ma che su tale versante nel corso dell’ultimo quarto di secolo si sia sedimentato un cospicuo arretrato è segnalato sia dall’azione costante e puntigliosa dei Comitati di Quartiere sia dalla scelta del rinnovo della fiducia alla maggioranza di centro-sinistra. Che, presumibilmente consapevole della criticità e non più determinata a sfidare le critiche dei cittadini con le dosi industriali di arrogante noncuranza, ha istituito un assessorato per i piccoli problemi.

Ai nostri tempi, bastava (e avanzava) la normale sollecitudine della macchina comunale, che con qualche bravo geometra fronteggiava le emergenze quasi sul nascere.

La Giunta Galimberti2, invece, ha preferito elevare al rango di assessorato (per di più affidato ad un politico di significativa caratura e di verificata capacità) un segmento, che, semplificando, si potrebbe definire da “spiccia-faccende” (una specie di “Esposito” della pellicola Amici miei III)..

Definizione forse congrua per gli acciacchi di una fontana (come quella di Porta Po) che da tempo versa in condizioni malmesse. Per quanto meno avviare a soluzione delle quali è stato necessario il pressing del presidente del Comitato di Quartiere Matteo Tomasoni; che costretto l’amministrazione cittadina nella condizione a non tergiversare.

Prima di introdurre l’assist per una rivisitazione delle iatture astrali di questo arredo (che avrebbe dovuto aggiungere un tocco di modernizzazione ad un segmento urbano nevralgico della città), ci sia consentita una digressione (da cui risaliremo in una prossima occasione dedicata ad un approfondimento più organico e complesso) sui fasti delle politiche di arredo urbano incardinate nell’ultimo quarto di secolo. I cui inputs sono sembrati discendere, se non proprio dal caso, inequivocabilmente da cattive percezioni delle tendenze quando non dall’uzzolo personale (degli amministratori e di alcuni tecnici).

Introduciamo, a questo punto, una riflessione occasionata dai più recenti approdi della ricerca di nuovi assetti dell’arredo urbano. Che, in materia di riformulazione delle funzioni e degli stili dei grandi spazi, inducono a tener conto non solo di più elevati standards qualitativi, ma, soprattutto, delle consapevolezze sul terreno di un diverso rapporto tra forme, fruizione e clima.

Come dimostra l’avanguardia architettonica applicata nelle città mediaticamente focalizzate, vengono gradualmente messe al bando le pratiche edilizie ed urbanistiche contraddistinte da spazialità avulse da un diverso e fecondo rapporto col “verde”. All’insegna della consapevolezza che “più verde” può diventare sia un antidoto agli incipienti cambiamenti climatici sia una risposta alla necessità di favorire opportunità di socializzazione in condizioni conformi.

Sotto tale profilo che senso ha avuto la scelta (contraddetta dalla soluzione pensata ed applicata alla quasi contigua Piazza Marconi) di “spianare” Piazza Cavour (che, all’inizio degli anni 60, era stata riconvertita a salotto/giardino diffuso dall’assessore Coppetti)?

Che senso ha, mentre per alcune piazze (Porta Romana) si è consolidato un giusto compromesso tra esigenze viabilistiche ed arredo verde e mentre per altre ancora (Porta Milano e Porta Venezia) tale equilibrio è stato gradualmente perseguito, mantenere altri significativi spazi urbani (come Porta Po) coerenti e vincolati a sciagurate scelte del passato.

Né si può impunemente sostenere che una siffatta fontana (per di più degradata e non più funzionante) realizzata oltre sessant’anni fa possa rispondere agli standards minimi che dovrebbero essere quanto meno garantiti da quella un po’ smargiassa (e sin qui inattuata, se non per il segmento delle piste ciclabili) presunzione di “rigenerazione urbana” (uno dei perni della mission di “fare nuova la Città”) possa essere ritenuta bastevole per un accettabile assetto della “porta” per eccellenza. Che è di congiunzione tra la città e quel retroterra, se non altro simbolico, che giustifica il rating di “capitale del Po”.

Non è dato sapere se la montagna (della denuncia e dell’affidamento di porvi rimedio) partorirà il topolino (del ritorno al decoro e della funzionalità). Indubbiamente la circostanza induce (o dovrebbe) ad una riflessione più ampia sui risultati e sulle residue modalità dell’impresa di rigenerare la città.

