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Proposta di legge di “Outsider – Partito degli Esclusi”

| Scritto da Redazione
Proposta di legge di “Outsider – Partito degli Esclusi”

“Un mercato per il lavoro: contratto unico, piu' flessibilita' per i garantiti, piu' welfare delle opportunita' per i precari”

Italia, Natale 2011 – Una proposta legislativa di OUTSIDER – Partito degli Esclusi (www.partitodeglioutsider.it): malgrado il nome, non un partito ma un movimento trasversale “della seconda tessera”, che raccoglie giovani, donne, italiani all'estero e stranieri di seconda generazione in Italia. Un disegno di legge fatto trovare sotto l'albero di Natale al Governo e, in particolare, alla Ministra Elsa Fornero e al Vice-Ministro Michel Martone.

E' un testo modellato sull'idea di contratto unico di Pietro Ichino, ma con diverse peculiarità. Innanzitutto, dopo un periodo transitorio di alcuni anni, il contratto unico a tempo indeterminato si dovrà applicare a tutti i contratti e non solo a quelli nuovi: questo è necessario e opportuno per non passare dalla “padella” del dualismo orizzontale del mercato del lavoro, tra ipergarantiti e iper-precari, alla “brace” di un dualismo verticale e anagrafico, tra vecchi e giovani lavoratori. In secondo luogo, restano esclusi dall'applicazione dell'indennizzo i licenziamenti per giusta causa e responsabilità del lavoratore: questo criterio, insieme alla regola per cui la maggior parte dell'indennizzo sarà pagato dall'istituto di previdenza e non dall'azienda, riduce i costi che, altrimenti, renderebbero eccessivamente onerosa la riforma a carico delle imprese.

Dettagli della proposta

La presente proposta di legge ha l’obiettivo di riformare gli assetti di tutela sociale oggi presenti nel mercato del lavoro italiano. L’attuale struttura normativa, infatti, riconosce forti garanzie ad alcuni soggetti a discapito di altri che, con grande difficoltà, cercano di inserirsi nel mercato del lavoro. Questo squilibrio di tutele determina un effetto sociale paradossale: da una parte, ci sono lavoratori

che vengono difesi rigidamente con misure conservative “estreme” del rapporto di lavoro, come nel caso dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che prevede la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, oppure con strumenti di ammortizzazione sociale come la Cassa integrazione ordinaria o straordinaria.

Dall’altra, ci sono lavoratori privi di quelle giuste e minime tutele che attutiscano l’impatto sociale nel caso di perdita del posto di lavoro.

L’eccessiva rigidità di tale sistema conservativo ha spinto il mercato del lavoro a destrutturarsi disordinatamente, favorendo la creazione di sacche di sommerso, precarietà, ingiustizia sociale e atrofia delle strutture imprenditoriali (che hanno tutto l'interesse a restare piccole, sotto i 15 dipendenti, e ad instaurare contratti a termine o con forme atipiche per non immobilizzarsi). I costi di un licenziamento o di una causa giudiziale derivante da esso sono difficilmente quantificabili e, in ragione delle tempistiche eccessivamente lunghe del giudizio di condanna alla reintegrazione, le imprese si trovano ad affrontare costi eccessivi che le possono mettere in seria difficoltà finanziaria. Il precariato ha poi portato le aziende a non investire sulle professionalità dei loro lavoratori e allo stesso tempo ha svilito il ruolo del lavoratore nell'ambito aziendale, divenuto oggi una risorsa da sfruttare anziché un capitale sul quale investire.

