Giovedì, 18 aprile 2024 - ore 18.35

Serventi E. Terra Amata (3 parte)

| Scritto da Redazione
Serventi E. Terra Amata  (3 parte)

Nella stagione irrigua, che era poi quella di quei mesi, il bàlio stava alzato anche la notte ed andava per campi facendosi luce con una lampada funzionante con gas  di carburo, portando, appoggiato ad una spalla, un badile  dal manico lungo e la lama stretta. Una mattina lo vidi tornare di corsa ed in fretta ripartire armato di un aggeggio per la pesca che chiamavano “roussòol”. Aveva visto tre grossi pesci, provveduto alla chiusura delle  uscite del fosso in modo che restassero imprigionati, si apprestava a dargli la caccia. SE presi quel giorno ci sarebbe stata la pietanza che loro chiamavano “sèech”. Ma non andò così ed anche quel giorno mangiammo solo la minestra d’anellini e foglie di cavolo.  Gli anellini per la eccessiva cottura e,  probabilmente,per la scarsa qualità della semola raddoppiavano la loro grandezza e si facevano mollicci.

Pesanti si depositavano in uno spesso strato sul fondo del grosso piatto concavo diventando infiniti, l’odore del cavolo in cottura e quella pasta di piccolo formato ancora mi inducono un senso di rifiuto. IN anni più tardi, ormai diventato giovanotto, quando giravo i paesi della provincia propagandando idee socialiste  cercando di organizzare i compagni,  rimangiai più volte quella minestra. Non di rado,  nel mio andare, capitavo a Torricella del Pizzo, un paese di rosse teste calde nella bassa pianura,  ed i compagni Peri  mi ospitavano nella loro casa. Aveva una piccola vigna a pergolato ed il muro custodiva il colore verde del solfato di antiche irrorazioni. La casa  era sotto la scarpa dell’argine , dall’altra parte la golena del fiume,  ed il PO si vedeva stando sulla sommità del terrapieno. Arrivavo come ospite inatteso e loro, si direbbe oggi, “aggiungevano un posto a tavola”. Così eravamo in sei attorno a quel tavolo. IL nonno, tra una cucchiaiata e l’altra, raccontava storie di un socialismo antico. Ascoltavo storie già sentite  e mangiavo quella  minestra  generosa che solo il cuore, per non offendere,  mi impediva di rifiutare.  IO non ricordo se, a casa della balia, dopo la minestra ci fosse una pietanza, salvo la volta che decisero d’interrompere l’agonia di un pollastrello che non voleva crescere. Era piccolo,  venne lessato in un’ intingolo rosso e dato da mangiare a me, che ero l’ospite di riguardo, e a Severina che sembrava la più cagionevole di salute. Pino si risentì di quella esclusione, parlò vivace con la balia e mentre parlava lo sguardo e gli occhi guardavano il mio piatto.

A  mezzogiorno non c’era l’abitudine di sedersi a tavola, ognuno si metteva dove voleva.  Io mi mettevo a tavola ma quasi tutti andavano a sedersi fuori, sulla porta di casa e mangiavano la loro minestra tenendo la fondina in mano o appoggiandola alle ginocchia. Poi rientravano per riempirla una seconda volta. NON era così a cena. L’ enorme polenta  sembrava attivare una necessità di comunione e tutti ci si sedevamo attorno.  Fumava ed era bella la polenta, perfettamente rotonda lasciava libero un piccolo bordo del tagliere e gli occhi di tutti erano per le mani della bàlia che, con un filo di refe tenuto teso, passato da sotto e tirato  verso l’alto, ne tagliava  perfette fette. IO allungavo il piatto,  vicino al tagliere lo appoggiavo al tavolo per evitare che il peso della fetta me lo togliesse di mano. Poi, ricevuta la mia parte, lo ritiravo mentre lei  si soffiava sulle punte delle dita per rinfrescarle. La polenta  era cotta al fuoco del camino, il paiolo appeso ad una catena che pendeva dall’alto e tutto era nero di vecchia fuliggine.  Dondolava,il paiolo, ad una giusta distanza dalla brace ed il dondolio impediva che la polenta venisse girata e rigirata con quel bastone, che  non capivo perché, dovesse  essere necessariamente ricurvo. IL  dondolio veniva fermato con  un coppo messo in modo che con una estremità appoggiasse al paiolo e con l’altra a terra,  quasi a costituire un ponte inclinato che scavalcava il cerchio del fuoco.  Con un piede,il coppo  veniva tenuto calcato contro il paiolo che andava ad incastrarsi nello spazio fra due pietre che sporgevano dal muro retrostante  ed in questo modo tenuto fermo. La bàlia si reggeva appoggiandosi ad un solo piede, con l’altro spingeva il coppo che a sua volta  teneva incastrato il paiolo fra le pietre e con le mani, apparentemente senza sforzo, imprimeva al bastone ricurvo  un movimento che diventava circolare. Era un complicato equilibrismo di spinte e controspinte, di meccanica del corpo, di primitivo spontaneo inconsapevole uso di quel complesso chiamato “biella-manovella” costituito dal movimento orizzontale del braccio che si trasformava  nel verticale movimento circolare del bastone ricurvo.