A ciò ci spinge uno dei versanti della testimonianza del Quartiere Po e del suo Presidente, Tomasoni, che non hanno certamente risparmiato impegno, determinazione e dovizia di richiami alle consapevolezze rivolte alla transizione dal passato.

Nel ricco ed interessante corredo fotografico emerge una fontana incastonata in una piazza che è restata tale solo spazialmente. Le quinte erano, a metà degli anni cinquanta, profondamente diverse. Le costruzioni di delimitazione erano quelle che erano sopravvissute all’epoca della demolizione della Porta. Avrebbero resistito non molto, alla pressione di un ciclo edificatorio, che, dopo aver affondato il piccone risanatore agli ordini del Ras e per l’esecuzione del sottostante Ingegner Mori sulle preesistenze dell’appetibile (anche e soprattutto simbolico) cuore del centro cittadino, avrebbe trovato sfogo nelle adiacenze.

Non esattamente identificabile con le motivazioni dei testimoni del razionalismo, l’impulso a far girare la ruota dell’impastatrice (nel convincimento che l’edilizia è sempre stata il volano dell’economia) avrebbe continuato a girare, nelle decadi successive.

L’epicentro del quadrilatero della Cremona delle istituzioni, degli affari e della cultura si sarebbe dilatato verso le porte.

Quella di cui ci stiamo occupando, Porta Po, sarebbe stata interessata da un intervento significativo, caratterizzato dalla realizzazione dell’esedra, affacciante al Viale.

L’idea di qualche amministratore guardò alla risagomatura del lato sinistro di Corso Vittorio Emanuele, nell’intento di realizzare un rettifilo per arretramento (che consentisse di allargare la visuale dal Viale, in modo da consentire la prospettiva sulla maggior piazza e sulla facciata del Duomo..

Non sappiamo se tale progetto di più vasto respiro fosse nelle aspettative di chi manomise i connotati della piazza.

Vero è che, in quella metà degli anni 50, Cremona assistette ad un fervore di attività urbanistiche ed edificatorie.

L’argomento solleciterebbe una più vasta ed approfondita trattazione. Ma, volendo parlare della piazza della fontana, ci fermiamo qui.

Per concludere con una postilla sullo scenario politico-amministrativo in cui la realizzazione fu concepita e portata a termine.

Scenario, che già allora, oltre sessant’anni addietro, era contraddistinto da una chiamata alle urne.

La giunta, chiamata al fact-chek degli elettori, era quella guidata dal prof. Lombardi (in un breve prosieguo destinato alla funzione parlamentare). Il suo braccio operativo per l’urbanistica era l’altrettanto apprezzato Ing. Loffi. In poco più di un lustro quel governo comunale, diciamo, si era dato da fare. Soprattutto, sul versante della correlazione tra crescita/progresso e sviluppo urbanistico.

Andando molto di fretta, citeremo l’avvio dell’urbanizzazione del Villaggio Po e del Quartiere Borgoloreto. Alla fine del mandato, che si resse con margini molto risicati, la maggioranza centrista si presentò agli elettori nell’auspicio di una conferma e nella presunzione di un apprezzamento popolare del buon operato. Avendo, oltretutto, poco resistito alla tentazione di esibire il consuntivo delle realizzazioni ed un pingue pacchetto di opere “elettorali”.

A tali aspettative si opponeva lo schieramento di sinistra che, per cinque anni, aveva calcato i banchi dell’opposizione (in primis, i socialisti).

“Attese e speranze verso la lista del Partito Socialista. I cremonesi voteranno socialista perché il PSI è il loro partito, il partito che ha accompagnato la democrazia cremonese nel suo lungo e spesso duro cammino”. Così titolava, dopo aver in qualche modo buttato in burla, con tanto di vignetta e di stroncatura del sottotitolo (“La fontana di Porta Po (la più grande realizzazione dell’amministrazione D.C. del capoluogo”), la testata fondata nel gennaio 1889 da Leonida Bissolati e per decenni animata e diretta dallo storico direttore Emilio Zanoni, l’edizione con cui si aprivano le danze di una campagna elettorale destinata a sfociare nel rinnovo della gran parte dei Comuni della provincia e della Provincia stessa. Come sempre il focus della partita dagli esiti in parte scontati (nella Vandea Bianca egemonizzata, specie nel comprensorio cremasco, dalla D.C.) ed in parte sospesi dal portato in sede locale della conclusione del declino della formula nazionale “centrista” con cui il partito di raccolta cattolica, suggellato dagli esiti della battaglia della vita che fu il 18 aprile 1948, aveva incardinato, con l’appoggio per alcuni versi determinante degli alleati minori di ispirazione laica, un equilibrio di forze destinato ad incardinare la collocazione internazionale dell’Italia e ad orientare l’azione di governo alle prese con la ricostruzione.