Nel 2009 i lavoratori che lavoravano in nero ammontavano a 2 milioni e 600 mila (dati Istat del 14.04.2010). Molti di questi lavoratori svolgevano più di un lavoro in nero, oppure svolgevano una quantità di ore lavorate superiore alle 40 settimanali. Pertanto, i posti di lavoro irregolari (che l'Istat chiama "unità di lavoro") sono in realtà molti di più: quasi 3 milioni nel 2009. Guardando al dato storico: nel 1991 avevamo poco più di 3 milioni di lavoratori in nero, nel 2010 la stima si è attestata intorno a 2 milioni e 600 mila. Anche se il dato evidenzia una flessione, questa non è sufficiente e richiederebbe tempi biblici per portarci a livelli di normalità.

Da questi dati si rileva che il lieve miglioramento ottenuto in questi anni viene vanificato in quanto dal 1991 il lavoro irregolare sembra seguire inesorabilmente l'andamento dell'occupazione regolare. Anche se il mercato del lavoro mostra miglioramenti, questi in realtà sono da imputare ad andamenti ciclici del sistema produttivo nazionale, come ad esempio la flessione che ha seguito la crisi del 2001.

Da quanto esposto sin qui non emergono i cosiddetti “lavoratori grigi”, che vengono però rilevati nell’indagine conoscitiva della XI Commissione Lavoro della Camera dei Deputati su “Taluni fenomeni distorsivi del mercato del lavoro: lavoro nero, caporalato e sfruttamento della manodopera straniera” del 29 aprile 2010. In questa indagine, che riprende e analizza i dati Istat del 2009, emerge che la tipologia prevalente di lavoro irregolare è quella di lavoro “grigio” (lavoratori con contratti regolari, ma trattamenti di fatto irregolari), anche se continua a rimanere elevato il lavoro nero in imprese regolari, specie nei servizi tradizionali. Modesto, invece, è il lavoro nero in imprese totalmente sommerse.

Da questa indagine, tuttavia, emerge un dato ancora più importante che riguarda il trend dei soggetti maggiormente esposti al lavoro nero: essi sono i giovani in ingresso nel mercato del lavoro.

Il lavoro irregolare, peraltro, determina meccanismi di auto-riproduzione del fenomeno. In particolare in alcuni settori e in alcune aree geografiche si creano situazioni di asimmetria grave e di sfruttamento. Questo vale in generale per il Mezzogiorno, ma, in un momento di crisi come quella che stiamo attraversando, si impone una visione più ampia: i modestissimi tassi di occupazione e la forte concentrazione di povertà determinano situazioni di massiccio ricorso al lavoro non regolare nel settore privato in tutto il Paese. L'effetto di concentrazione in settori a elevata intensità di manodopera ha finito per determinare fenomeni di concorrenza sleale che hanno, per così dire, “costretto” interi comparti ad adeguarsi a più bassi livelli salariali e a condizioni di lavoro più gravose e meno tutelate. Un altro esempio di segmentazione e concentrazione è dato dalla situazione dei lavoratori stranieri non regolari: la loro condizione forzatamente irregolare ha causato il costituirsi di sacche, anche territorialmente confinate, di lavoro “a qualsiasi costo”, che ha prodotto sia sostituzione della residua offerta locale, sia livellamento in basso delle condizioni di lavoro, come nel caso del lavoro domestico o dell’agricoltura. Il lavoro nero finisce, quindi, per configurarsi come l’ambito del mercato del lavoro cui si riferisce l’area dell’esclusione sociale e che contribuisce alla sua riproduzione.

I dati Istat sopra illustrati mostrano un mercato del lavoro, che poco ha a che vedere con uno Stato moderno e attento alla comparazione con le esperienze offerte dei Paesi stranieri ed in particolare da quelli nord-europei, dove un simile fenomeno non si manifesta o si manifesta in misura enormemente inferiore.

Tale situazione impone riforme o cambiamenti avverso una perpetuazione dell’attuale modello duale di mercato del lavoro. Un mercato del lavoro sano dovrebbe essere un terreno fertile per la crescita economica, spinta da una sana concorrenza, mentre l’attuale mercato espone gli imprenditori virtuosi alla concorrenza differenziale di quelli più spregiudicati che utilizzano manodopera irregolare.