Forse, al di là dei calcoli di matematici e dell’ingegnosità di ingegneri antichi,  l’idea di come trasformare un movimento orizzontale in uno circolare  o alternato è proprio sorta dall’osservazione casuale di come si rigirava una polenta e a quegli anonimi, spontanei ed inconsapevoli meccanici ne andrebbe riconosciuto il merito.  Il camino era grande ed ai lati aveva due rialzi di pietra quadrati sopra uno dei quali io mi sedevo durante la cottura della polenta. IL fuoco, dopo la prima fiammata, veniva tenuto basso ed il  riverbero del suo calore piacevole anche se i mesi erano estivi. IO parlavo alla bàlia e lei mi parlava.  Quando alla mattina scendevo dalla camera dove avevo dormito la polenta, quella avanzata dalla sera precedente, la trovavo, tagliata a fette, esposta a riscaldarsi alla brace del camino, quasi pronte per la colazione. Infilate in due aggeggi di ferro semi circolari che avevano la particolarità di tenerle verticali, andavano rigirate perché si abbrustolissero sia dall’una che dall’altra parte. Poi intingendole nel latte facevo colazione. Quella di andare a prendere il latte era forse l’unica incombenza fissa alla quale dovevo assolvere. IL latte, non so in quale misura, faceva parte della cosiddetta “retribuzione  in natura” ed era prevista dal patto colonico. Quando  verso le quattro del pomeriggio, finiti i lavori di mungitura e pulizia, il capo bergamino  suonava il corno, con il mio pentolino andavo alla stalla e li mi trovavo con donne anziane e qualche ragazzo. Nella passatoia centrale della stalla ci  si disponeva in fila davanti ai bidoni  straripanti di schiuma e mosche, fra due file di vacche defecanti, e gli schizzi arrivano fino a noi ed ai bidoni del latte, ma nessuno ci faceva caso. Il capo bergamino distribuiva il latte servendosi delle “misure”, cilindri di lamiera zincata con diversa misurata capacità muniti di un manico lungo, verticale, che avrebbe permesso di attingere il latte  dalla profondità del bidone. Ma lui, il capo bergamino, parteggiava per il padrone, spesso attingeva in superficie  e la misura in buona parte si riempiva solo di schiuma. Questo provocava rabbia e risentimento nelle donne come la volta che sorpresero la cameriera dell’agrario  buttare nella concimaia un cesto  di frutta andata a male. “La fanno marcire, la potrebbero dare ai nostri bambini che non ne mangiano mai” e, con risentimento, della cosa si parlò a lungo.

Certo la campagna era più sicura della città, lì non cerano obbiettivi sensibili che attirassero bombardamenti aerei, ma questo non impediva che Pippo, il ricognitore, volasse anche da quelle parti. Al “Dosso Cavallino”, chissà il perché, una mattina mitragliò il carro ed il cavallo di un mugnaio che andava per il suo giro. Morì il cavallo, l’uomo restò incolume e per i campi circostanti si sparsero i bossoli della mitraglia. Belli, di ottone lucido, di due misure, una da “12” e l’altra da “20” dicevano gli esperti e noi ragazzi andavamo alla loro ricerca.  Fra noi divennero oggetto di scambio.  Nelle cucine,  riposti sulle mensole dei camini,  furono motivi di ornamento e di sostegno  per le candele.