Sia pure con un rapporto di forze non esattamente schiacciante, il Comune di Cremona, diversamente dalla tradizione “rossa” geograficamente identificata nella “bassa”, si era uniformato alla tendenza politica nazionale.

Il Comune Capoluogo, affidato dal CLN alle mani salde dell’avv. Calatroni, con le prime elezioni del marzo 1946 si era collocato in un rapporto di continuità con la solidarietà, non ancora rarefatta dagli snodi successivi, dei partiti e delle forze che avevano suggellato la Liberazione. Esprimendo il primo Sindaco elettivo, nella persona del socialista Gino Rossini, il cui prestigio personale coniugato con le riconosciute capacità di mediazione già ai tempi della clandestinità antifascista costituivano una garanzia per la saldezza di un’alleanza ampia ma già problematica. La prematura scomparsa del Sindaco più amato dai cremonesi era destinata ad approfondire le criticità determinata dalla lunga supplenza nel vertice del governo comunale, causata dalla sua lunga ed impalcabile malattia. Non sapremo mai se tutto sarebbe stato diverso se il destino esistenziale di Rossini fosse stato benigno, consentendogli almeno di completare il mandato quinquennale e di affidare ad una guida autorevole ed esperta di districare la continuità e la coesione politica dalle complicazioni riverberate dai divaricanti percorsi della politica nazionale.

Fatto è che l’instabilità del vertice comunale dovuta alla vicenda sommariamente descritta finì per accelerare anche localmente la disintegrazione del patto di alleanza ciellenista.

Al defunto Gino Rossini sarebbe succeduto l’avv. Ottorino Rizzi, con il dichiarato ribaltone di un’alleanza destinata all’omologazione alla tendenza centrista. Ma, seguendo i canoni di un destino da tragedia greca, anche il successore di Rossini sarebbe morto giovane. Gli sarebbe succeduto, nella riaffermazione della tendenza certificata del turno comunale del 1952, una giunta, favorita dal passaggio degli epigoni cremonese della socialdemocrazia alla sponda centrista, che sarebbe stata guidata, come più sopra lumeggiato, dall’autorevole dirigente cattolico prof. Giovanni Lombardi (per inciso destinato ad un ragguardevole cursus honorum).

Tale fu il percorso degli equilibri politici destinato ad incidere nella formazione del potere istituzionale locale. Anche se, un po’ meno di corsa, andrebbe precisato che tali equilibri non furono né netti né soprattutto forieri di stabilità. Non proprio un no contest, ma, pur nella configurazione istituzionale, una situazione di precarietà, cui soccorreva di tanto in tanto l’apporto non espressamente conclamato ma ammiccato dei rappresentanti missini e liberali.

Al di là di tale inquadramento politico andrebbe detto, volendo restare aderenti ad una analisi fattuale dell’azione amministrativa, che la contrapposizione in atto tra gli opposti campi era di natura essenzialmente ideologica. In quanto, con il senno della lunga scansione temporale capace di stemperare le passioni ed incoraggiare all’obiettività, il progetto amministrativo era per larga parte sovrapponibile. Forse non senza ragione la sinistra accusava il fervore edilizio alla luce di qualche entente cordiale tra governo comunale e costruttori. Ma sul fatto che dovesse girare la ruota dell’attività edilizia, anche a costo di qualche menda nella cultura della preservazione del patrimonio architettonico, in quel decennio ci sarebbe stato più di un riscontro di identità di vedute.

A dimostrazione che la polarizzazione del sistema politico nazionale finiva per omologare anche le tendenze locali e a far premio anche sulle questioni più squisitamente amministrative, la chiamata alle urne per il rinnovo del Comune a metà degli anni Cinquanta si incanalò sin dalle premesse lungo motivazioni di “politicizzazione” generale.

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