La necessità di una riforma di questo tipo diventa ancora più evidente in un momento di profonda crisi come quella attuale, dove viene chiesto al nostro paese di allinearsi quanto prima ai mercati del lavoro moderni di tutti gli altri Stati europei. Proprio in un periodo di crisi economica infatti le imprese sono più riluttanti a compiere nuove assunzioni con garanzie rigide di stabilità; proprio in questo periodo, dunque, è indispensabile trovare il modo di coniugare la flessibilità di cui le imprese hanno bisogno con una nuova forma di protezione della stabilità del lavoro e del reddito dei lavoratori ed evitare che si allarghi l’area del lavoro precario.

La proposta di legge riportata di seguito si propone di rispondere a questa esigenza di cambiamento, adottando però una strategia di riforma e una tecnica normativa in parte nuove nel panorama delle politiche del lavoro già sperimentate nel nostro Paese. Il cambiamento potrà essere raggiunto non con un improvviso – e improbabile - mutamento drastico della disciplina del mercato del lavoro e dei servizi in esso disponibili, bensì innescando un processo di superamento graduale del vecchio regime. Viene infatti previsto di istituire un nuovo ordinamento applicabile immediatamente soltanto ai rapporti di lavoro che verranno costituiti da un dato momento in poi. Viene inoltre inserita un’apposita regolamentazione riguardante il periodo transitorio durante il quale i vecchi contratti di lavoro rimangono regolati con il vecchio ordinamento. Al fine, però, di evitare una forbice sociale verticale, che determinerebbe una breccia generazionale pericolosa, si prevede che, decorso un determinato periodo, la riforma dovrà essere applicata a tutti i rapporti di lavoro (costituendi e costituiti).

La presente proposta di legge guarda alle logiche di flexsecurity già presenti nell’area nord-europea, che vedono coinvolti non solo l’impegno di risorse pubbliche, ma anche la capacità sussidiaria della società civile. La proposta prevede che le parti sociali, così come i singoli individui, possano determinare le forme di ricollocazione e di sostegno al reddito, coinvolgendo in questo modo tutti gli interessi sociali e andando a determinare minori oneri per la collettività.

Questa proposta mira, inoltre, non tanto ad un’evoluzione dell’efficienza dei servizi pubblici di formazione e collocamento al lavoro, quanto soprattutto all’attivazione da parte delle imprese stesse di nuove strutture di servizi o all’utilizzo di servizi di somministrazione, selezione e formazione privati anche già esistenti.

La relazione tra “contratto di sussidiarietà” e il suo costo per l’impresa è l’elemento di causa che deve innescare le performance di questo nuovo sistema sociale di ammortizzazione: in tal senso, se da una parte le imprese si dovranno caricare parzialmente l’onere di ricollocare il lavoratore licenziato, dall’altra viene riconosciuto il diritto di poter licenziare un lavoratore senza dover avere il timore dell’applicazione dell’art. 18 legge n. 300/1970. La reintegra, tuttavia, non viene cancellata dall’ordinamento, ma è sostituita dalla facoltà concessa ad entrambe le parti o ad una sola di esse, di scegliere tra l’applicazione della reintegra o dell’indennizzo. La reintegra, così come regolata dal vecchio ordinamento, rimane applicabile solo nel caso di licenziamento discriminatorio.