   Venne anche la volta della vicina chiesa  ed il tetto della   canonica del Migliaro quasi crollò  colpito da uno“spezzone dirompente”. Gli “spezzoni” piccole bombe per bombardamento   aereo erano di due tipi, “incendiari” e “dirompenti”. Il bombardiere le usava a discrezione, secondo l’effetto che voleva ottenere.  A volte, la notte, in lontananza si vedevano lampi  e bagliori rossi che si accendevano e che si spegnevano in continuazione. IO e Pino li guardavamo dalla finestra della nostra camera che era in alto, al primo piano, ed in quel punto ed in quella direzione le piante non si frapponevano all’orizzonte. Quando oltre ai bagliori si sentivano anche  più vicini i rombi scendevamo, andando a cercare protezione sotto la volta dell’ingresso secondario della  cascina, oltre le stalle dei buoi e dei cavalli, luogo ritenuto il più sicuro. Ognuno portava quel che aveva di più caro da salvare  ed io, che in quelle settimane avevo imparato a camminare con i piedi scalzi,  portavo in mano gli stivali del collegio,  alti alla caviglia, neri e con i ganci per le stringhe. Per non offrire facile bersaglio, in quelle notti chiare di luna avevamo cura di non attraversare l’aia dove saremmo stati certamente visti dai piloti,magari scambiati per soldati che andavano appostandosi e forse, per questo, mitragliati. Raggiungevamo il nostro rifugio camminando accostati all’alta siepe del giardino del padrone, nella penombra.

   L’estate e l’autunno erano le stagioni nelle quali si accumulava in casa quel che sarebbe servito per superare l’inverno, fino alla stagione del nuovo raccolto. Al primo piano, nella stanza a fianco di quella dove dormivo,sul pavimento era ammucchiato il frumento dell’ultima trebbiatura e presto sarebbe stato affiancato dal granoturco che maturava più avanti, ad agosto inoltrato ed a settembre.  Dal soffitto penzolava un filo al quale era appeso un grosso trancio di lardo, segno della probabile uccisione del maiale nel novembre passato. Nei cassetti di un comò era riposto l’ultimo pane biscottato che non avrebbe superato l’autunno,  e già si parlava di rifarlo. Sentivo che se ne parlava a cena; bisognava prenotare l’uso del forno che era comune con tutti gli altri abitanti della cascina;  dare una certa quantità di grano al mugnaio perché, dopo averne trattenuta una parte per il suo compenso, riportasse la farina necessaria; accertarsi della disponibilità del panettiere a venire con la  gramola.   Incerta era la quantità

 di grano che il fornaio avrebbe voluto a compenso  del suo lavoro e di questo si parlava,  riportando esempi e cose sentite. Qui, a Terra Amata, ancora era in uso una residua forma di baratto: si scambiava la “roba” con altra “roba”,   chi non aveva altro da scambiare  offriva il proprio lavoro in cambio della “roba” della quale aveva bisogno e nella permuta non   compariva  il denaro. Era così per il latte che con il pentolino andavo a prendere alla stalla; per la foglia dei gelsi indispensabile a nutrire bachi i da seta, alla legna minuta  ed ai tutoli per  i fuochi del camino e del forno; all’orto; al luogo dove allevare il maiale ed al diverso grano per le farine. Quando quella mattina  scesi dalla camera dove dormivo la farina con l’acqua era già stata impastata e la gramola in movimento. La gramola, un marchingegno costruito con robusto legno, serviva ad amalgamare omogeneamente l’impasto.  Era, la gramola, una specie di tavolinotto basso sopra il quale, manovrando una leva, si alzava ed abbassava in continuazione un traverso di legno. Nello spazio che si apriva fra il piano del basso tavolo ed il traverso in movimento, il fornaio posizionava, girava e rigirava l’impasto in  sincronia con il movimento di chi  manovrava la leva, fino ad ottenerne  un’ amalgama omogenea. E la leva ed il movimento per manovrarla, erano simili  al movimento della leva del mantice dell’organo di Sant’ Agostino che sperimentai in anni più tardi.. Il forno, caricato con legna di fascine e tutoli che non facevano braci, si riscaldava al loro fuoco vivace ed quello di quei legni sottili e quel che  restava era solo cenere. Spentosi il fuoco, il piano del forno venne ripulito  dai pochi detriti.  Infornato il pane da biscottare non rimase che aspettare  e la speranza era  che la temperatura del forno fosse quella giusta in modo che il pane biscottasse rimanendo bianco, senza arrossarsi per eccessivo calore. IL pane venne tolto che era pomeriggio inoltrato, cavato dal forno con una pala sottile e larga dal lungo manico e depositato delicatamente, affinché le forme non si rompessero,  in un cesto rivestito con un lenzuolo bianco e coperto con i lembi dello stesso  telo affinché  raffreddasse lentamente. Al residuo calore del forno vennero messe a cuocere  alcune forme di pane  da consumarsi subito e le “chisòole” con lo zucchero. E alla sera ed il giorno  dopo fu festa.

              IL grano turco da noi lo si coltiva ancora, lo vedo dall’alto dell’argine quando vado in bicicletta, rigoglioso, perfettamente allineato in solchi diritti  che macchine gigantesche hanno scavato. Anche prossimo alla maturazione mantiene integro il suo fogliame e la cima,  che nei giorni di Terra Amata sarebbero stati da tempo tolti per permettere al sole di raggiungere il fuso e di maturarne il grano.Perfetti ed uguali sono anche i fusi: rigorosamente due per ogni  gambo. Poi una macchina ancora più grande, lenta ma continua, svolge tutte le operazioni che un tempo richiedeva  prevalentemente il lavoro delle donne. Ed un rimorchio porta via il frutto pronto per l’essicatoio. Ma al tempo di Terra Amata non era così. In uno scandito ordine di tempo ed in fasi successive il grano, dopo la seminagione,  andava sarchiato,  privato del fogliame, mutilato della cima,raccolto e con dei cesti portato fuori dal campo, caricato sui carri, scartocciato, trebbiato, messo ad asciugare. Erano le donne che alla mattina stendevano il grano sull’aia perché il sole lo essiccasse. Ogni famiglia compartecipante stendeva il proprio grano e l’aia si ricopriva di tanti riquadri colorati, divisi fra loro da stretti camminamenti. Ed in quei riquadri scorazzavano fameliche le galline  a beccare sempre nel riquadro del vicino e ne nascevano piccole liti.  Alla sera, per evitare che l’aria della notte lo inumidisse di nuovo, ognuno ammucchiava il proprio grano coprendolo con teli di sacco.  Non vi era compenso in denaro per il lavoro svolto ma una iniqua divisione del raccolto: tre quarti al padrone ed un quarto al compartecipante e la parte del padrone doveva essere portata nel suo granaio, il punto più alto della casa dove lui abitava, servendosi  di una scala a pioli.   Era la così detta  “compartecipazione” dove la proprietà forniva le sementi e la famiglia bracciantile, compresi i ragazzi, tutto   il lavoro necessario. Ed  era un lavoro  svolto prevalentemente dalle donne senza diritti o tutele. . Solo in anni futuri nelle piattaforme rivendicative per il rinnovo dei patti colonici vennero inserite  richieste specifiche a tutela del lavoro delle donne compartecipanti.  Poi la compartecipazione sparì.

    Con quello del granoturco passò anche il mio tempo campagnolo. Ad ottobre  si sarebbero riaperte le scuole e rientrai in collegio  con  qualche giorno d’anticipo. In quel tempo di chiusura il collegio era stato saccheggiato, non seppi mai con certezza se da tedeschi o da  brigata nera. A dire di Delfanti, che passò l’estate  in istituto, furono i fascisti.  I camion, non passando per la strettoia del cancello, aspettarono in strada,  i letti vennero calati;  cuscini, lenzuola e  materassi dalle finestre gettati nel cortile .  Noi dormimmo nei letti e sui materassi di crine che l’Ente Comunale d’Assistenza ci mandò prelevandoli dai magazzini del “dormitorio pubblico” e quell’inverno pidocchi ed altri parassiti furono tanti.

 

Ennio Serventi
Terza ed ultima parte di “ Terra Amata”

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