Il contratto di sussidiarietà avrà come obiettivo finale la riqualificazione del lavoratore dipendente e il suo reinserimento nel mercato del lavoro, aiutando nel frattempo il lavoratore attraverso un sussidio il cui onere sarà in parte sostenuto dal datore di lavoro e in parte dall’istituto previdenziale. L’indennizzo derivante dal contratto di sussidiarietà sarà dovuto in caso di licenziamento al lavoratore con più di un anno di anzianità di servizio, e potrà avere durata massima pari a 36 mesi. Per il primo anno, l’indennizzo sarà totalmente corrisposto dall’istituto previdenziale, per un ammontare pari all’80 per cento della retribuzione che il dipendente avrebbe percepito se non fosse stato licenziato, nel rispetto, però, di un massimale mensile pari ad euro 2.500,00; per il secondo anno, il trattamento corrisposto dall’istituto viene ridotto al 60 per cento e la differenza sarà corrisposta dal datore di lavoro, per un ammontare pari al 20 per cento, nel rispetto del massimale complessivo mensile pari ad euro 2.500,00; per il terzo anno, l’indennità erogata dall’istituto si riduce al 40 per cento e la differenza sarà corrisposta dal datore di lavoro per un ammontare pari al 40 per cento, nel rispetto del massimale complessivo mensile pari ad euro 2.500,00. Nella peggiore delle ipotesi, nella quale il lavoratore rimanesse disoccupato per tutto il triennio, il trattamento complessivo di sussidiarietà ammonterebbe dunque al (80 per cento + 80 per cento + 80 per cento=) 240 per cento dell’ultima retribuzione annua lorda, cioè a quasi due annualità e mezzo suddivise in tre anni. Il costo per l’impresa, invece, ammonterebbe soltanto al 20 per cento per il secondo anno e al 40 per cento per i successivi 12 mesi; dal momento che sul trattamento complementare erogato dall’azienda non graverebbe la contribuzione previdenziale, il costo complessivo che ne conseguirebbe a carico dell’impresa, nell’ipotesi peggiore in cui lo stato di disoccupazione duri tre anni, sarebbe pari a poco più di sette mesi di costo aziendale del rapporto.

L’ulteriore aspetto riformatore della nostra proposta di legge riguarda la riformulazione della definizione di lavoro subordinato. L’operazione risulta necessaria al fine di garantire maggiore efficacia alla riconfigurazione di alcune tipologie di rapporti di lavoro già tipizzate nel nostro ordinamento, ma che sino ad oggi sono state utilizzate in modo distorsivo ed elusivo. In particolare, rientrano in queste ipotesi i contratti a progetto o mini co.co.co, così come le associazioni in partecipazione. Si è pertanto ripresa la preziosa definizione dell’art. 2094 c.c. E poi, con un procedimento di assimilazione che definisce una presunzione di legge, vengono ricomprese nel lavoro subordinato anche le attività di lavoro in forma di collaborazione coordinata a progetto di cui al comma 1° dell’art.del D.Lgs. n.276/2003 per le quali sussista un rapporto di monocommittenza e per le quali si percepisca un compenso annuo inferiore a euro 30.000,00, nonché quelle attività per le quali si operi in forma associata ai sensi dell’art. 2549 del codice civile senza che sia prevista, oltre all’apporto dell’opera da parte dell’associato, anche una quota di capitale non inferiore a 5.000,00 euro, e, ancora, le prestazioni di lavoro svolte in regime di mono-committenza anche se in forma autonoma o con l’attribuzione della partita IVA per le quali venga previsto un compenso annuo inferiore a euro 30.000,00. La proposta non preclude in assoluto la stipula di questi rapporti, ma, al fine di superare la presunzione legale di subordinazione, li vincola alla certificazione, così come regolata ai sensi degli artt. 75 e seguenti del D.Lgs. n. 276/2003 e degli artt. 30 e 31 della legge n. 183/2010.

Questa proposta di legge, in conclusione, vuole posare il primo mattone di un mercato per il lavoro, nel quale lo sforzo più significativo non sia quello di tutelare il posto di lavoro in quanto tale, bensì quello di creare nuove opportunità di lavoro. Un mercato capace di sviluppare competenza, un mercato che metta al primo posto l’uomo e quindi rivoluzioni la visione del lavoro, da risorsa da sfruttare a prezioso capitale sul quale investire.

 

www.partitodeglioutsider.it

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